Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Francesco Catalano

 

Sui muri del castello di Gorizia
cercavo i fori delle pallottole
di Marzabotto: non li ho trovati.
Era una gita scolastica di dieci anni fa,
sotto un sole impietoso salvifiche
le bottiglie di latte riempite d’acqua.

Presto le risa sono diventate silenzio,
l’estate un pensoso autunno.
Scorrevano grigi e tremendi i nomi
sulle targhe; il dito incredulo tra i fori
risvegliava le grida; l’orrore.
Non mi sono azzardato a toccarli,
quei fori: per la paura di poter sentire
un seppur minimo residuo di calore.

A Gorizia, stupido, non li posso trovare:
li ritroverò a Marzabotto?
Se gli inverni e i venti non hanno eroso
quelle pareti, fatte diventare anonime,
dissolte nell’aria degli anni.
Sappiamo ancora risvegliare
la memoria della Memoria?

*

Non so quanto valga un tallero,
se lo domanda più avanti anche Joyce,
o forse no, non l’ha nemmeno visto.
Si chiede come ci sia capitato
lì dove si mischiano una maldestra
imitazione veneziana, una moneta
turca ormai sgombra di invasione
e un ultimo e lontano afflato greco-ortodosso.

Sembra che il vento soffi dalla Croazia,
ne avevo visto la bandiera sul muro.
Mi avevano detto che ci era nato mio nonno,
in età fascista, una terra di mare
contesa, conquistata, riconquistata.

Ci contendiamo origini e tradizioni,
ma restiamo un mucchio, spesso indistinto,
di etnie, pezzi di terre sfrangiate,
pur sempre terra, con o senza bandiera.
Tanto vale se sei disperso sentirti a casa:
in qualche modo/tempo lo sarà stata,
forse lo sarà.

(Trieste, marzo 2023)

*

Si muoveva una folla prosperosa
tra gli stucchi autunnali a place de Saint-Jaume:
avevamo deciso d’inebriarci
mimetizzarci nelle onde lente
del movimento basso dalle torri.
Ti nascondevi dietro l’orizzonte
dell’anfora di sangria (sincera
nella tua inappartenenza al vino),
mentre mi camuffavo dietro un gracias
goffo e italiano al cameriere muto.
Alla fine ero io che ti davo il braccetto
attaccandoti quel sorriso gradasso
che ti piaceva accudire silenziosa.
Sono finito in una libreria
troppo piccola e piena con in mano
un libro di Elouard in catalano,
mentre tu lesta facevi una foto.

Ti piace catturare lo sguardo mite
che fa capolino tra le pagine.
E la naturalezza delle cose,
e la vita in presenza.

 

Francesco Catalano, nato a Novafeltria (PU) nel 2000, si è diplomato presso il Liceo Scientifico “Tonino Guerra” e si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Bologna, con una tesi sulla poesia contemporanea dal titolo «Le maschere e i ritratti di Maurizio Cucchi: una ‘autobiologia’ per interposte figure». Attualmente è studente di Italianistica presso il medesimo ateneo. Alcuni suoi testi poetici sono stati pubblicati su «Repubblica – Milano» e il suo primo libro di poesia, La cenere e l’oceano, è stato edito da Edizioni Effetto. Appassionato di cinema, dirige «Solaris», un blog d’approfondimento sulla settima arte.

 

All’interno del panorama del fiorente neolirismo ultracontemporaneo, interessante è la proposta di Francesco Catalano il quale, fin da subito, si palesa come “allievo” di Maurizio Cucchi sia per cursus studiorum che per ascendenza poetica. Catalano è infatti un giovane poeta apparentemente ligio al filone lirico e civile che non si pone l’impervio obiettivo di svecchiare lo svecchiabile all’interno dell’angusto perimetro dell’epigonismo massivo ligio al percorso, già infinite volte battuto, della poesia lirica. Andando a leggere più a fondo, tuttavia, ci rendiamo conto del fatto che egli, in effetti, non si pone a tale cimento perché, intelligentemente, sa benissimo che non sarebbe possibile ripagare lo sforzo in termini di definizione di una poetica personale. Egli si rende perfettamente conto dell’indubitabile condizione di in un universo poetico, quello lirico, in cui tutto è stato già detto e tutto è stato già scritto. Vale, allora, la pura e semplice qualità dei versi, prova in cui Catalano scopre chiaramente e coraggiosamente le proprie carte. I primi due componimenti qui proposti si incastonano nell’ambito di una pregevole poesia civile che non rinuncia all’espressione di una compartecipazione sentimentale all’eventum: nella fattispecie, la strage di Marzabotto, che egli, ragazzo inesperto, non può trovare sui fori del castello di Gorizia, evocando l’estraneità sereniana al tempo della Storia, e la sensazione di dispersione identitaria derivata da luoghi e tempi inflazionati abitualmente dalla retorica (il confine croato della seconda guerra mondiale con il loro portato storico doloroso, le foibe, le doline del maresciallo Tito…). Nel terzo testo, invece, emerge l’anima più spiritualmente lirica dell’autore, con quell’attitudine delicata e gentile a cogliere il momento rinchiuso nelle quattro mura della memoria, in un referenziale gioco di rimandi tra l’io e il tu, cuore dell’evocazione poetica di un componimento denso di grazia ed esemplarità.