NÓSTOS
 
di Giuseppina Palo
Recensione di Ivano Mugnaini
 
I luoghi del cuore presto o tardi li perdiamo e presto o tardi li ritroviamo. Noi, viaggiatori per scelta e per necessità, Ulisse dispersi in cerca della nostra individuale Itaca, sappiamo nel nostro profondo che verremo sbattuti
su scogli abitati da mostri e da ciclopi che ci vorrebbero divorare ma sappiamo altrettanto bene che, se sapremo attenderlo, se sapremo riconoscerlo, un colpo di vento ci riporterà a casa, prima o poi. E saremo a casa, davvero. Forse per la prima volta. In ogni circostanza in cui questo umanissimo prodigio accade, si vive, nel profondo, l’esperienza del νόστος, il ritorno ad un luogo e ad un tempo, da cui (ce ne accorgiamo in un istante di consapevolezza e magia) in fondo non ci eravamo mai distaccati, perché è sempre stato dentro di noi, anzi, è
sempre stato noi, il nostro essere autentico. Nel momento del ritorno alle origini, ritroveremo noi stessi identici
eppure mutati. Perché il viaggio avrà messo a confronto passato e presente, in virtù di quella compenetrazione a cui si è fatto cenno, che non è semplice sovrapposizione ma vera e propria simbiosi con riflessi immediati sulla
sensibilità e sul modo di vedere il mondo e noi stessi in relazione ad esso. Non è un caso allora (Giuseppina Palo ce lo indica a più riprese nel suo libro) che siano proprie le cose in apparenze piccole, i dettagli, i gesti antichi ripetuti da mani esperte e gli sguardi profondi nutriti di silenzi a parlare, rivelandoci la chiave, il senso, raccontando i secoli passati, le sofferenze e la forza vitale con cui la vita riprende il suo posto in una terra ostile e dolcissima.
“Talvolta crediamo di aver nostalgia di un luogo lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo quando eravamo più giovani e freschi. Così il tempo ci inganna sotto la maschera
dello spazio. Se facciamo il viaggio e andiamo là, ci accorgiamo dell’inganno”, osserva Schopenhauer. Gli fa eco, tra analogia e sostanziale variazione sul tema, Fernando Pessoa “E dopotutto ci sono tante consolazioni! C’è l’alto cielo azzurro, limpido e sereno, in cui fluttuano sempre nuvole imperfette. E la brezza lieve […] e, alla fine, arrivano
sempre i ricordi, con le loro nostalgie e la loro speranza, e un sorriso di magia alla finestra del mondo, quello che vorremmo, bussando alla porta di quello che siamo”.
La parola “nóstos” è connessa al viaggio, ma è ugualmente correlata al concetto, anzi al sentimento di “nostalgia”. Non ci troviamo quindi di fronte ad un semplice spostamento nello spazio, ad un tragitto che ci conduce in un altro posto. Nóstos è un moto di ricerca, il desiderio del ritorno, il senso di qualcosa di perduto, strappato via dal tempo e dagli eventi, che desideriamo recuperare, andandogli incontro, ripercorrendo le strade condivise, con la speranza di ritrovare il suo volto e la sua voce, mutata eppure, nel profondo, inequivocabilmente sua. In molte lingue europee esiste il termine “nostalgia”. Gli spagnoli usano invece añoranza , i portoghesi e i brasiliani saudade. Un’interessante
distinzione, non solo a livello linguistico è presente nella lingua inglese che fa ricorso a due termini distinti:
nostalgia in senso lato e homesickness, nostalgia della propria casa. Nel libro della Palo il nóstos si manifesta in
entrambe le forme e accezioni. È predominante tuttavia la nostalgia di casa, anche e soprattutto in senso lato, in qualità di luogo, fisico e simbolico, in cui è racchiusa la vera individualità, le radici profonde dell’essere, nel tempo e al di là del tempo. È un’esplorazione, questo libro, diretta in tutte le direzioni, e con tutti i mezzi espressivi che fanno da sentiero, mezzo di trasporto e compagno di viaggio al contempo. Poesia e prosa camminano fianco a
fianco, così come vanno di pari passo la scrittura e la vita. Ciò consente anche al lettore un’identificazione progressiva il cui obiettivo è far sì che la casa, il punto verso cui si procede, diventi ad un certo momento patria
universale nell’istante in cui, con naturalezza, i riferimenti a città, paesi e paesaggi concreti diventano luoghi della mente. La dedica posta in apertura è a Francesco D’Episcopo, poeta e mentore dell’autrice, il quale evidenzia le radici profonde da cui trae origine l’esplorazione autonoma di Giuseppina Palo. E aggiunge che anche per lui la poesia come la Sardegna è un’isola amata.
La nota introduttiva, il “Prologo” del libro è affidato a Luca Benassi. È utile citarne qui alcuni brani: “Giuseppina Palo offre la sua sensibilità per portarci nella Sardegna del cuore, quella dura di granito e dolce come la pasta di mandorle, una Sardegna che sfida il tempo e gli resiste”. L’accento viene posto su una parola che è sempre di notevole rilievo, “resistenza”. Benassi riprende il discorso più avanti nel suo scritto e lo amplia in questi termini: “Giuseppina Palo ha in mente questa resistenza culturale e fa affiorare nei suoi testi pezzi di storia, elementi di un
melting pot mediterraneo, nuragico, greco, fenicio, punico, romano, bizantino, arabo, spagnolo, piemontese, per addensarsi in una scrittura ricca di suggestioni e rimandi, che rendono l’antico e il remoto vivo e contemporaneo”.
Resistenza culturale e nostalgia, vengono dunque a costituire un binomio, la cui portata, tuttavia, non è solo rivolta al passato. Non siamo di fronte, è opportuno evidenziarlo, ad una pura e semplice esaltazione delle neiges d’antan, per dirlo con i versi di François Villon. La nostalgia di questo libro non è struggimento fine a se stesso né un lento assaporare dalle parole il gusto agrodolce del rimpianto. C’è nell’autrice un desiderio di muoversi in direzioni avulse dalla folla e dall’omologazione odierna, per ritrovare in altri ritmi e altri luoghi la forza e la determinazione per vivere
appieno il tempo presente.
Tornando nuovamente alle parole di Francesco D’Episcopo, nello specifico allo scritto conclusivo o “Epilogo” dal titolo “Sardegna come mito”, troviamo le seguenti annotazioni: “Giuseppina Palo, che seguo poeticamente da sempre, sta imprimendo una svolta significativa alla sua vena creativa, consacrandola ai viaggi, ma non a quelli che si fanno per caso, per ammirare la bellezza, ma quelli che hanno segnato e continuano a segnare la propria vita e che nella poesia trovano la loro espressione più autentica e assoluta. Viaggiare, allora, significa, come sempre, andare avanti, in progress, ma anche tornare indietro, à rebours, alla ricerca di quelle radici, che, penetrando profondamente nella terra, hanno dato una ragione alla nostra vita. […] Ogni libro su questa isola nostra, lontanamente vicina, evoca sensazioni di forte partecipazione emotiva, soprattutto, come in questo libro, quando esse si confrontano e si confondono grazie alla energia di una poesia, che non è altro che vita, sogno, desiderio, nostalgia”. Sottolinea gli elementi di base, i porti di partenza e di approdo a cui si è ripetutamente fatto cenno, D’Episcopo, ma inserisce (e certamente non a caso) un elemento in più, “desiderio”. L’etimologia del vocabolo “desiderio” è di per sé poetica, possiede un fascino evocativo. Il termine deriva dal latino desiderium, vocabolo
composto dalla preposizione de e dalla parola sidus, sideris . Il desiderio, dunque, ha a che fare con le stelle. In latino desiderare, infinito presente attivo di desidero, equivale a “sentire la mancanza di”, derivato di sidus,
“costellazione, stella”, ossia, avere nostalgia delle stelle. Nel linguaggio augurale o dei marinai, constatare l’assenza di un astro significava delusione, rimpianto, al contrario di considerare, constatare la sua presenza e per estensione “esaminare attentamente”. Desiderare in sostanza è volere, aspirare alle stelle; ossia alla bellezza, al fascino, all’attrazione per qualcosa che è lontano eppure presente, all’interno della sfera più intima. 
“A oriente, scendendo da Baunei / verso Santa Maria Navarrese, /
parole, immagini, pecore, fichi d’India, / piante mediterranee… / Dovevi
spostare antropologicamente / il passo dalle mattonelle del bagno / al
nóstos , tra frammenti di roccia / e schegge di mare, levigate dall’acqua. /
Non provocano ferite. / E il collo – non importa abbronzato, / ciò appartiene
all’estetica della vanità – / accettando il massaggio del sole, s’eleva / per la
sopravvivenza del corpo, come le giraffe. / Da qui alla mente la pulsione
che ravvifica / è di una nuova biologia aristotelica”. La lirica qui trascritta ha per titolo “Delle Scienze della vita” ed è esemplificativa, per vari aspetti, di quello spostamento, che nasce antropologico per poi diventare psicologico, per cui lo sguardo, e con esso la pulsione, si eleva, muta di natura e di prospettiva e dalle mattonelle del bagno si passa ad osservare, divenendone parte, il mare e il sole, in un sensuale, concretissimo massaggio, il desiderio da visivo si fa tattile. “Sulla strada, attraversando Ozieri, arrivammo poi a Pattada con costruzioni in stile Liberty e case in granito, abbellite da piante grasse. L’aquila reale nei cieli ci spinse verso campi sterminati e covoni di fieno,
di un giallo intenso, sotto il sole cocente di mezzogiorno. Pecore brucavano, col capo chinato, fra l’erba color ruggine”, annota la Palo, ed è ancora il sole a fare da protagonista. La descrizione ricorda, per il senso di
meraviglia, i diari dei viaggiatori del Grand Tour, il viaggio di istruzione e di immersione nel calore e nella bellezza mediterranea di Goethe e di altri grandi letterati e artisti. Manifesta lo stesso stupore estatico, Giuseppina Palo. A rigor di logica non dovrebbe accadere, perché il viaggio dell’autrice avviene in direzione della sua terra, di quella che in fondo è la sua pelle, i pori, le cicatrici del suo corpo, la carne della sua carne e il pensiero del suo pensiero. Eppure, nonostante tutto questo, l’emozione è vivissima, per lei e di riflesso per il lettore; perché una compenetrazione
così autentica equivale ad una rinascita. Il ritorno ai luoghi, alle radici, è di fatto una scoperta, un modo di vedere e sentire le cose in modo nuovo, e, quindi, per la prima volta. “Questo è un libro di strade e viottoli, e richiede al lettore che si metta in viaggio anche lui, prenda per mano Giuseppina Palo e si faccia guidare da lei per ritornare alla casa del cuore, dove è nato l’amore che ha generato la vita, nel transitare delle generazioni, alla ricerca di un Eden
dove ritrovare le antiche nozze dei progenitori”, rileva Benassi nel suo scritto introduttivo. Ed è un’esperienza la cui veridicità si sperimenta in ciascuna delle liriche e delle prose del libro. Nóstos è un volume deliberatamente multiforme. Lo è per scelta e per necessità, in quanto la varietà è propria della terra a cui è dedicato ed è coerente con le tematiche che tratta. Oltre al connubio di poesia e prosa, sussiste in ogni lirica anche la versione bilingue, in italiano e spagnolo, con la traduzione in spagnolo a cura di Carlos Vitale.
Nel 1479 Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia unirono le loro Corone in quella di Spagna, e con la nascita dell’Impero spagnolo nel 1492, il Regno di Sardegna divenne spagnolo. L’influsso spagnolo fu di rilievo in molteplici ambiti, tra cui quello artistico, con un notevole sviluppo dell’architettura e dell’arte sacra. Furono edificate infatti numerose chiese tardogotiche, rinascimentali e barocche, e si sviluppò a Cagliari la “Scuola di Stampace”, che ci ha lasciato dei bellissimi retabli.
A livello linguistico, tra le lingue straniere che hanno influenzato il sardo, lo spagnolo ha avuto un ruolo preponderante. Dal 1327 al 1720 in Sardegna lo spagnolo era lingua ufficiale nei tribunali e nelle scuole.
La scelta dello spagnolo come lingua da affiancare all’italiano nel libro di Giuseppina Palo è adeguata, anche per confermare la natura specifica dell’isola, allo stesso tempo chiusa in se stessa e soggetta, nella sua fascia costiera a innumerevoli contatti, ibridazioni e commistioni che hanno contribuito a plasmare e rendere fertile la sua arte e la vita quotidiana.
“Ho anche una foto con il costume sardo davanti l’ingresso di casa, che risale ai miei quindici anni. I gigli di campo… le porte antiche dei paesini dell’isola, con ripide salite, le scale in pietra, la sabbia di granito luminoso che splendeva sotto l’acqua… tutto intorno a me era poesia!”. I mille volti dell’isola si fanno uno, e l’autrice percepisce la propria
appartenenza anche nei dettagli, nei costumi, nelle porte antiche costantemente soggette al gioco di refoli contrastanti tra passato e presente, chiusura e apertura”.
Nóstos, porta sarda antica / Ricerca delle tue origini / Continuità e ritorno / Passato e presente / Segreto fra il tempo /E il tuo essere quindicenne / Piena di paura e desiderio / In cerca del mare e della vita /In attesa dell’amore / Fra le note dell’organetto ”. (I versi in corsivo sono di Luca Benassi). Il libro è una guida di viaggio per turisti che hanno dentro la ricerca dell’emozione, della nostalgia e della tensione alla ricerca racchiusi in un diario, un giornale di bordo dell’autrice che a sua volta sa farsi turista nella propria terra e ricavarne ulteriori annotazioni che diventano, nella loro
circolare pienezza, percepibili anche da parte dei lettori, condotti a fare un percorso che è prima di tutto e al termine di tutto, squisitamente interiore.
“Ci perdemmo, storditi dall’afa / e dalla stanchezza, ci perdemmo. /Non c’era più linea, / la mappa era persa. / Una famiglia di cavalli si cibava, / unita, in un campo a recinto. / Chiedemmo / ad alcuni automobilisti / dove andare, chiedemmo. / Sulla giusta direzione / un gregge sostava, / stretto, al riparo dal sole”. La lirica qui citata nella sua
interezza ha per titolo “All’ombra di un vecchio pero”. Conferma una caratteristica di numerose poesie del libro: per abilità o istinto (o entrambe le cose insieme) l’autrice mostra le cose lasciando margini di non detto; pianure riarse che il lettore deve percorrere da solo cercando fiori e profumi che gli diano la forza e il sapore del viaggio.
In quel non detto c’è qualcosa, forse la poesia delle cose, forse la vita. Passato e presente risultano indissolubilmente uniti, coesistenti. Allo stesso modo con cui la solennità (anche spirituale, anche della fede) in questo libro si sposa all’immediatezza dialogante. Il brano in prosa “L’io narrante” è una sorta di autoritratto interiore e spirituale che l’autrice realizza, per se stessa e per chi legge il suo libro: “Sono figlia del Mar Mediterraneo di navigatori antichi. I Bande, di nobili origini, attraversando, lungo le rotte del tempo, le acque dalla Grecia alla
Sardegna, nell’800, si fermarono ad Orani, un paese nel nuorese. […] Nella vaghezza dello spazio e del tempo, collegai manoscritti manzoniani, poemi omerici, testi storici, passi biblici. Si narra che durante il corso della Storia
antica siano vissuti agricoltori che coltivavano la terra nel Neolitico e che si siano sviluppate grandi civiltà in Mesopotamia, in Egitto, da dove il Signore fece uscire, sotto la guida di Mosè, il suo popolo per condurlo
verso un paese dove scorre latte e miele (Esodo 3,17)”. Poco più avanti annota che “In epoche successive la Serenissima Repubblica di Venezia ad navigandum nelle vie marittime del Mediterraneo venne a comprendere il
Peloponneso, Creta ed altre isole greche, attraverso le quali poteva raggiungere Costantinopoli per importare stoffe preziose, oggetti artistici, etc. Generazioni si sono susseguite nei secoli comprese quelle dei miei antenati”.
La mitologia familiare, come in Gabriel Garcia Marquez, trova qui un’eco significativa, adattata allo sfondo e orientata più sul versante storico e storico-religioso. Il villaggio marqueziano di Macondo si colloca sullo
sfondo e all’interno di una mitologia familiare, dove la realtà e la fantasia, la verità e la fiaba disegnano la storia dei Buendia, attraverso sei generazioni. Macondo può essere letto anche come una sintesi storica di tanti paesi latino-americani. In Giuseppina Palo la mitologia familiare si innesta sulla sete della conoscenza diretta, il viaggio, lo sguardo condiviso. Documenti, lettere, testimonianze raccolte con cura oppure trasmesse a voce sono il tessuto dei versi e delle narrazioni. “Varcai il mare, e nei divini incanti / dell’isola silente, giglio e rosa, /semplice e pia, quale astro rifulgente / non dotta allettatrice / dai simulati affetti, / io ti cercai, o mia diletta sposa”. Queste parole, corredate da firma, Remo Palo, luogo e data, Bultei, 23 giugno 1956, sono collocate con precisione dal punto di vista cronologico e geografico eppure sono in grado di rappresentare esperienze universali. Lo stesso accade per le “proustiane rievocazioni”, basate stavolta su suoni e immagini: “Indimenticabile per me! / Estate vissuta / nell’amataTERRA mia… / negli immensi paesaggi, / dove l’ALBA ha i colori rosei della serenità… / e l’AURORA caccia carezzandole le misteriose ombre della notte… / e l’ambiente pastorale offre la pace dei campi!”.
Siamo di fronte ad una poesia di impronta classica, con echi “omerici” verrebbe da dire. Ci sono però, ad ampliare gli orizzonti, riferimenti alla cultura attuale, al mondo odierno. Uno dei moltissimi esempi si trova nel titolo della poesia “The child is grown, the dream is gone…”, tratto dall’album dei Pink Floyd, Comfortably numb. Il “corto circuito cronologico” non spegne ma accende ed alimenta l’emozione. Una sintesi di numerosi temi, ambivalenze, analogie e contrasti che innervano il libro è contenuta nella poesia qui di seguito riportata: “A oriente… / parole, immagini, pecore, /fichi d’India, piante mediterranee. /Frammenti di roccia e schegge di mare, / levigate dall’acqua… /Nóstos,
porta sarda antica. / Ricerca delle tue origini. / Continuità e ritorno. /Presente e futuro. / Segreto nel tempo”.
L’apparenza di poesia descrittiva viene subito smentita dalla presenza del conflitto chiave, la lacerazione, lo iato tra ciò che era e ciò che è il mondo, il proprio e il mondo tout court. Il tutto è ripreso in più punti nel libro, tra cui ad esempio la poesia dal titolo lunghissimo ed evocativo “Fiori d’arancio e muschio nei viali di eucalipto – Gigli e limoni sulle terrazze della costa” in cui si osserva che “Lo sgretolamento delle rotte condusse / le forze residue nei bassifondi della disperazione. / Disuguaglianze e assilli climatici chiusero strade / con massi e recinti di filo spinato. / Vi fu un disorientamento di merci e di uomini / circolanti nel vuoto. / Élite di spie manovrava corpi chini / su
smartphones. / Poi le minacce vennero annientate da bussole / e la musica regalò alla terra un canto nuovo. / …
È una liturgia di dolore e di allegria /questa musica, Deus meu! / Perché musica è la voce di ogni popolo / che
raccoglie tutta la sua eredità…”. (Versi in corsivo da “Le Memorie della Musica” di Maria Carta).
Il lungo viaggio sulle strade dell’Isola e nei sentieri della propria interiorità, trova compimento per Giuseppina Palo, nell’ambito di una spiritualità fatta anche di gesti concreti e di insegnamenti universali il cui fine è il bene di tutti, non solo dei singoli individui ma del giardino condiviso che è la terra. Questa nota di speranza motivata dall’impegno fattivo, è contenuta ad esempio nel brano “Eri certa che il giardino rigoglioso sarebbe rifiorito” in cui, facendo ricorso alle parole di D’Episcopo, si rileva che “l’alta tensione tra poesia e prosa poetica […] attinge non a caso a una biblicità
secolare”. Il tutto è ripreso e ampliato nella poesia eponima, Nóstos, in cui i versi diventano quasi canto, inno ispirato, con due citazioni, tratte da Louisa May Alcott e Massimo Recalcati evidenziate dal corsivo: “Tu sei il gabbiano, Jo, forte e selvaggio! / e memorie antiche ti pervadono, / perdendoti nella musica del vento, / per poi ritrovarti, smarrita e lucida, / nei fogli della quotidianità. /Tu casa, tu nave, tu marinaio, tu uccello / dalle tempeste trovi riparo ideale, / dalla routine costantemente evadi, / perennemente ritorni sui tuoi passi. /Mantieni il bacio! L’amore ci salva dalla ferita…”.
Ogni libro su questa isola che è la terra, nostra, lontanamente vicina, oppure distante nello spazio ma affine per codici arcani e primigeni, evoca sensazioni di forte partecipazione emotiva. Ciò accade soprattutto quando,
come nel libro di Giuseppina Palo, le distanze, geografiche e psicologiche si confrontano e si confondono grazie all’energia di una poesia, antica e attualissima, che non è altro che vita, sogno, desiderio, nostalgia di un
ritorno che, anche quando utopico, in realtà è già dentro, alla portata della nostra emozione di fronte alla bellezza.
 
Ivano Mugnaini