——” è negli interstizi la chiave/ di una comprensione- “ note di lettura di Luigi Paraboschi a Dal buio, di Virginia Farina, ediz. Ensemble 2024

 

Ho scelto questo distico da una poesia a pagina 44 perché mi è parsa la chiave più vera per tentare la lettura della ultima raccolta “Dal buio“ di Farina, autrice che seguo da molti anni, riporto qui di seguito la mia chiusura del 2020 dopo la lettura della raccolta Oltremare: “E’ un’anima in ricerca che capisce, ama e sa di certo perdonare”.
Questo di oggi è un lavoro articolato in diverse scansioni che elenco:
– Dove finisce la notte
– Risvegli
– Canto per chi si è perduto
– Canto per un nemico
– La grazie dell’informe
 
Ovviamente non parlerò di ognuna di esse dettagliatamente, ma cercherò di trarne il filo conduttore, di esaminare gli interstizi del suo pensiero, ammesso che sia possibile ad uno sconosciuto quale sono.
Oserei dire che un interstizio importante sia la continua domanda che appare nei testi sul “da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo“, come titola un famoso quadro di Paul Gaugin.
Infatti, in una delle prime poesie, a pag. 17, a porci la domanda è la chiusura, che è un invito, un suggerimento, quasi una supplica: “capienti abbastanza / da accogliere tutta la notte / che siamo“.
 
Siamo notte e questa condizione impedisce sia di vedere che di essere visti, quindi siamo costretti a guardarci dentro e scopriamo, a pag. 18, “ l’incertezza spaventosa / del presente“ e chiediamo spazio, cerchiamo rifugio:
“ fammi casa nella precarietà / dell’amore / dove essere vivi è / quel che sappiamo / dove essere vivi / ci basta”.
Questa condizione di spaesamento le fa scrivere a pag. 21: “perdo l’orizzonte dell’ordito”, le fa vedere il “ filo solo
/ spaiato  nodo disfatto”, e invocare un aiuto a Tu indefinito (un uomo, un Dio, un incontro, chissà?) che possa agire nel “rammendami e rammentami del filo che qui mi precede e mi segue” e la possa esaudire nella richiesta di “tienimi sottile tra dita e dita“.
La nostra condizione di “essere al mondo ultimi nati” e anche “l’immane mistero di essere il minimo termine / al resto, eppure sapiente“ è greve, pesante da condurre avanti e per arrivarci occorre tornare a pag. 25 con una
invocazione a quel Tu di cui prima accennavo, che possa insegnarle come fare: “insegnami a respirare“ è reiterato per ben tre volte consecutive in apertura tre strofe diverse.

 
Nella seconda parte della raccolta, Risvegli, lo sguardo dell’autrice si apre in una poesia a pag. 29 nella quale lei osserva con benevolenza il succedersi di avvenimenti quotidiani, si posa brevemente sulle condizioni  meteorologiche, sulla temperatura, sui risvegli di chi ricorda una notte d’amore e di chi, invece, prega per un lutto, ma anche di madri che accompagnano i figli verso la scuola, e della natura ove “si compie il miracolo / d’un altro mattino“, nel quale l’invito è “entra nel mio mattino disarmato / a viso scoperto / guarda: /ogni cosa si farà
disegno / nelle spazio sgomberato / del tuo sguardo”.
Ma la sua attenzione non omette di osservare la condizione di vita di colui che è qui immigrato e si reca al lavoro attendendo: “l’azzurra corriera / che verrà dalla curva a portarci / dove ci faremo lavoro“, come anche non può ignorare che “le bombe sono cadute un po’ più in là / dove abita un uomo che non ci somiglia, dove piange una donna / che non sa questa lingua“, aggiunge più avanti “E se ci arriva un pensiero / lo scacciamo in fretta/ che tanto l’abitudine protegge / dall’acutezza del sentire / e non ci importa più chi / è vittima o assassino / nel gioco delle parti / è ormai la stessa cosa / finché non ci riguarda / o non capiamo / che tra le rive un mare / ci ricongiunge / in un identico destino”. Da appassionata fotografa Farina apre l’occhio della mente sopra la sua città, Bologna, che ogni mattino le appare come a pag. 38 “lavata/ ripulita e muta nel mattino lento / d’agosto svuotata da tutti gli impicci“;
ma nelle ore mattutine a pag. 39 “vengono con me tutte le cose buie, che silenziose / attendono di farsi chiarezza“.
Dentro lei nasce una consapevolezza quasi mistica, religiosa, dell’unità di tutto l’esistente che va dai muri e dalle strade alle vite minime e nascoste di ogni ripostiglio, angolo, crepa dove si annida un ragno, tocca gli oggetti nel lavello di una cucina, si perde assordata dentro l’urlo delle auto, è confusa dalla miriade di visi differenti, chiusi e spalancati, incontrati, e tale consapevolezza approda alla conclusiva constatazione: “siamo come una sola / vita / in questa sfera danzante / che nella distanza infine / ci veste ‘d’azzurro“.
Siamo partiti dagli interstizi, abbiamo appena toccato le angosce del risveglio, sentiamo il peso del vivere dentro la parole di Farina, avvertiamo l’impossibilità di capire il significato del nostro esistere e approdiamo a questo finale di pag.44 che suona: “e nonostante tutto non sappiamo / cosa ci getta in questo mondo / ma andiamo tentanto
prospettive / e in questo andare, incerti, è tutto il nostro stare“.
C’è smarrimento, spesso angoscia, per governare i quali occorre “esercizio/ paziente, costante”.
Il cammino di Farina è lento, faticoso, come succede a tutti noi quando vogliamo prendere coscienza del vivere e necessariamente chiediamo aiuto, come fa lei con questa poesia a pag. 46, che dice: “Vieni, bussami con urgenza / scardina le porte barricate / assedia la cinta del cuore / dove non ti sento accelera / il canto non lasciare / nessuna cosa impronunciata, nel torpore / scassina e richiama / l’attenzione di quanto in me / ti appartiene, il fiato / e la voce/ e questo battere sordo / nel petto / di un pugno / che ti rassomiglia”.​
 
E’ una preghiera questa che abbiamo letto, e per è me è rivolta a quel Tu cui accennavo in apertura, un’invocazione di aiuto in un momento di solitudine e disperata ricerca di capire, invocazione che le fa dire a pag 52:”Insegnami a
leggere i segni / del tempo, a indovinare / la direzione delle correnti / a riconoscere le ombre /
/ Insegnami a disabituare / gli occhi al mondo / ad abitare solo passi provvisori / a non aver paura del cambiare
/ se non è possibile vita senza mutamento / a non cercare oltre / se il troppo volere / ci sperde in nostalgia /
d’ altrove / mentre qui si spiega / quello che soltanto ora / ci è dato sapere”.
 
Non oso fare paragoni con alcuna preghiere di certi mistici o mistiche della storia, ma in queste parole ritroviamo lo stesso disorientamento, lo smarrimento di Gaugin di fronte alla bellezza dei luoghi e delle figure che incontrava in quei paesi polinesiani che lo portarono a ritornarci e morire, ricercando la pace al subbuglio interiore. È
lo stesso smarrimento che Eugenio Montale ha così ben descritto nel finale della poesia
“Meriggiare pallido e assorto“:
 
“E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”
 
Luigi Paraboschi
 
24.10.24

Virginia Farina nasce a Oristano nel 1978, vive e risiede a Bologna da diversi anni. I primi contatti con la poesia le arrivano attraverso il canto tradizionale sardo trasmessole dal padre. Nel 2019 vince il Premio “Versante ripido” per Opera prima che le permette di pubblicare la sua prima raccolta, Oltremare, nel 2020, per Terra d’Ulivi Edizioni. Nel 2021 vince il premio “Routes Méditerranéennes” promosso da UJCE e MAF (Marengo Alta Formazione) in collaborazione con il Premio “InediTO”, con il suo primo romanzo Figlia di frontiera, edito da Ensemble edizioni. Sempre nel 2021 vince con Aidos il terzo premio “Renato Giorgi” di Sasso Marconi per la silloge inedita. Attualmente collabora con la rivista di Poesia “Menabò”, con la redazione di “Versante ripido” e con la rivista “Le voci della Luna”.