Nella seconda parte della raccolta, Risvegli, lo sguardo dell’autrice si apre in una poesia a pag. 29 nella quale lei osserva con benevolenza il succedersi di avvenimenti quotidiani, si posa brevemente sulle condizioni meteorologiche, sulla temperatura, sui risvegli di chi ricorda una notte d’amore e di chi, invece, prega per un lutto, ma anche di madri che accompagnano i figli verso la scuola, e della natura ove “si compie il miracolo / d’un altro mattino“, nel quale l’invito è “entra nel mio mattino disarmato / a viso scoperto / guarda: /ogni cosa si farà
disegno / nelle spazio sgomberato / del tuo sguardo”.
Ma la sua attenzione non omette di osservare la condizione di vita di colui che è qui immigrato e si reca al lavoro attendendo: “l’azzurra corriera / che verrà dalla curva a portarci / dove ci faremo lavoro“, come anche non può ignorare che “le bombe sono cadute un po’ più in là / dove abita un uomo che non ci somiglia, dove piange una donna / che non sa questa lingua“, aggiunge più avanti “E se ci arriva un pensiero / lo scacciamo in fretta/ che tanto l’abitudine protegge / dall’acutezza del sentire / e non ci importa più chi / è vittima o assassino / nel gioco delle parti / è ormai la stessa cosa / finché non ci riguarda / o non capiamo / che tra le rive un mare / ci ricongiunge / in un identico destino”. Da appassionata fotografa Farina apre l’occhio della mente sopra la sua città, Bologna, che ogni mattino le appare come a pag. 38 “lavata/ ripulita e muta nel mattino lento / d’agosto svuotata da tutti gli impicci“;
ma nelle ore mattutine a pag. 39 “vengono con me tutte le cose buie, che silenziose / attendono di farsi chiarezza“.
Dentro lei nasce una consapevolezza quasi mistica, religiosa, dell’unità di tutto l’esistente che va dai muri e dalle strade alle vite minime e nascoste di ogni ripostiglio, angolo, crepa dove si annida un ragno, tocca gli oggetti nel lavello di una cucina, si perde assordata dentro l’urlo delle auto, è confusa dalla miriade di visi differenti, chiusi e spalancati, incontrati, e tale consapevolezza approda alla conclusiva constatazione: “siamo come una sola / vita / in questa sfera danzante / che nella distanza infine / ci veste ‘d’azzurro“.
Siamo partiti dagli interstizi, abbiamo appena toccato le angosce del risveglio, sentiamo il peso del vivere dentro la parole di Farina, avvertiamo l’impossibilità di capire il significato del nostro esistere e approdiamo a questo finale di pag.44 che suona: “e nonostante tutto non sappiamo / cosa ci getta in questo mondo / ma andiamo tentanto
prospettive / e in questo andare, incerti, è tutto il nostro stare“.
C’è smarrimento, spesso angoscia, per governare i quali occorre “esercizio/ paziente, costante”.
Il cammino di Farina è lento, faticoso, come succede a tutti noi quando vogliamo prendere coscienza del vivere e necessariamente chiediamo aiuto, come fa lei con questa poesia a pag. 46, che dice: “Vieni, bussami con urgenza / scardina le porte barricate / assedia la cinta del cuore / dove non ti sento accelera / il canto non lasciare / nessuna cosa impronunciata, nel torpore / scassina e richiama / l’attenzione di quanto in me / ti appartiene, il fiato / e la voce/ e questo battere sordo / nel petto / di un pugno / che ti rassomiglia”.
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