Spirali di Lina Scarpati Manotas | I nuovi confini poetici tra i sud del mondo (intervista a Lucia Cupertino)

 

Viaggio nella creazione, dialogo tra donne poetesse del Sud del Mondo, tra l’Italia e l’America Latina

Mi hanno chiesto: “quando scrivi… in quale lingua pensi, costruisci i testi pensando nella tua lingua o nella nostra?” Una domanda postami sulla strada verso un reading di poesia, fattami quasi in modo inquisitivo non poteva sfuggire ad una risposta positivista. Il quesito formulatomi da una scrittrice madrelingua italiana mi ha portato a rispondere di non ubbidire a delle regole che condizionino la creazione letteraria anche se esistono livelli o stadi del bilinguismo. Tutto dipende dal tessuto che circonda ogni scrittore e dalle esperienze collegate all’appropriazione culturale. In sintesi, non esistono regole di primato linguistico per chi come noi adoperiamo diverse lingue e linguaggi, come sicuramente non esistono per coloro che fanno uso dei dialetti come elemento di transizione simbolica tra l’italiano e la lingua scritta.
La questione fondamentale non risiede nel domandarsi quale lingua si impiega nel momento di creare, dato che non avviene una specie di “contaminazione” dalla lingua madre. Si tratta di sconfiggere o demistificare l’idea sbagliata dell’esistenza di culture “pure” che stando al margine dell’influsso di gruppi culturali provenienti da altri luoghi, si negano ad accettare l’introduzione di nuovi vocaboli o di espressioni, parole o altri termini, persino figure simboliche che provengono dal vissuto di processi di complessa interculturalità. Nella ibridazione è implicita un concetto derivato da mescole di produzioni culturali discorsive.

L’ibridazione tra culture in America Latina è stata un elemento fondamentale, di frequente uso per denominare quel crocevia che si osserva in maniera diafana in tantissime manifestazioni di ordine artistico e culturale.

Lucia Cupertino, scrittrice, donna poeta, antropologa culturale e traduttrice di origine pugliese ha vissuto in diversi paesi dell’America Latina. Messico, Colombia e il Cile, paese in cui attualmente risiede, fanno parte delle migrazioni che si articolano nel suo patchwork letterario in modo sincretico, aspetti su cui abbiamo interagito e dialogato per Versante Ripido. Entrambe interessate alla natura e ai fenomeni di indole politico-sociale all’interno della nostra produzione poetica, Lucia si autonomina una “scrittrice del Sud del mondo”, frase a cui di solito attingo non solo per identificarmi ma per inquadrare il punto di connessione tra l’Italia e l’America Latina.

Le piramidi di Chichen Itzà. Foto di Marc Watson. Unsplash.

1.Si potrebbe parlare di una Poesia del Sud del Mondo senza escludere l’interculturalità?

Ritengo l’interculturalità un elemento importante, ma non caratterizzante esclusivamente dei Sud del mondo, per parlare dei quali credo sia essenziale mettere al centro dell’attenzione i processi di spoliazione a cui sono stati storicamente sottomessi. Dal colonialismo al neoliberalismo le depredazioni sono state molteplici, sanguinarie, totalmente malvagie e in molti casi ancora prive di giustizia. Pur considerando le grandi diversità dei territori in cui potremmo includere i Sud del Mondo (presenti anche nei cosiddetti Nord), di certo questa memoria dell’ingiustizia è una grande costante e la poesia, con i suoi strumenti più acuti, può risvegliare delle fibre molto importanti della questione, essere dirompente, offrire prospettive alternative, gettare luce su ciò che si perde nei mille rivoli della dispersione e dell’iper-informazione del nostro presente.

Lina Scarpati: Sono d’accordo in parte. La poesia interculturale è una pratica artistica alla ricerca del dialogo (non libero da conflitti) tra una o più culture: in genere, una occidentale e l’altra amerindia. Per me è importante far riferimento al fatto di entrare in dialogo creativo tra la cultura occidentale e le culture che hanno subito colonialismo attraverso un processo dinamico e inserito in un contesto storico specifico. Può essere presente anche tra culture occidentalizzate ed andine o afro-caraibiche come nel caso della poesia Lirica del cubano Nicolás Guillén. Quello che non accetto è la vulnerabilità culturale nella scrittura, non rinunciare alle nostre proprie culture o riferimenti simbolici. Io, ad esempio, coniugo la visione della natura presente nella mia cultura, esprimendola in lingue occidentali come lo spagnolo, l’italiano e l’inglese.

2.Come scrittrice di origine europea perché ritieni importante raccontare il sud di un altro continente nella tua opera poetica?

Se per europea si intende il passaporto di cui sono in possesso, la definizione potrebbe calzare, ma direi che per una persona come me già la stessa appartenenza al continente, sin dall’infanzia, è stata complessa. Il sud Italia in cui sono cresciuta era distante anni luce da Berlino o Bruxelles per le opportunità e lo stile di vita, molto più impregnati della cultura mediterranea e di una serie di problematiche che spesso hanno collocato il nostro territorio in una posizione più marginale rispetto all’Europa continentale, ma da cui ho tratto invece tanta ricchezza. D’altro canto, l’esperienza di vita mi ha portato a viaggiare, dapprima mossa dalla classica molla di cercare futuro altrove e andare a studiare al nord Italia e poi dalla possibilità di fare ricerca e progetti di permacultura in vari Paesi, tra cui la Germania e l’Australia e giungere infine a vivere un decennio della mia vita in America Latina, che è diventato il mio continente di adozione, dov’è nata mia figlia, in cui è avvenuta la mia formazione intellettuale, letteraria e umana, in cui ho acquisito un’altra lingua e mi sono lasciata sorprendere dalla sua diversità culturale e naturale. Non so bene come definirmi, per dirlo con una canzone di Facundo Cabral, pare che “No soy de aquí, ni soy de allá, ma forse questo mi fa appartenere per assurdo a tutti i luoghi in cui ho vissuto, riconoscendo il mio ombelico in Puglia. È da questa prospettiva che i Sud sono naturalmente apparsi nella mia opera, a partire da esperienze di vita, testimonianze, fonti scritte, letture, scossa dall’anelito di riportare in poesia memorie che sentivo soffocare, ma anche lavorare a livello metafisico e filosofico, cercando altre risposte ai dilemmi di sempre dell’esistenza.

Lina Scarpati. Le nazioni del Sud del continente americano sono entrate ed uscite dalla modernità attraverso processi di deterritorializzazione, fattore quest’ultimo che implica alcune limitazioni. Il mio processo avvenne in maniera inversa a livello geografico, pur se un bilinguismo anglo-spagnolo era già presente nella mia formazione, direi che gli elementi che riporto in Italia attraverso la mia poesia sono il prodotto di una visione ibrida delle mie origini. Sono cresciuta in un porto abitato da immigrati e discendenti di popolazioni arabe, ebree, asiatiche, sud europee, una diaspora multiculturale nei Caraibi che si nutrì della cultura africana degli schiavi e degli indigeni nativi. Il mio è proprio un tentativo di intrecciare il pezzo mancante di una storia di immigrazione familiare attraverso un riconoscimento simbolico. Attraverso la scrittura si nutre di una costante analisi socio-antropologica della cultura italiana, facendo dono di elementi ignoti o sconosciuti agli italiani riguardo la mia cultura di provenienza. E confesso, nella mia opera c’è pure una transculturazione di indole narrativa.

3. Per quanto riguarda certi elementi nella tua opera poetica, come si allaccia il nostro sud alla vostra cultura meridionale?

Direi che l’elemento della terra è quello che unisce i miei Sud. Questo da una parte ci riconduce a quel concetto di privazione storica di cui parlavo all’inizio e dall’altra ci porta verso il riconoscimento della presenza di forme di umanità, come direbbe l’antropologo Francesco Remotti, e dall’altra ed in lotta col modello dominante di società, di economia, di cultura. Molto spesso nella mia produzione poetica parlo del Sud Italia o del Sud America in modo a sé stante, ma c’è una mia poesia, ancora inedita, che va in un’altra direzione, visto che le due realtà coesistono, grazie al filo sottile della similitudine tra il gesto di mia nonna di spaccare in quattro le castagne in inverno per fare le caldarroste e la segregazione che si sperimenta in città quali Santiago del Cile, divisa in quartieri per ricchi e per poveri. Il titolo di quella poesia è “Roncola” e allude ovviamente al coltello adoperato nell’ambiente contadino del nostro meridionale, ma in senso più profondo vuole fare riferimento alla roncola del capitalismo che incombe sul Cile.

Fiume sulle Ande Ecuadoregne. Foto di Greg Byman.

4. A proposito di elementi della natura, nelle sue poesie “Il Salvataggio” e “Fiume Cauca” le sorgenti di acqua sono scenario di disastro, morte ed evacuazione. Siamo per caso davanti ad una funzione di denuncia come atto politico a carico della poesia o, al contrario, ad una poesia che collega degli esseri viventi attraverso il fiume?

Ho preso coscienza col tempo della presenza insistente di questi elementi acquatici nella mia scrittura: nella mia poesia, infatti, spesso i fiumi diventano scenario di massacri, inondazioni, scomparsa di specie animali, in cui però, quasi per magia, esiste ancora un appiglio a cui è appesa la possibilità di invertire la rotta. Sappiamo benissimo che l’acqua è tutto per noi, eppure è ciò che più sperperiamo e inquiniamo, non solo nella sua composizione chimica, ma anche a livello di memoria. Se pensiamo che molti popoli indigeni pensano che ci siano degli spiriti a custodire l’acqua, allora ci rendiamo conto che ogni azione che ne alteri l’equilibrio avrà conseguenze sull’equilibrio dell’insieme, non solo quello naturale, ma anche quello umano. Mi sento vicina a questa visione più olistica e, nonostante il pessimismo di fondo che si cela nella crudezza di certe storie che raccolgo, non nego l’esistenza di un briciolo di speranza, perché la natura, a cui apparteniamo, ha il grande potere della rigenerazione, se gliene diamo la possibilità. In definitiva, direi che si tratta di una poesia che non riesco a catalogare solo come politica, ecologica o civile, è in effetti anche molto intima, benché il soggetto principale, rispetto al classico io lirico, spesso sia rappresentato da un “noi” in dialogo coi morti o con elementi non umani.

 

SALVATAGGIO

Il fiume che mi è stato affianco

per anni in silenzio

oggi mi inonda;

nessuno viene a spalare

tutto accade

rotola verso il finale.

Arriva solo un suono costante

dalle viscere del mondo

con tutta la sua irruenza.

Non serve ritirare le tende

il disastro ha portato via tutto,

anche la tristezza della nonna

che passava tutto il giorno sbuffando

sulla sua sedia a dondolo.

Acque torbide e gelide

hanno appena infradiciato il mio cuore,

anche quello del vicino forse,

l’avevo lasciato lì fuori

esposto come la cassetta della posta

e non ha retto a giorni di inondazione.

Non serve salvare il set di tazzine

souvenir di un viaggio dimenticato

se anche il cieco all’angolo

è già stato fatto evacuare.

 

Un suono di trapano

mi fa credere che ci sia qualcosa

oltre questa lotta di fango e vita.

 

Ma niente e nessuno che mi dia una mano

a raccogliere i ricordi sparsi nello zaino

e arginare il sangue delle labbra screpolate della terra.

 

Niente, neppure un’ombra

a cui offrire un caffè o una sedia

per cui inventare una scusa

affinché mi stia affianco

mentre muoio

con l’illusione di un salvataggio.

 

FIUME CAUCA

Io t’ho visto dall’alto di un ponte

fiume Cauca che solchi questa terra dorata,

ma in un sogno di uccello ho visto

i corpi gonfi a pelo d’acqua

gli avvoltoi sbrogliarne le viscere

le gonne logore di tanto oblio.

Quando la verità si annida sulla mia bocca,

irrompono zattere e un intero popolo le abita.

Sono gli occhi dei senza giustizia ad affacciarsi

i tuoi stessi occhi, fiume Cauca, ancora bruciano.

 

5.Il bilinguismo nella tua opera è una costante, sarebbe legato alla necessità di narrare luoghi e circostanze? Trovi differenze riguardo alla maniera come avviene la creazione letteraria in spagnolo con rispetto alla lingua italiana?

Il mio bilinguismo originalmente contempla l’italiano e il polignanese, il dialetto di Polignano a Mare (Ba). Quest’ultimo l’ho sempre usato a livello orale e, benché in Italia esista una grande e illustre tradizione letteraria in dialetto, in me non è sorto lo stimolo di scrivere o comporre qualcosa in questa lingua che pure ammiro molto per la sua diversità, essendo il riflesso dell’incontro di tanti popoli in Puglia, la porta tra Oriente e Occidente. Il polignanese ormai lo adopero solo in brevi conversazioni familiari; invece, l’italiano e lo spagnolo rappresentano le lingue con cui sperimento il mondo, lavoro, leggo, soffro, gioisco e…scrivo. La differenza più grande tra le due lingue attualmente risiede nel genere: scrivo anche narrativa e l’ho sempre fatto solo ed esclusivamente in italiano, mentre per la poesia adopero entrambe le lingue, ma questo potrebbe anche cambiare nel tempo. Scegliere se scrivere una poesia in una lingua o l’altra deriva da molteplici fattori, ma in una prima istanza in realtà non si tratta di qualcosa di così pensato e costruito; spesso, infatti, il primo paio di versi incomincia a rimbombare nelle mie orecchie, come una canzone che ricordi vagamente, la creazione sta nel seguire quell’incipit ed alimentarlo. Rileggendo le mie creazioni, noto che quelle in italiano solitamente sono più legate alla sfera dell’infanzia, a temi che mi stanno a cuore legati ai miei luoghi d’origine e alla questione migratoria europea; mentre quelle in spagnolo sono più vincolate a tematiche e spazialità latinoamericane, a riflessioni più orientate al presente. In fin dei conti questa relazione tra creazione poetica e lingua è relazionale e quindi in costante evoluzione secondo la mia cartografia esistenziale.

Lina Scarpati.-Di fatto, alcune poesie che ho scritto lungo questi anni sono nate istintivamente in italiano ed altre in spagnolo, anche se produrre una successiva versione auto tradotta può diventare un vero atto di ricerca sia interiore che d’indole storica, culturale e persino etimologica nonché antropologica. Penso che il bilinguismo abbia arricchito indubbiamente il mio universo simbolico portandomi ad esplorare una nuova metrica, ma appropriandomi di un io lirico che curiosamente non ha un unico destinatario. Questo ultimo aspetto, lo sappiamo fa parte della poesia interculturale.

6. Infine, hai lavorato per la tua tesi di dottorato sulla traduzione della poesia dei Popoli di lingua Nahuatl* all’italiano. Tradotto e curato varie antologie, tra cui “43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec della UNIBO. Hai introdotto elementi della cosmogonia delle popolazioni amerindie nella tua poesia?

 A causa della mia formazione ed esperienza sia nell’ambito antropologico che della traduzione, la mia scrittura è strettamente in contatto con una molteplicità di modalità di pensiero la cui mappa nel tempo è stata in movimento, dipendendo dalle tappe, dai temi e dalla ricerca che stavo intraprendendo. Pertanto, include concetti delle filosofie del mondo amerindio che nel tempo ho fatto miei come il valore dell’acqua condiviso in molte culture native. Nella cultura Mapuche, per esempio, si fa riferimento a degli spiriti che abitano i corsi d’acqua, gli Ngen Ko, che la tutelano, sono memoria e biblioteca viva per le varie generazioni e ci ricordano che tutti gli eventi (pacifici o no) lasciano una traccia in essa. Questa concezione mi sembra interessante perché, benché a prima vista possa apparire “arcaica”, è invece estremamente moderna e necessaria per il nostro tempo segnato da un profondo antropocentrismo. Ho attinto anche a filosofie e correnti di contesti e geografie variegati, ma direi che una costante potrebbe essere che si tratta di modalità di pensiero spesso considerate marginali rispetto al pensiero dominante.
Credo che a varie generazioni di poeti amerindi sia già toccato risolvere la contraddizione di usare la scrittura, forma di trasmissione della memoria occidentale, per lasciare traccia della loro poesia, tradizionalmente trasmessa oralmente a livello comunitario. Ogni poeta e poetessa l’ha fatto presentando versioni bilingue, nella lingua nativa e in quella nazionale (spesso coincidente con quella dei colonizzatori), traduzioni linguistiche e culturali che non mirano alla perfezione nella resa quanto a far sì che le loro lingue e la loro visione possa continuare ad esistere, proprio facendo propri elementi “esterni” come la scrittura. Credo sia 
una strategia saggia da parte delle culture native, inserite come tutte le altre nel flusso della storia e da non congelare nel tempo a certe caratteristiche predefinite. Nella mia scrittura, l’introduzione del pensiero nativo o di altra matrice, come spiegavo all’inizio, è a livello etico-morale più che formale.

 


LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casaNo tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). I Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.