Interferenze di Giorgia Monti | Matita bianca

 

Piccola nota introduttiva.

Questo è il terzo e ultimo racconto del  mini-ciclo che ho dedicato all’infanzia.
Non ho pretese di fine narratrice, mi auguro solo che queste storie servano a ricordare che bambine e bambini non vivono in un mondo altro dal nostro, ne sono invece parte integrante in quanto persone a tutti gli effetti e che, per primi, andrebbero tutelati i loro diritti.
Non possiamo ignorare che ogni evento del nostro quotidiano ha una ricaduta sostanziale sulle loro vite e che, genitori o non, abbiamo una grande responsabilità nella consegna di valori, ambiente, cultura e prospettive.
Fortunatamente non tutto ciò che accade ha risvolti drammatici, ma il mio auspicio è che si sia capaci di lasciare intatte le incredibili risorse che questi piccoli esseri posseggono a prescindere da noi.
Tutti i racconti si ispirano a fatti reali, come non dovrebbero essercene.

 

Basta angeli.

Avete finito, finito di raccontarceli, finito di esserlo.

Basta.

Non lo è mai stato mio babbo, lui colpiva.

Nemmeno Lucifero cadendo dal paradiso avrebbe lasciato dei segni così.

Che poi nemmeno il paradiso esiste, c’è solo il cielo, anche se io non lo guardo più.

E’ troppo grande, troppo mobile, non si riesce a tenerlo fermo e quando si fa nero è pure peggio.

Di notte diventava anche più cattivo, lui, perché era come che nessuno lo vedeva e allora giù botte, nere e lunghe anche quelle.

Alla mamma, sempre a lei.

Io era come che non c’ero.

Certe domeniche, in estate, sembrava che cominciavano bene.

Preparavamo gli zaini con i panini e andavamo su, a camminare per i boschi.

Si doveva rilassare, diceva, che al lavoro tutta quella gente lo faceva incazzare, proprio così diceva, ma doveva fare finta di niente perché di lui avevano stima.

Proprio così diceva.

La mamma, invece, non diceva quasi mai niente.

Aveva imparato.

Anche gli occhi li faceva stare zitti perché bastava che si alzassero appena un po’ di più o si fissassero un momento di troppo che lui la colpiva, di nascosto, in una gamba magari, ma la colpiva perfino in giro se poteva.

E poteva quasi sempre, il modo lo trovava.

Da molto piccolo ho pensato che era normale, non lo sai mica che cos’è che fanno gli altri genitori nelle altre case che non è la tua.

Poi con la scuola ho cominciato a capire ma non lo volevo dire, un po’ mi vergognavo e un po’ avevo paura, mica per me, per la mamma avevo paura e facevo bene.

Un giorno ho preso coraggio e gliel’ho chiesto, le ho chiesto: “mamma, perché sopporti? perché lasci che ti faccia male?”

Lei allora mi ha guardato con due occhi grandi tutti pieni di meraviglia, mi ha abbracciato forte, sentivo i suoi singhiozzi, ma non ha risposto niente.

Io dopo non lo so cos’è successo, ma la mamma ai suoi genitori lo ha raccontato e io ho pensato che l’universo intero annegava nelle loro lacrime, anche tutti gli animali.

Poi il nonno ha sbattuto i pugni sulla tavola e ha urlato: “voi in quella casa non ci tornate più!”

So che sono stati dai Carabinieri un sacco di volte, il nonno e la mamma.

A me hanno lasciato a casa da scuola per un po’, ma non facevo niente, non mi piaceva neanche guardare la tv, facevo solo dei gran disegni.

Chiedevo gli album con la carta nera e usavo la matita bianca che era un po’ come il gesso sulla lavagna, quello però si cancella.

Sul foglio nero la riga bianca sembra un’apertura da dove può entrare la luce, un posto dove si può scappare, ma anche un graffio, una ferita, una specie di cicatrice.

Io allora la trasformavo in qualcos’altro così non si capiva.

La cosa più terribile era il telefono che suonava, squillava continuamente.

Era il babbo.

Gli avevano detto che non poteva più avvicinarci, ma lui cercava la mamma.

Sempre.

L’amava, diceva, glielo sentivo urlare quando lei, che tremava tutta, buttava giù.

Poi ha smesso, all’improvviso, ha smesso.

Un giorno dai nonni abbiamo quasi ballato dalla contentezza, ma in silenzio, come che era una festa segreta.

La tortura era finita.

Ho ripreso la scuola.

Volevo essere bravo, credo che lo ero.

Quella volta, all’uscita, dopo la mamma è arrivato anche lui.

Lei mi ha stretto la mano e si è tutta irrigidita ma con una voce calmissima che non gli avevo mai sentito prima, il babbo ha detto: “dai, facciamo pace, ho capito di avere sbagliato, ti chiedo scusa, lo sai che ti amo, in questo periodo sono cambiato, giuro; se non lo vuoi fare per me facciamolo almeno per il bambino; dai, venite a mangiare qualcosa con me.”

La mamma gli ha risposto di no che non voleva, io tenevo gli occhi bassi e non dicevo niente, ma lui ha insistito: “allora un gelato, dai, vi offro un gelato, dieci minuti, il tempo di un gelato, che cosa sarà mai, dopotutto, siamo una famiglia.”

Un angelo, ha la voce di un angelo, ricordo che ho pensato.

Le ha sparato in testa a bruciapelo, io l’ho visto bene seduto nel sedile didietro com’ero.

Non è riuscita a dire niente, ha solo provato a proteggermi alzando d’istinto una mano.

Dopo lui mi ha guardato tutto stralunato ma io che faccia avevo non lo so perché non me la sono vista.

Forse di pietra.

Forse è stato per quello che non mi ha riconosciuto, perché di sicuro non mi ha riconosciuto, così si è girato, si è messo la canna in bocca e si è fatto saltare il cervello.

Quando mi hanno detto che mia mamma è diventata un angelo ho cominciato a picchiare tutti e a urlare: “non è vero! NON E’ VERO!” 

Ci si sono messi in tre a tenermi.

Hanno detto che con i nonni non posso rimanere perché sono troppo vecchi e con una pensione sola non ce la fanno a vivere e pensare anche a me, ma è l’unico posto dove mi piacerebbe stare, lì c’è ancora il profumo della mamma e poi di loro mi sembra che mi posso fidare.

Ci sono delle case apposta, poche, ti mettono con della gente che non lo sai.

In qualcuna ci si sta bene, in altre peggio, dipende dalle persone ma anche dai soldi che arrivano dal governo, ma il governo non si preoccupa poi molto.

In fondo, siamo solo bambini.

Figli delle botte.

C’è ancora chi pensa che è normale, come me da piccolo.

Come andrò a finire? Cosa farò da grande?

Non lo so, non so neanche se io ce la faccio a diventare grande, non so neanche se mi piace.

Di sicuro, non voglio amare.

Nessuna.

Mai.

Sogni infranti – foto di Andrea Manni, partecipante seconda edizione Premio Versante Ripido sezione B