Interferenze di Giorgia Monti | La parola che non è uguale a niente

 

Ho una discreta lista di nomi con cui condire le mie interferenze, mi sono venuti pressoché di getto.
Li ho appuntati alla bell’e meglio sul primo foglio che mi è capitato a tiro, perché poi spesso i pensieri si affastellano e anche le cose più ovvie, ahimè, rischiano di sfuggirmi poco dopo essermi detta “tanto questa me la ricordo”.
Capita anche a voi? A me sempre più spesso.
Dissemino costantemente la casa, la borsa, ma anche la scrivania in ufficio, di fogli con appunti di ogni tipo fatti in genere di parole chiave e freccette che fungono da rimando, che preferibilmente scrivo a matita, uno strumento che amo tantissimo… sarà perché definisce senza determinare, dice senza prevaricare, fissa senza scolpire.
L’elenco di nomi è la base, la mia linea guida. Poi ci sono le eccezioni, soprattutto quando di regole non me ne do nessuna.
Allora ecco che arriva un’associazione di idee che mi riporta a un mondo, il mio, fatto anche di queste piccole annotazioni archiviate in modo sincopato, eppure resistente.
Ma basta premesse, ecco la connessione.
Dovete sapere che la chat della redazione di VR è un posto vivacissimo di voci ineludibili e io non posso non chiedermi se ne sono all’altezza.
Ovviamente piovono rassicurazioni da ogni dove di cui percepisco netta la sincerità.
Eppure è tardi. Il congegno è stato azionato.
Eccoli i mattoncini di legno colorato della mia memoria che si sgretolano per ricomporsi nella geometria sghemba di questa storia che spero di rendere gradevole alla lettura.

Esattamente tra aprile e maggio di 6 anni fa, non ricordo più come, intercetto una rassegna organizzata dal Teatro Valdoca di Cesena dal titolo “INNESTI 2015 cantiere per Ciò che ci rende umani – risveglio primaverile delle parole tra poesia, teatro, filosofia e cinema”.
Scorro il programma che prevede 6 appuntamenti (più alcune repliche) prevalentemente di domenica.
Posso mancare?
Ho un moroso che vedo sostanzialmente nei fine settimana e che non nutre questo genere di interessi: ok, io vado.
Ho anche amiche con cui condividere questo genere di interessi: ok, io vado. Da sola.
Quaggiù qualcuno mi odia o, con tutta probabilità, comincerà a farlo, ma io no, in questo preciso momento mi amo, tantissimo. Una cosa che succede praticamente mai.
“INNESTI” mi chiama, non c’è un altro modo per dirlo e so che chiama me, proprio me.
Non voglio scendere a nessun altro compromesso se non a quello con la mia volontà.
Resto ragionevole, tutto comunque non posso fare, ecco cosa scelgo di seguire:
il primo dei due appuntamenti dedicati alla “Ricarica delle parole”, ovvero: la conversazione del teologo MACIEJ BIELAWSKI dal titolo “In principio parola e silenzio” a cura di Lorella Barlaam;
l’incontro con CHANDRA LIVIA CANDIANI “Poeta, polvere innamorata” presentata da Mariangela Gualtieri;
lo spettacolo “VOCI DI TENEBRA AZZURRA” di e con MARIANGELA GUALTIERI per la regia, scene, luci di Cesare Ronconi;
il secondo nonché ultimo appuntamento dedicato alla “Ricarica delle parole”, sempre a cura di Lorella Barlaam, in cui si invita il pubblico a portare in dono una parola risalendo alle sue origini. Ospite, la poeta ANTONELLA BUKOVAZ.

Locandina ufficiale di INNESTI – Teatro Valdoca

MACIEJ BIELAWSKI, teologo, filosofo e scrittore che si dedica anche alla pittura, è inaspettatamente brillante, ironico, divertente e… giovane.
Nel suo libro “IN PRINCIPIO – RACCONTI SULL’ORIGINE DEL MONDO” (Garzanti 2014) raccoglie testi di culture e religioni differenti con cui si è tentato nel corso dei secoli di dare una risposta al “da dove veniamo?” cosmico.
Bielawski sostiene derivare l’assoluta necessità dell’uomo di indagare da sempre l’origine dell’universo da un bisogno della nostra mente che, non sopportando le incertezze, vuole per forza definire tutto.
Interrogarsi sul principio della realtà e del mondo porta pressoché inevitabilmente a domandarci non solo quale sia la relazione tra parola e silenzio ma quale sia il loro rispettivo inizio.
Una sembra discendere dall’altro e viceversa.
Di fatto, l’unico modo che abbiamo per pensare alle parole è farlo con le parole ma, incalza Bielawski, parlare di parole attraverso le parole non è forse una tautologia?
Al contempo, come si fa a parlare del silenzio senza distruggerlo?
Il silenzio è un’esperienza inesprimibile di qualcosa di cui manca riferimento, non ha forma figurativa.
Il silenzio non ha niente da dire, non è funzionale a una parola che invece è “immagine acustica”, sempre radicata dentro a un linguaggio.
La parola che non è nata, che non sia impregnata di e nel silenzio, continua ancora Bielawski, è vana.
E’ la pausa tra le parole a rendere il nostro discorso comprensibile, perfino la scrittura non esiste senza spazio fra le parole, ogni singola lettera non esiste senza lo spazio vuoto che la circonda.
Frequentare, navigare la distanza tra parola e silenzio significa dunque stare nella domanda, nella profondità.
Lì dove anche a me pare di essere.
Interviene infine anche Mariangela Gualtieri che solo a sentirla, quella voce, è una vertigine, uno sprofondo, un addio a ciò che credo di avere imparato.
“Siamo usciti dal grugno in questa faccia chiara per la parola” dice come pronunciasse un “entra, accomodati: posso offrirti un caffè?” ma con tutto il peso della montagna… una di quelle verdi, incantata.
Si avverte il desiderio, continua, di creare un grembo in cui di nuovo la parola possa essere accolta.
Ogni parola è sacra, portatrice di potere tremendo, nel senso di grande.
Così è quella dei poeti.

E infatti l’appuntamento con la poesia di CHANDRA LIVIA CANDIANI è un’altra epifania.
Già tanto si è detto e scritto della sua figura gracile e minuta, della sua voce flebile di bambina sperduta.
Eccolo quel potere tremendo, la sacralità della parola incarnata in un essere scarno e ossuto.
Questa donnina immensa e delicata rapisce, avvince, ogni suo (r)espiro è favola e fiamma ma anche acqua, pane e sale.
Di colpo percepisco il desiderio di abbandonare tutta quella me che non sono e, da non credente, in silenzio prego affinché tutto ciò che non riguarda esattamente questo soccomba per scomparire definitivamente.
Nell’occasione scopro che lei e Mariangela Gualtieri sono amiche e che è stata proprio Chandra Livia a consigliare a Mariangela di imparare le poesie a memoria perché, dice, è importante per raggiungere una maggiore comprensione di sé.
Inoltre, aggiunge, agli ascoltatori si richiede sempre un grande sforzo di attenzione, di concentrazione in quanto vacillano continuamente nell’incertezza tra la fine di una parola e l’inizio di quella successiva.
Imparando a memoria si vacilla insieme, conclude.
Vacillare insieme, mi ripeto.
Nessuna lezione su come accattivarsi furbescamente il pubblico, nessun escamotage strategico e nessuna idea di perfezione.
Candiani invita a mostrarsi semplicemente per ciò che si è, trascinando lo spettatore nella propria fragilità, nel proprio dubbio, incertezza, limite, non per sprofondarvi, ma per continuare a camminare insieme e insieme attraversarli.
Interrogata in proposito, dopo una pausa di riflessione, Candiani dice che la parola che lei sceglierebbe per l’ultimo incontro è “riparare” in contrapposizione al continuo desiderio, spesso indotto, di acquisire e accumulare nuove cose.
Parla delle scarpe, di accomodature che fa da sola.
Io guardo quelle sue piccole ed esili mani e mi sento ormai inabile a quella che dovrebbe essere la vita vera.
Prima di recitare le poesie riunite in “LA BAMBINA PUGILE OVVERO LA PRECISIONE DELL’AMORE” (Giulio Einaudi Editore 2014), Chandra Livia cita Rilke e io mi faccio l’appunto che segue: “Il poeta deve sentire, non scrivere, stare come un giavellotto, un giavellotto, un giavellotto”.
Ecco, quel giavellotto a me da qualche parte si è sicuramente conficcato e ve lo rilancio con questa poesia tratta dal libro citato sopra:

“Il male che non si ripara
il male che orienta
e scuce
è uscito
all’aperto
vestito leggero
sotto i colpi feroci
della bella stagione.
Fammi il male
degli animali.
Fammi la primavera.”

E’ la volta di “VOCI DI TENEBRA AZZURRA”.
Il monologo di e con Mariangela Gualtieri non si descrive, va visto e sentito.
Io lo faccio a Cesena nella piccola Sala Teatro Valdoca, un nido di legno caldo e odoroso e i panneggi di velluto blu, in un gioco quieto e totalizzante di luci e ombre che, sole, ne sono scenografia.
Una sorta di Pinocchio Turchino la voce narrante, la stessa che, come scrivevo prima, apre voragini di beatitudine e altezze.
Qui propongo la “Convocazione” che scrive la stessa Gualtieri nel libretto del testo recitato che, sempre, il Teatro Valdoca mette a disposizione insieme alle altre pubblicazioni.

“Come sono le voci di tenebra azzurra? Questa definizione pascoliana è inafferrabile, quasi stordente. E dove sono? dentro? fuori? di questo mondo? di un altro mondo nel mondo? a chi appartengono? 

Forse a chi ‘nei secoli ha ragionato in noi’, nel nostro sangue umano, ma anche agli animali mansueti che si fanno mangiare, come l’agnello, e che sonno anch’essi in noi. Penso agli antenati, ai poeti che non ci sono più, ai poeti vivi, i più arrischianti, secondo la filosofia. 

In questo testo una figuretta per metà mite e per metà inquietante, né maschio né femmina, né attrice né poeta, abita lo spazio scenico dialogando con le voci di tenebra azzurra. Ha un sorprendente esagerato cappello, in bilico fra il metafisico cono del clown e il copricapo umiliante dell’ultimo della classe, del ripetente. E’ vestita di chiaro. Ha la faccia sporca di terra, quasi una maschera funebre che la avvicina alla tenebra azzurra. 

Pone tante domande, domande piene di ombra, intorno a questioni antichissime e ritornanti ad ogni generazione -è una ripetente infatti- domande di fronte alle quali si può solo sbigottire, restare ad ascoltare il silenzio irrimediabile che spalancano in avanti, e all’indietro, dove altri si interrogarono. 

Le voci sembrano rispondere: non sono risposte a tono, sono un poco di lato, un poco al di sopra, ma sono parole che aprono, che spingono ad alzare lo sguardo, ad allargarlo, fino all’altro da noi, per sentirne la presenza partecipe, il comune viaggio nel cosmo. Sono parole pacate, di chi è alla fine del suo cammino e girandosi indietro sorride di ciò che gli ha fatto paura, ne ha tenerezza e pietà. 

E’ questa una doppia convocazione, ai poeti, in primo luogo: Giovanni Pascoli, Emily Dickinson, Arthur Rimbaud, Jalal-al Din Rumi, Jules Laforgue, Adonis, Adam Zagajewski. A loro va la gratitudine di chi ha ereditato tesori che non invecchiano, non diminuiscono se vi si attinge. E agli spettatori: convocati ad esserci nella forma massima della partecipazione, in un ascolto quasi meditante.”

Foto di Ana Shametaj

Non c’è tenebra in me quando esco dallo spettacolo, solo riconoscenza per questo privilegio di esserci. Davvero.
Nulla è cambiato nella mia vita, apparentemente.
Ma poi arriva il 3 maggio, quello del 2015, quello dell’ultimo appuntamento con questa edizione di “INNESTI” e la sua “Ricarica delle parole” che ci riconducono all’inizio di tutta questa storia.
Ne è ospite la poeta ANTONELLA BUKOVAZ, donna di confine che si dedica prevalentemente alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine, di cui emblematica mi pare la poesia a seguire tratta da “Sto – poesie per stare” (inediti):

“Allora guardami
io sto
non è solo scrivere
faccio ciò che dico
sto
ti do la mia pelle
sono una donna giusta
nel mio stare
ho incollato il passato
leggo
il dolore alle foglie
anche il tuo è autunno.”

Ma protagonista dell’incontro, come da programma, è il pubblico che, previa iscrizione, è stato invitato a portare una parola amata (una per ciascuno) per raccontarla e ricondurla all’etimo originario riappropriandosi proprio di quel significato lì.
Si hanno a disposizione 3 minuti al termine dei quali suona una campanella e la narrazione viene interrotta, per rispettare lo spazio di ognuno.
Non ricordo di averci pensato a lungo, ho fatto letteralmente tesoro di tutto quell’ascolto e quel bagaglio che mi è derivato dagli appuntamenti precedenti.
“INNESTI” mi ha chiamata, sono andata, da sola, e sono io.
Non cerco parole d’effetto, cerco la mia.
A chiusura di questa interferenza ve la propongo tale e quale ad allora quando, in quel riverbero blu della Sala Teatro Valdoca, sotto il riflettore di un attentissimo Cesare Ronconi, con passo incredibilmente fermo e deciso, mi sono vista lasciare il mio posto, attraversare la platea, calcare il palco e, davanti a un pubblico folto e partecipe fra cui una certa Mariangela Gualtieri, ho sentito la mia voce sicura dire così:

INADEGUATEZZA 

Partire da qui non è certo un caso.
Un fastidio che mi occupa tenace.
Con i sensi aperti, questo manipolo di neuroni ancora attivi e quel che resta di un cuore, sono pronta ad accogliere, so farlo, lo faccio.
Troppo, mi disperdo, corro il rischio di estinzione, non va bene.
Imparare a stare.
Ma non posso divagare.
Non ho dizionari etimologici in casa, finirà che ne comprerò uno sicuro.
Per ora il tempo così contato in questo periodo m’impedisce di precipitarmi a farlo.
Nel frattempo chiedo lumi (ce n’è uno migliore di un altro?) e uso gli strumenti che ho.
Mi collego subito a internet.
La Treccani mi dice che il termine deriva da inadeguato; l’inadeguatezza è “il fatto di essere inadeguato” punto.
Cerco inadeguato e trovo “non adeguato” e penso alla litote.
Ma trovo anche “inferiore, insufficiente per qualità o quantità a un determinato scopo”.
Questa parte la so, ma dov’è l’etimo?
Vado su adeguato: “proporzionato, conveniente, giusto”… butta malissimo.
Prima delle definizioni varie, l’indicazione come participio passato di adeguare.
Cerco anche adeguare ed ecco, finalmente, l’accenno all’etimologia della parola.
Dal latino ad-aequare “eguagliare”.
Non sono convinta.
Consulto il sito www.etimo.it che non so quanto sia accreditato, ma pare l’unico che esista e la cosa risulta proprio così.
Come significato scrivono “pareggiare, paragonare”.
Mi avventuro anche nel sito dell’Accademia della Crusca, ma poi penso che non è cosa e me ne esco prima di lasciarmi fagocitare.
Il Garzanti linguistica online conferma derivazione e significato.
Il mio Zingarelli cartaceo acquistato sedici anni fa e che mi ostino a chiamare nuovo è sulla stessa linea, anche se indica ad-aequus, ovvero, “uguale”.
Ma uguale a che?
Paradossalmente, più indago e più mi sento lontana dalla verità, forse mi sono persa: rendere uguale, proporzionato, congruo, pareggiare, spianare, adattarsi, conformarsi… cosa c’entra con me?
Torno a inadeguato (che poi è così, ti tocca pure cercare al maschile): “di ciò che è inidoneo, insufficiente o sproporzionato rispetto a qualcosa; detto di persona inadatta, che non è all’altezza, che non ha i requisiti necessari per, che non è capace; inferiore al giusto o al dovuto”.
Mi accorgo che vorrei vivisezionare ogni singolo termine, arrivare all’origine del mondo, penetrarla, perforarla, divaricarla con la sola forza delle mie dita.
Inadeguatezza si diceva.
Avverto un distacco profondo, soprattutto quando si parla di giusto, niente di più efficace per evocare il mostro dei sensi di colpa.
Penso che l’inadeguatezza in effetti non sia uguale a niente.
Soprattutto, penso che qualcuno avrebbe dovuto capire che è una parola completamente femmina.
Non si può ridurla al maschile, né costringerla nell’infinito di un verbo capace solo di misure.
Questo è ingiusto e insufficiente.
L’etimo di inadeguatezza, mi pare, la disattende.
Forse è arrivato il momento di dirmi chi sono.

 

Foto di Giorgia Monti

 

Ulteriori approfondimenti:
https://www.teatrovaldoca.org/
http://www.maciejbielawski.com/
https://www.teatrovaldoca.org/calendario_innesti2015.html