Interferenze di Giorgia Monti | Giardini d’infanzia
Nei giardini d’infanzia
cadevano i nidi
Qualcuno scagliava
lumache vive sui muri
per il gusto di vederne
sbavare fuori la fine
In effetti il gioco
fu scuola di epiloghi
La bambina abbandonata
non vuole morire
Chi ha scordato la bambina?
I piedi la portano sempre al fiume
Al fiume i sassi sono spinta migliore
La bambina abbandonata
non trattiene le piume
Chi ha spogliato la bambina?
Le braccia nel bosco si allacciano ai fusti
Nel bosco i fusti sono il padre maggiore
Ha due voci la bambina
Chi ha tradito?
Chi ha tradito la bambina?
La bambina di notte
increspa le labbra
E’ sola la bambina
non piange
non sogna
Si fissa con la notte
***
Quando si smette di essere bambinǝ?
La domanda è esattamente questa.
Non quando si diventa grandi, ma quando si smette di essere bambinǝ.
Non sempre è automatico individuare un momento, uno solo.
Una determinata circostanza che decreti la fine di quella condizione.
E’ più facile pensare a una somma di episodi, oltre a quella matematica degli anni, a un insieme di fattori che ineluttabilmente ce ne tirano fuori.
Succede, si potrebbe dire.
L’accadere riporta alla caduta.
Quindi forse io avrei dovuto smettere di essere bambina quella volta che, ancora molto piccola, caddi dall’alto dello scivolo destinato ai più grandi senza nemmeno rendermene conto.
Oppure quella volta che volavo fortissimo in altalena ma poi un piede mi si puntellò a terra e rovinai paurosamente sfracellandomi un ginocchio.
O magari è stato quando finalmente imparai ad andare in bicicletta senza le ruotine: che sensazione magnifica! Una delle prime dichiarazioni di indipendenza.
Ero così contenta che volli fare il giro del condominio più volte consecutive nel minor tempo possibile. Sul marciapiede stava passando il mio amico Nicola e io, chissà perché, volevo assolutamente riuscire a salutarlo doppio, così accelerai.
Nel preciso momento in cui sollevai la mano per quel secondo saluto, il manubrio si girò bruscamente su se stesso tradendomi e ancora una volta, mi ritrovai sbattuta violentemente a terra.
Persi conoscenza e restai in ospedale tre giorni per commozione cerebrale… commozione, che gran parola.
E’ stato allora che ho smesso di essere bambina?
Ne dubito.
Neanche oggi riesco a descrivere la gioia di quando scovai il viso di mia mamma dietro a quell’enorme scatola contenente “Anna”, una bellissima bambola dai capelli neri, cappellino e impermeabile blu a pois bianchi, che nel camerone dell’ospedale avanzava incredibilmente verso il mio lettuccio.
La verità è che smetti di essere bambinǝ quando smetti di fidarti delle persone adulte.
Cose che succedono anche così:
Elena gioca sola in cortile.
Il cortile è grande, soprattutto dietro, ma la cosa che le piace di più sono le aiuole. Due pezzi di prato dove hanno piantato anche gli abeti, così quando ci entri, nel cortile, se guardi a destra o a sinistra, puoi vedere il verde. Elena, però, preferisce quella più nascosta che fa da confine con l’altro condominio, invece dall’altra parte c’è la strada. Le piace quell’angolo lì, per lei è la casa degli elfi, solo che ogni volta che prova a parlare con le piante arriva qualche persona grande che abita anche lei nel palazzo e che potrebbe sentirla. Allora fa finta di niente e dopo un po’ si allontana. A volte, se è proprio sicura che nessuno la veda, spezza un piccolo rametto o una foglia per annusarli bene, così può riconoscerli meglio.
Oggi però Elena non è stata a salutare le sue amiche verdi, oggi ha altri pensieri per la testa. Elena è sempre contenta di stare sola. Giocare con i suoi compagni è divertente, ma da sola può veramente fare tutto quello che le pare. Quello che manca se lo inventa e parla Elena, parla tanto che il pomeriggio non dura che un attimo, parla e sta bene. Quando gli adulti la osservano restano stupiti. Loro pensano che sia sola veramente, non immaginano neanche tutto quello che ha in testa. A volte è un agente segreto in missione speciale, altre volte è un dottore tutto preso nel guarire i casi più disperati, spesso, è una mamma.
Oggi è in cortile con il cestello che la sua di mamma le aveva comprato per l’asilo, ma poi all’asilo non c’è mai andata perché piangeva ancora prima di partire da casa e non smetteva neanche per un secondo, così le signorine dovevano chiamare perché la mamma tornasse a prenderla. Non le piaceva niente lì, né le facce, né le voci, né gli odori. Dell’asilo l’unica cosa che le era piaciuta era quel panierino di plastica rosa -i maschi ce lo avevano azzurro- che aveva verso l’alto, prima del coperchio, un’apertura che lo contornava tutto con tante piccole sbarre come in una gabbia e che si chiudeva con due denti come quelli dei criceti.
Da un po’ è seduta sul muretto del cancello, vicino alla colonna dei campanelli e delle cassette della posta, con il suo cestello sulle gambe, stretto fra le mani. Non c’è niente dentro, non le serve che ci sia per forza qualcosa dentro, l’importante è averlo. Il sedere comincia a farle male e si è infreddolito, allora si alza per fare un giro senza avere un’idea precisa di quello che farà. Passa vicino alla casa degli elfi e li saluta sottovoce perché sa che in fondo neanche loro hanno piacere di farsi scoprire, poi svolta l’angolo.
E’ qui che il cortile si allarga e che ci sono i pali a T con i fili per i panni da stendere. Come sempre, con la mano destra ben salda nella maniglia del cestello, si raccoglie sulle ginocchia e spicca un salto con l’altra mano tesa verso l’alto per riuscire a toccarne uno. Il filo ondeggia appena un po’, poi si ferma.
Questo punto del cortile è il migliore per rincorrersi e per giocare a nascondino. Qui c’è anche la porticina per entrare nel labirinto. Il labirinto è buio e porta ai garage dall’interno e puoi sbucare dalla parte opposta del condominio oppure uscire dall’ingresso principale.
Elena si ricorda di quella volta che correva come una matta guardandosi alle spalle per non farsi prendere dal suo inseguitore e poi … pam! Uno schianto tremendo, così inaspettato che, subito, non è neanche riuscita a sentire male dallo stordimento. Si era scontrata con Cristian che fuggiva anche lui guardando all’indietro. La botta era stata così forte che tutti e due avevano dovuto abbandonare il gioco e rintanarsi in casa. Oggi, però, il ricordo di quell’avventura la fa così ridere che non riesce a trattenersi e ride, ride fino a farsi venire il mal di pancia.
Ancora con le lacrime che le escono dagli occhi per tanto che li ha strizzati ridendo, Elena prosegue nella sua escursione, quando, all’angolo dell’aiuola vicina alla strada, vede qualcosa di strano attaccato al muro. E’ una macchia nera grande quanto un suo pugno, ma non è colore. La fissa attentamente mantenendo ancora una certa distanza e alla fine, sicura di aver capito di cosa si tratta, si avvicina con decisione.
Era certa di non essersi sbagliata, infatti è un cucciolo, sì, proprio un piccolo di pipistrello rimasto attaccato al muro non si sa come né perché, ma è lì. Quello che la meraviglia di più è che non sa come possa essere sopravvissuto così minuscolo e solo alla piena luce del giorno, però è vivo. Appoggia a terra il panierino rosa e lentamente avvicina una mano per sfiorarlo appena. Lui non si muove e lei può sentire il suo pelo soffice soffice. Resta a guardarlo per un attimo, poi, senza più alcuna esitazione, si china sul suo cestello, stringe i due dentoni rosa, lo apre e delicatamente raccoglie il piccolo con una mano e lo appoggia all’interno del paniere piano piano. Il cucciolo è morbido e caldo e ora finalmente si sente al sicuro e Elena totalmente felice.
Corre in casa dalla mamma che sta lavando i piatti in cucina per mostrarle il suo tesoro.
Le si avvicina tutta eccitata “Mamma, guarda che cosa ho trovato!”
La mamma si sporge un po’ verso l’interno del cestino, poi alza lo sguardo sorpreso “Oddio Elena, ma cos’è, un pipistrello? Ma dove l’hai preso?”
“Di sotto in cortile mamma, era attaccato al muro dietro, lo hanno abbandonato!” risponde tutto d’un fiato.
“Non penserai di tenerlo, vero? Devi riportarlo dove l’hai trovato.”
La voce della mamma è sempre dolce, ma sta dicendo una cosa così crudele che Elena non riesce a credere alle sue orecchie.
“Ma è troppo piccolo, se lo lascio da solo morirà!”
“E’ pericoloso Elena e poi non riusciresti neppure a nutrirlo. Dammi retta, riportalo giù, probabilmente i suoi genitori torneranno a riprenderlo.”
Elena si sente scoppiare di rabbia: “Ma come fai a non capire!” grida e scappa di corsa in cortile stringendo la tana rosa contro il petto per non farla sobbalzare troppo.
Non le pare possibile che sia stata proprio la sua mamma a dire quelle cose. No, no e poi no! Lei il cucciolo non lo abbondonerà mai e poi mai!
E’ sicura che gli elfi le daranno ragione, perciò s’incammina verso l’aiuola magica quando dall’ingresso principale esce il signor Mazzoni. Il signor Mazzoni ha una moglie che è una strega e un figlio cattivo, brutto e antipatico, ma lui è un uomo buono.
Il signor Mazzoni di sicuro capirà, così Elena gli chiede se è curioso di vedere che cosa tiene dentro al paniere. Il signor Mazzoni, sorridente come sempre, non si fa ripetere l’invito due volte e s’affaccia calmo sul cestino.
“Che bello Elena! Ma dove l’hai trovato?”. Elena sta scoppiando di gioia, ora ha un alleato, un alleato vero e per di più è un grande. Lui l’aiuterà, se lo sente. Lo prende per mano e lo accompagna nel punto esatto della scoperta e glielo indica con orgoglio.
“Posso dargli ancora un’occhiata, Elena?” chiede gentile il signor Mazzoni.
Elena stringe ancora una volta con la sua manina i due denti del coperchio e mostra la sua creatura.
“Lo prendo un attimo” dice il signor Mazzoni e non appena lo estrae dal cestello rosa lo scaglia con violenza impressionante oltre la rete, sul selciato del condominio accanto.
Elena è impietrita.
Vorrebbe gridare, vorrebbe picchiare, uccidere il signor Mazzoni, ma non riesce a muovere nemmeno un dito.
Il cuore sembra esploderle nel petto e un groppone gigantesco le soffoca la gola.
“E’ stato per il tuo bene, Elena” dice il signor Mazzoni “quegli animali portano delle malattie. Non ci pensare più, è stato meglio così, credi a me” e se ne va.
Elena sente un freddo più freddo del ghiaccio e una fitta di dolore le si conficca dal cranio fino alla punta dei piedi. Può solo aggrapparsi alla rete da dove vede il corpicino morto del suo piccolo lanciato troppo lontano da lei.
Resta immobile così per un tempo incalcolabile.
(Testi e immagini di Giorgia Monti – © tutti i diritti riservati)
29/05/2021 alle 09:05
che bel racconto Giorgia! grazie! si smette di essere bambini quando non ci si fida più degli adulti è una bella ipotesi, certo. Però credo che fino a quando si conserva un angolino segreto per parlare alle piante e salvare cuccioli di pipistrelli,il bambino che è in noi continua a essere bambino e ci salva
30/05/2021 alle 09:16
Lo spero tanto anche io Paolo caro, ma purtroppo non me sono così sicura.
Un abbraccio stretto stretto.
30/05/2021 alle 16:50
Delicatezza è il motivo ricorrente nelle poesie e nel racconto. Una ragnatela di ricordi mi ha avvicinata all’autrice: la sua sensibilità sa leggere oltre , nell’invisibile ombra di cose e persone.