Risonanze di Massimo Parolini | Alessandro Ramberti o delle faglie viventi
«I passi che fai/ di certo lasciano/ la traccia di un nome di una foto/ l’odore perfetto di un momento// la linea scolpita di un profilo/ i laghi degli occhi in cui scompare/ l’inutile i blocchi l’indugiare// sui soliti nessi del pensiero/ assumi i fenomeni concreti/ trattieni il destino delle immagini// ti senti nient’altro che un umano/ terreno fecondo e creativo/ un nome-di-fiato ma non vano».
Sono versi di Alessandro Ramberti, tratti dalla sua ultima raccolta Faglia (FaraEditore, pg. 141, 2020), che assieme alle due raccolte precedenti (Al largo, Vecchio e nuovo) continua un percorso coerentemente teso all’impegno etico e alla proposta di un modello spirituale cristiano, nella convinzione, in linea con molti scrittori e pensatori novecenteschi (fra cui Musil) che la nostra società stia vivendo la decomposizione dell’antropocentrismo, i cui risultati sono stati ben evidenziati dai massacri del novecentesco secolo breve: «Il mondo si merita un disastro?/ Non senti il momento di cambiare/ di dare energia al tuo entusiasmo// di tendere a mete verticali/ avendo fiducia in un messaggio/ che agisca nel senso universale?». L’esaltazione iolatrica dell’uomo post-moderno deve far posto, nel pensiero poetante di Ramberti, all’ épanouissement, parola chiave della filosofia personalista di Mounier, realizzazione personale, sviluppo, ma anche fioritura, radiosità di un volto, che si realizza nella consapevolezza dell’interconnessione, dell’entaglement quantistico che ci unisce, da sempre, agli altri: «tessuti-intrecciati invero siamo/ abbiamo bisogno del confronto/ coralli di atolli sparsi in mare», «variabili quanti senza date», «noi siamo pianeti interconnessi/ presenze in simbiosi che si attirano/ capaci di dare fuoco al vuoto». L’entaglement della fisica quantistica ci indica come grovigli interconnessi, intrecci, dimostrando all’anima l’astrazione dell’io che non si pone nella relazione personale con l’altro e l’Altro: «Se ami te stesso ti fai umile// lasciando lo spazio necessario/ a chi ti conosce a quanti incroci/ magari per caso o per un attimo// ma sanno specchiare il tuo profondo». Il poeta-editore riminese sembra accordarsi con quanto scritto dal teologo Romano Guardini: «ho preso le distanze dal mio io, ed ha preso forma uno spazio aperto nel quale ha potuto aver luogo il manifestarsi (…). Ed io ne sono stato in qualche modo rinvigorito, rianimato, arricchito. Allungando per così dire il passo, e lasciando indietro me stesso, sono arrivato in me per un’altra strada, e certamente con un guadagno: sono stato più pienamente me stesso». Il gelassenheit-lasciar essere della mistica eckartiana, lo svuotamento dell’ego isolato e separato, l’ abbandono di sé alla volontà di Dio, cristiana indifferenza rispetto alle cose, vera povertà di spirito e umiltà, sono dunque per il poeta l’unica via percorribile dato che «Le anime sono imponderabili/ aspirano ancora all’impalpabile» e «La lingua del cuore è questa musica/ che plasma i sospiri con la vita/ ci sposta nell’area indefinita// in cui ci sentiamo fuori e dentro/ di noi quasi pronti a scomparire». Nella sua «Lettera sull’Umanismo» Heidegger si chiedeva il senso di celebrare l’uomo e la sua immagine filosofica dopo che le catastrofi del Novecento avevano dimostrato che l’uomo «è» il problema. Ma quest’uomo, come denunciava il personalista Mounier, non è persona, intreccio di relazioni, bensì un essere reificato e reificante dai regimi totalitari (oltre ai fascismi e ai comunismi inseriva anche i capitalismi) che hanno negato la dignità dell’uomo riducendolo a cosa-funzione.
Scriveva nell’opera Il personalismo Mounier: «Non si sa più che cos’è l’uomo e poiché lo si vede oggi passare attraverso trasformazioni impensate, si è convinti che non ci sia più natura umana. Per alcuni, ciò significa: tutto è possibile all’uomo e così ritrovano una speranza; per altri: tutto è permesso all’uomo e abbandonano ogni freno; per altri: tutto è permesso sull’uomo ed ecco Buchenwald». Il problema antico del male nel mondo non può essere eluso ma combattuto nella leopardiana «solidal catena»: «il male che penetra nel mondo/ a volte ci schiaccia ma non può// ridurci a sé stesso siamo nodi/ in noi si distende l’universo/ nell’anima scorre in mille modi». La forra, annota Ramberti, è sempre in agguato, bisogna affidarsi, slanciarsi come un arco da costruire con pietre grezze e con la grazia della luce divina, convinto «di avere bisogno del vangelo/ per esser più attento a quel che accade/ ai volti agli incontri al loro velo» e della necessità di uno «scambio vivente di energia/ il ponte gettato nel fossato». E la soluzione, nel sentirsi «relati», è l’altro, il sentirsi «per tratti comuni affratellati»: «In te nel tuo volto che mi guarda/ ritrovo la traccia di emozioni/ i simboli senza le parole […] e abbracciano il grumo che noi siamo». L’altro ci nomina e ci riconosce: «per questo ti chiedo per favore/ di esprimere a bocca apertamente/ il nome che ho che mi designa// da soli non è per niente facile/ chiamarsi appellarsi riconoscersi». Come per il personalismo francese, dunque, per Ramberti la relazione rappresenta il supremo perfezionamento e arricchimento spirituale della persona. «La mia persona, scriveva Mounier, non raggiunge se stessa se non dandosi alla comunità superiore che chiama e integra le persone singole». E Ramberti incarna appieno tale convinzione, creando da anni occasioni di incontro comunitario letterario-artistico presso il Monastero di Fonte Avellana (PU), alle pendici del Monte Catria, nella prima settimana di luglio. Incontri che, in collaborazione con altri membri del gruppo, possono avvenire anche in altri luoghi (religiosi o pubblici istituzionali) nello spirito della condivisione della ricerca poetica, narrativa e artistica attorno ad una parola chiave che di anno in anno il gruppo presceglie. Convinto che nella condivisione dell’abbraccio creativo ci sia una soluzione ai «portoni sempre chiusi», che si possa e si debba «trafiggere quel muro/ di tenebra satura di niente». Tornando alla filosofia personalista, ricordiamo che tale approccio, anche in campo pedagogico, tende a considerare l’uomo nella molteplicità delle sue dimensioni, sia in profondità, che in altezza e in larghezza, sottolineando che la persona è fondata su una molteplice realtà ontologica-valoriale-relazionale. E Ramberti, nella raccolta Al largo, associava propriamente le tre dimensioni spaziali e il tempo alla libertà (larghezza), intesa come dimensione etica orizzontale, alla verità (altezza), alla profondità (empatia, che approfondisce la libertà proiettandola verso una verità «imbevuta» di umanità), alla Misericordia (tempo), intesa come empatia pratica, efficace, vissuta. Una visione che si contrappone nettamente alla barbarie della deriva nichilista che, ereditata dal secolo breve, il terzo millennio sembra aver reso abito quotidiano, nella diffusa indifferenza per la cura etica, civile e spirituale della persona, a partire dalla sua offerta ai giovani, così bisognosi di percorsi valoriali sinceri e profondi, ma spesso fragile terminale periferico della liquida controfferta consumistica contemporanea. Scriveva Mounier: «Se l’altro non è un limite dell’io ma una fonte dell’io, la scoperta del noi è strettamente contemporanea all’esperienza personale. Il tu è colui nel quale ci scopriamo e mediante il quale ci eleviamo: sorge nel cuore dell’immanenza come nel cuore della trascendenza. Non infrange l’intimità, la scopre e la eleva. L’incontro nel noi non facilita soltanto uno scambio integrale tra l’io e il tu, ma crea un universo di esperienza che non aveva realtà al di fuori di questo incontro» . Il noi, dunque, come cuore di irradiazione di ogni uomo sociale nell’azione di trascendimento dell’io. Il rapporto con l’altro diviene perciò fondamentale per il pieno sviluppo-compimento (épanouissement) della persona: «L’épanouissement della persona, implica infatti, come condizione interiore, un’espropriazione di sé e dei propri beni che priva l’egocentrismo di uno dei suoi poli: la persona non si ritrova che perdendosi, la sua ricchezza è quanto le resta quand’è spogliata di ogni avere» (Mounier, Il personalismo).
Un altro autore che può aiutarci, nell’espansione interpretativa dei versi di Faglia, è il neurologo, psichiatra e filosofo austriaco Viktor Emil Frankl (fra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia e fautore di un’antropologia integrale che considera l’essere dell’uomo come totalità fisico-psichico-spirituale) secondo il quale il nichilismo contemporaneo, che riflette la mancanza di senso nell’esistenza, va superato con un impianto logoterapeutico che consenta di ritrovare in noi la forza di resistenza dello spirito. Scrive Frankl: «Ciò che designiamo come ente è un’unità che possiamo delimitare dall’insieme di tutti gli altri enti: la sua rilevanza si fonda su una relazione che permette di distinguerlo. E’ il fatto che un essere viene rapportato ad un altro e diverso essere ciò che in definitiva costituisce entrambi. E’ la relazione tra un ente e un altro ente che precede, che è primaria: ogni essere è dunque un essere in relazione». Dio è nell’inconscio, per Frankl, e tale inconscio spirituale lo spinge alla ricerca di senso nel proprio vivere; Ramberti ravvisa, in concordanza, la sua presenza, nella proposta intima di un progetto senza limiti: «presente oltre il tempo che ci è dato/ epigrafe incisa nelle viscere/ si affaccia un progetto sconfinato», «si insinua nell’anima una luce// si espande oltre i muri oltre le siepi/ gli ostacoli cedono in salita», «Legando lo spirito alla terra/ richiedi una sponda che dia slancio», «non riesci a restare solo fango/ e senza il respiro non sei nato». Dal profondo risale una cesta «Ricolma di terra tenerissima» perché «noi siamo fatti per rifulgere/ negli altri nel bene e in ciò che vale». Il vissuto del dolore non è assente nei versi del poeta, poiché «C’è questa profonda gola scura/ che proprio vorresti non adire/ ma vivi e se stai anch’essa dura», e gli stessi santi sono colti nella loro umana fragilità in quanto «ci mostrano chi siamo/ amici che sanno condividere/ gli aspetti di cui ci vergogniamo». Ma se «Il buio nostalgico del pozzo/ ti attira-seduce ti spodesta» e non sempre risulta «facile dar fuoco/ a sillabe poste in cima ai ceri», la speranza («nota di nardo dell’altezza») aiuta a risollevarsi («ritorni in te stesso ti converti/ ti alzi prendendo quella mano/ che attende ed abbraccia i tuoi deserti») e si fa lode per ricongiungersi all’origine: «La lode è la corda più sonora». Perché, riconosciutosi creatura «può sempre contare su una guida/ che l’ama l’ha scelto lo conosce/ e mai lo ripudia se si affida»: la faglia, ricordandosi terra e roccia originariamente allineata al Creatore-Padre, scoperto il piano di frattura, può, proprio sentendosi faglia (dal francese faille, derivato di faillir «mancare»), concepire ciò che manca e accettare, liberamente, di riallinearsi alle pareti (labbri) divine: «amando si supera ogni dazio».
Faglia è una raccolta poetica coerente che ha un valore aggiunto: Ramberti, laureato in lingue orientali a Venezia, conoscitore anche dell’Esperanto, propone infatti un «Avviamento all’esperanto», la lingua artificiale, sviluppata tra il 1872 e il 1887 dall’oculista polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof con lo scopo di far dialogare i popoli per creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice, non commerciale o di dominio coloniale, che appartenga all’intera umanità. In calce alla raccolta troviamo una traduzione in esperanto di alcune poesie scelte, seguita da dieci lezioni sulla lingua della speranza (con relativi esercizi). Un’ulteriore prova della convinzione che dobbiamo lavorare per ciò che unisce, a partire dal linguaggio, che ci abita e che abitiamo, nella speranza (nostalgia) di una ursprache-lingua originaria che riunisca, anziché separare, in un «abbraccio» di «pace che veste la materia/ di un manto di splendidi fotoni».
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