A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Tocco la poesia negli intervalli nei ritagli negli scarti. Alcune domande a Irene Sabetta sul suo Errore cronologico (Il Convivio Editore, 2023)

 

 

Errore cronologico allude a una sfasatura cronologica? Si tratta di una sfasatura relativa alla sfera soggettiva? alla sfera sociale?

Errore cronologico è una mia riflessione in versi sullo stato di salute o, piuttosto, di malattia della civiltà occidentale. Il punto di partenza è la citazione da Amleto “the time is out of joint”. Mi ha sempre colpito, in questo verso, che il tempo presente, un presente “marcio” alla corte di Elsinore, sia definito dal Principe di Danimarca in termini spaziali. Trovo che nella frase sia centrale la parola “out”, “fuori” che indica, appunto, un dislocamento esistenziale dell’essere umano in un’area esterna, soggetta alle intemperie del caso. A mio avviso, si tratta di un’amara constatazione sullo stato dei fatti alla corte di Elsinore e, al tempo stesso, di un assioma imprescindibile e sempre valido: l’equilibrio e l’armonia, sia individuale che sociale, vanno cercati fuori dalla storia, in un’altra dimensione da reinventare in ogni momento. Se Amleto si sentiva inadeguato, pur essendo l’eroe designato a rimettere le cose in sesto, noi siamo “Amleto in Patagonia”, ci troviamo cioè spaesati e confusi in un mondo che ha raggiunto un tale grado di complessità da stordirci. Guardando indietro alla storia incapperemmo negli stessi soliti errori e il domani è ignoto e imprevedibile. Forse l’unica via è quella di cercare un nuovo corso, un altro modo di affrontare la vita, con uno sguardo attento e omnicomprensivo, che possa cogliere e accogliere molte visioni contemporaneamente; senza temere la molteplicità, uscire dalle briglie del principio di non contraddizione per esplorare le profondità del non senso e dell’impensato.

 

 

In un verso tu parli di tempo prigioniero, in un altro di tempo tardivo. Di quale prigione si tratta, e di quale ritardo?

Il tempo prigioniero e il tempo tardivo alludono all’inganno della storia, di Kronos. Non è più possibile illuderci che nell’ordine cronologico degli eventi ci sia insita una spinta progressiva, un’evoluzione. Il tempo è uno stagno senza sbocchi al mare. Non c’è storia, non c’è sintesi dialettica ma un accadere sincronico e magmatico di cose, pensieri, forze, sentimenti che ribollono insieme e costantemente. É solo una congerie di attimi probabilistici, di precari equilibri, di connessioni e interconnessioni.

 

 

Tutta la raccolta sembra voler prendere le distanze dalla lirica della tradizione novecentesca. Sembra anzi intenzionata a scardinarne gli assunti. Anche il materiale linguistico utilizzato se ne allontana. Un tempo nuovo per la poesia? una nuova strada?

 La mia poesia non è sperimentale e il linguaggio che uso è piuttosto comune e diretto. Tuttavia, cerco di esercitare un controllo sulla lingua, meno sui contenuti, e, nelle successive revisioni, tendo a togliere tutto il superfluo. Questa volta, nell’ultimo editing della raccolta, ho deciso di eliminare anche la punteggiatura e di limitare l’uso delle maiuscole, cercando di creare delle pause attraverso le spaziature. Spesso, invece, i testi nascono da “esperimenti” di scrittura in situazioni particolari, come imaging 1 e imaging 2 che ho composto stando allungata in una macchina per la risonanza magnetica. Credo infine che l’aspetto più innovativo risieda nella giustapposizione di immagini a volte stridenti tra loro.

 

 

“La poesia non è cibo / ma se ti nutre / deve essere buona / poesia biologica a filiera corta”. Più avanti accenni alle molte trappole, al sospetto che la nave sia stata costruita per naufragare. Alludi al naufragio della poesia o della società?

Sì, credo che la poesia sia un privilegio. É il dominio della forza creativa e vitale che supera ogni ostacolo, il regno della finzione suprema capace di veicolare verità. “The truest poetry is the most feigning”, fa dire Shakespeare a uno dei suoi personaggi di As You Like It. La nave a cui accenno è la civiltà, sono le sovrastrutture che falsificano e corrompono il rapporto con la realtà.

 

Tra gli autori contemporanei ce ne sono alcuni che potrebbero essere modelli per te?

 Non ci sono autori contemporanei che prendo a modello ma, di certo, ho una preferenza per i testi asciutti, senza sentimentalismi, che sappiano sorprendermi e condurmi in luoghi di nuove scoperte. Amo le poesie “reticenti”, che parlano senza dire troppo e lasciano spazio all’immaginazione di chi legge.

 

foto di Paolo Zanardi

 

Next generation: tu scrivi che non ama le superfici né le descrizioni. Sono considerazioni che nascono dalla tua esperienza di insegnante?

Next generation è un testo ironico, esageratamente e volutamente criptico. Il titolo si richiama al piano per la ripresa da 800 miliardi di euro che l’Europa ha varato al fine di riparare ai danni economici e sociali causati dalla pandemia. Eppure mai come ora è difficile guardare al futuro, immaginarlo e prevedere quali possano essere le esigenze, i desideri, i progetti della prossima generazione. Perciò il mio testo traccia un contrasto ironico tra la vuota assertività del linguaggio burocratico e finanziario e la complessità, spesso indecifrabile, della realtà, in questo caso dei bisogni reali e delle tendenze dei giovani. Forse qui sono stata troppo ambiziosa e mi scuso con i lettori e con te se l’ironia era troppo nascosta per essere colta.

 

Siamo mosche sul parabrezza: in definitiva è questo il messaggio? L’impermanenza, il vuoto, la vanità?

La mia scrittura si nutre moltissimo di altri testi. Prendo immagini e suggestioni un po’ ovunque. Rubo. Qui ho rubato dalla musica: Fly on the windscreen dei Depeche Mode e Fly on a windshield dei Genesis sono canzoni che parlano dei segnali di pericolo di morte che ci circondano ma che, tuttavia, non possono impedirci di vivere.

 

Tu scrivi: “Malinconica ricerca dell’io / in un pugno di polvere”. Sono versi che alludono alla volatilità, alla inutilità dei testi incentrati su vicende personali? aggrappati a un ombelico narcisista?

 In questi versi ci sono due riferimenti letterari, uno a The Waste Land di T. S. Eliot (“I’ll show you fear in a handful of dust”) e uno a Hamlet; parlando dell’essere umano, il principe di Danimarca lo definisce “a quintessence of dust”. In entrambi i casi c’è un’idea di inconsistenza, intesa sia come incongruenza sia come volatilità. La “paura in un pugno di polvere” indica quel senso di terrore che ci coglie, a volte, senza un motivo e all’improvviso; l’individuo, in quanto “quintessenza di polvere”, è un essere fragile e impermanente. La “malinconica ricerca dell’io in un pugno di polvere” si riferisce agli sforzi vani di dare una connotazione stabile e solida alla nostra identità mutevole e fragile.

 

 

“Mi è sempre piaciuta la poesia più della vita, e le montagne più del mare”. Sembra una dichiarazione di poetica?

Più che una dichiarazione di poetica è una messa a nudo a di me stessa. Nel linguaggio e nelle immagini che uso, cerco sempre di essere impersonale, di trovare la “formula” giusta in grado di suscitare in chi legge un’emozione simile a quella di partenza, senza effusioni o confessioni. Qui, però, in uno dei monologhi, ho voluto lasciarmi andare, parlare un po’ di me. Sin da bambina, sono sempre stata appassionata di montagna e di fantasticherie.

 

Molto interessanti ed efficaci sono i “Monologhi esteriori”. Quanta verità e quanta finzione?

Nei “monologhi esteriori” ho cercato di riportare le ripercussioni che le contraddizioni e le discrasie del mondo contemporaneo, trattate nei testi delle sezioni precedenti, hanno sull’inconscio o, comunque, sul nostro sentire intimo. Inoltre, ho inserito alcuni frammenti di sogni (incubi, forse) per conferire autenticità al tentativo di dar voce ai miei turbamenti più profondi. Ho chiamato questa sezione “sogniloqui”, sia in riferimento ai soliloqui di Amleto, che costituisce lo scheletro e il sottotesto di tutta la raccolta, sia per sottolineare che si tratta, appunto, di discorsi e flussi mentali tra la veglia, la consapevolezza, e il sonno, l’inconscio.

Sempre, quello che più mi interessa, è lo spazio intermedio, l’intervallo, l’intercapedine tra il pensiero e l’impulso emotivo, il dentro e il fuori, lo scarto tra essere e essere detto.

 

Nella postilla finale Falasca afferma che tu ami guardare con occhio strabico la società. A me sembra che il tuo occhio non sia strabico per niente, che sia magari impietoso, radicale, ma non strabico.

Credo che Franco Falasca per “occhio strabico” intenda uno sguardo che tende a deviare dall’apparenza frontale per scorgere, piuttosto, la realtà delle cose come sono. È uno strabismo di metodo, una stortura nella traiettoria dell’osservazione che cerca negli angoli, di traverso, quello che si nasconde dietro la facciata.

 

foto di Paolo Zanardi

 

errore cronologico

 

oltre l’ordine morale delle cose

 nello spazio anacronistico

 dell’azione incerta

 l’alone dell’errore assorbe

 lo spessore della luce

 e incrosta di vita l’intenzione

 

 malinconica ricerca dell’io

 in un pugno di polvere

 

 discorso diluito nel sonno

 tra un tradimento e l’altro

 una cena e l’altra

 

 dove il volto e la maschera non si toccano

 tra le labbra e il bicchiere

 tra la chiave non trovata

 e la tasca bucata

 inizia una spirale infinita

 la retta via di fuga

 dei pensieri latitanti

 sulla curva

 che euclide non vide

 la lancetta spezzata dei minuti

 annulla ogni racconto

 e si fa giorno

 

 

°     °     °     °     °

 

 

 

monologo esteriore n. 3

 

 tocco la poesia negli intervalli

 nei ritagli negli scarti

 e mentre scrivo penso

 sono il neurone nella testa

 o la mela la scarpa il filo d’erba nel prato?

 la mente avvolge il corpo

 e la parola nasce distante da me

 mio fratello è una voce

 che mi chiama di notte

 e il suo numero di telefono

 è una formula algebrica

 mi sono svegliata due volte

 alla stessa ora nello stesso giorno

 e continuo a non capire

 la vita è un macchinario

 in rodaggio

 io sono parte del motore

 ma nessuno mi sa dire

 quanto durerà la prova

 ora che lo spazio di incidenza

 è minimo

 e il fiato è corto per legge

 non più di un metro

 rifiuto questo pozzo contaminato

 e mi rifugio in quello che riesco a vedere

 dalla finestra

 le pieghe verdi tra le montagne

 le fragilità periferiche

 le chiese sconsacrate

 mi arrendo con dolcezza alla paralisi

 ed è un bene non conoscere mezze verità

 


Irene Sabetta vive ad Alatri, dove insegna lingua e letteratura inglese al liceo. Suoi testi sono presenti su diversi blog, in antologie curate da vari editori, in poemi collettivi e riviste letterarie on line e cartacee. Dal 2019 collabora con la rivista “Formafluens-International Literary Magazine”. Nel 2021 è stata finalista al premio “Arcipelago Itaca” e ha ottenuto il secondo posto al premio “Antica Pyrgos”. Nel 2022 suoi testi inediti sono stati finalisti al “Lorenzo Montano” di Verona e al premio “I Murazzi” di Torino. Nel 2023 è risultata vincitrice, nella sezione silloge inedita, al concorso “Carlo Bo  – Giovanni Descalzo” di Sestri Levante. Inserita nell’Almanacco di poesia italiana al femminile “Secolo donna 2023”, edizioni Macabor. Ha pubblicato i volumi di poesia Inconcludendo (EscaMontage 2018), Il mondo visto da vicino (Il Convivio Editore 2020), Nella cenere dei giochi (La Vita Felice 2022). Errore cronologico (3° posto al Premio per silloge inedita “Pietro Carrera” 2023) è la sua quarta raccolta.