A tentoni nel buio di Paolo Polvani / Le nuvole passeggiano comunque per il cielo e il vento a vagabondare per i cortili (note di lettura a Fores’c – Forestieri, di Francesco Indrigo, Edizioni  COFINE 2023)

  

 

Non ho una dimestichezza sufficiente con la lingua friulana per associare a ogni singola parola la corretta pronuncia, il suono, quelle sfumature della lingua così importanti per apprezzarla. Però dalla mia parte ho la consapevolezza che tutte le lingue locali posseggono almeno una radice comune, il latino, per cui esistono parecchie contiguità, vicinanze, direi persino parentele: così, per fare degli esempi banali, parole come taula, peraulis, discors, set, suggeriscono un accesso immediato alla comprensione; inoltre ci sono termini relativamente moderni, giovani, che vengono assorbiti dalle lingue locali semplicemente adattandole a schemi prestabiliti, così il verso “subit dopu la pension” risulta di comprensione immediata.

Inoltre, per esperienza diretta, e avendo frequentato il Friuli per parecchi anni, (e non solo per il servizio militare), ho avuto modo di verificare dal vivo l’atteggiamento di devozione quasi religiosa, di profondo attaccamento alla lingua. In diverse occasioni ho assistito a letture di poesie in friulano, e mi ha sempre stupito il silenzio che si creava durante questi eventi, la partecipazione numerosa e attenta del pubblico, l’ascolto.

In un suo racconto Max Mazzoli avanza un’ipotesi ardita, si chiede: “E se Dio fosse la lingua?”. Assistendo a quelle letture tale ipotesi sembra meno azzardata, sembra trovare delle possibili conferme. Inoltre ho sempre apprezzato il riguardo, l’attenzione che la gente riserva ai poeti legati al territorio. Andreis, il piccolo paese dove è nato il poeta Federico Tavan, è tappezzata di sue poesie. A Maniago esiste una libreria, specializzata soprattutto in letteratura per bambini e ragazzi, che porta il nome, La naf spazial, di una delle più conosciute poesie di Federico Tavan, poeta   dalla vita complicata da disturbi psichici.

Inoltre anni fa a Pordenone, sempre a Federico Tavan fu intestato un parcheggio. Fece seguito uno strascico di polemiche. Alessandro Canzian, poeta ed editore friulano, si fece interprete del malcontento legato a questa scelta; riporto una sua breve considerazione: “E dato il taglio giocoso di questo articoletto permettetemi una battuta: sono felice che abbiano intitolato uno spazio urbano a Federico Tavan, anche se (come mi sono trovato d’accordo con Colonnello) ora stanno veramente inflazionando le manifestazioni di affetto (postumo) al poeta andreano (tutti stupidamente a fare eventi su Tavan, facendo più danno che altro alla sua poesia). Ma se io diventerò mai qualcuno dopo la mia morte non intitolatemi (vi prego) un parcheggio a pagamento. Magari un vicoletto, un ponticello, dove si possa rigorosamente passare gratis. Ma non un parcheggio, vi prego”.

 Al di là della scelta poco felice rimane significativa l’attenzione dedicata a un autore locale; in altre regioni, in altri luoghi nessuno si sarebbe mai sognato di legare il nome di un poeta neanche a una sedia, a un portacenere, forse a un cestino per la carta! Questa lunga premessa per sottolineare la grande considerazione popolare di cui gode la lingua friulana. Occorre anche dire quanto ricca di poeti sia questa terra: la prossimità di una frontiera? la varietà di tante lingue concentrate in uno spazio in definitiva esiguo? la prosperità dell’economia che si riflette sulla varietà delle iniziative culturali? il contrasto sociale per cui a una classe di molto ricchi corrisponde una fascia larga di povertà? il disagio che genera l’iperliberismo? l’accresciuto senso di solitudine dovuto alla competizione?

In questo ambiente favorevole alla poesia una figura di primo piano è certamente Francesco Indrigo, il cui ultimo libro porta il titolo di Fores’c, Forestieri. Dalla nota dell’autore, riportata nella parte conclusiva del volume, traggo questa interessante dichiarazione: ”Ho sempre pensato al dialetto come ad un mezzo di comunicazione straordinario per pregnanza, sonorità e poetica espressione, nel senso pasoliniano dell’accezione. Una lingua, come dimostrato, dalle grandi potenzialità letterarie”. E più avanti: “Scrivo in una sorta di sospensione temporale, abitando quell’incisione, quella striscia nera sul biancore abbacinante del foglio in cui mi specchio”. Dalla nota dell’editore traggo invece questo brano esplicativo: “Un libro in cui tutti sono forestieri: i datori di lavoro e i lavoratori, gli uomini e le loro maschere, i famigliari che invecchiano, i cani morti per aver bevuto in pozze inquinate, il vecchio Argo che ancora aspetta il suo amato padrone”.

Di questa raccolta mi colpisce il dettato preciso, la semplicità con cui l’autore va dritto al bersaglio: “Walter al è stat il prim a zì via”, (Walter è stato il primo ad andarsene), come tutti quelli della linea tre, con i polmoni foderati di amianto. Ed è l’eternit il filo rosso della raccolta, il destino venefico che lega molti dei personaggi che si affacciano dai versi.

Tra le varie figure trovo molto interessante Gino il Rosso, al quale viene associata “la solitudine dei comunisti”. Avevo trovato una riflessione analoga in un libro di Simona Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, in cui uno dei protagonisti afferma: “Mi è stato anche detto che non posso soffrire solo perché sono comunista, che non è possibile. Ma l’esserlo è un po’ come una malattia: solo chi ce l’ha, radicata, potente, può capire”. Sono notazioni che illuminano un disagio, il malessere di chi guarda più avanti, ed è destinato a rimanere solo, il disagio di chi coltiva un sogno, di chi è radicato dentro un’utopia e vive in funzione di quella, e si porta dietro tutto lo squilibrio che comporta muoversi in una società dove basterebbe poco, la volontà unanime di molti, se non di tutti, per una trasformazione radicale del reale. Mi sembra quasi al limite dell’ovvio che di questo squilibrio si facciano interpreti i poeti, il cui sguardo è proiettato sempre un po’ più in là, perché se è vero che “i poeti hanno troppa fretta di cantare le nuvole”, d’altro canto: “Se soltant il vint da la justizia”, ”Se soltanto il vento della giustizia facesse / tremare le vetrate di questa razza bugiarda”. Qui è l’impegno civile a vibrare all’interno del verso, e la bellezza dei versi s’intride di bagliori lirici intensi: “”Il franzèl ch’al sghirla ta l’aria sidìna. al ciapa flat” – Il fringuello che saetta nell’aria silente, / riprende fiato”.   

Lo sguardo partecipe del poeta si sofferma su figure emblematiche della società, su quella signora Lidia, in fila alla Caritas per una sportina di pasta e olio e conserva, il cui cappotto è ancora dignitoso, e le cui scarpe parlano di un’antica festa, e il cane Argo che attende il cigolio della bicicletta del suo padrone, e invano hanno provato a dirgli che non tornerà più, che l’amianto nei polmoni l’ha spezzato per sempre. Tutto pronunciato in una lingua sonora, dalle morbide rotondità e lancinanti asprezze.

foto di Tarcisio Baldassi

 

E cussì diu a si è sintat in taula.

No lu vevi invidat e nencia preat,

al veva doma fan e set. Alora

‘i ài taiat il formai e il salat e spacat

il pan e mitut il ros dal vin gots.

Nol veva gola di ciacarà e nencia jo.

Un pissul rut à pandut ch’al era passut.

Po, ‘i l’ài vardat zi intor dal vint,

cu la so spolvarina frovàda,

piciàda ta li’ spalis magris.

A li’ noug passeva l’ultima coriera.

 

 

E così dio si è seduto a tavola.

Non lo avevo invitato e nemmeno pregato,

aveva soltanto fame e sete. Allora

ho tagliato il formaggio e il salame e spezzato

il pane e versato il rosso del vino nei bicchieri.

Non desiderava chiacchierare e nemmeno io.

Un piccolo rutto ha rivelato che era sazio.

Poi, l’ho visto andare addosso al vento,

con il suo soprabito logoro,

appeso alle spalle magre.

Alle nove passava l’ultima corriera.

 

 

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foto di Tarcisio Baldassi

 

Sot vos, a tegnin il ciàf bas o in banda,

viars il dentri dal curtìl.

‘Na scuffia di lana o il ciapilut ben

fraciàt tai vui.

A sbatin i piè, li’ mans in scarsela

o sot li’ spalis ingrisignidis, a fa fret

ta la brosa di zenar.

Sidìns e ingrumats coma sturgnei di sitàt

tal fil da la lus, a spetin la clamada.

A no finìs mai la fila a la Caritas,

neris e blancs sotegant insiemi,

che la miseria a no è razista.

La siora Lidia à il capot enciamò di sest

e li’ scarpis di vecia fiesta.

A speta la so spurtuta cun dentri

doi pacs di pasta, il ton e la salsa,

il pan a fetis, il vueli e li’ neransis.

Tal tacuìn, dentri la svorseta di coràn

pustìs, a ten la fotografia di so fì,

zut in sercia di furtuna ta li’ Germaniìs

e che dal siò on muart di eternit,

e encia un santùt frustulat dal Sacro

Cuore di Gesù. Al è di un toc ch’a no j domanda

pì nuia, a no j va di disturbà. A torna

in svelta a ciasa, a no j ven di planzi, doma a va.

 

Sottovoce, tengono la testa bassa o di fianco,

verso l’interno del cortile.

Un copricapo di lana o il cappellino ben

calcato sugli occhi.

Battono i piedi lentamente, le mani in tasca

o sotto le ascelle intirizzite, fa freddo

nella brina di gennaio.

Silenziosi e radunati come stornelli urbanizzati

sul cavo elettrico, attendono la chiamata.

È interminabile la fila alla Caritas,

neri e bianchi zoppicanti insieme,

che la miseria non è razzista.

La signora Lidia ha il cappotto ancora decoroso

e le scarpe di vecchia festa.

Attende la sua sportina con dentro

due pacchi di pasta, il tonno e la conserva,

il pane a fette, l’olio e le arance.

Nel portafoglio, all’interno della borsetta di finto cuoio,

tiene la fotografia di suo figlio,

partito a cercar fortuna nelle Germanie

e quella di suo marito morto di eternit,

e anche un santino stropicciato del Sacro

Cuore di Gesù. È da un pezzo che non gli chiede

più nulla, non le va di disturbare. Ritorna

in fretta a casa, non le viene da piangere, solo va.

 

 


Francesco Indrigo è nato nel 1956 a San Michele al Tagliamento (VE), nel Friuli storico. Dal 2008 risiede a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone. Il dialetto friulano della natia frazione di Cesarolo è lo strumento linguistico da lui scelto per provare a dire il mondo, nella sua accezione più ampia. Ha pubblicato in riviste, antologie, albi e quaderni. Nel 2001 la raccolta Matetas / Ammattimenti, prefazione di Gian Mario Villalta (Nuova Dimensione ed.); nel 2005 Foraman / Fuorimano, prefazione di Gianfranco Scialino, postfazione di Piera Rizzolatti (Campanotto ed.); nel 2008 Foucs / Fuochi, prefazione di Gianfranco Scialino (New Print ed.); nel 2009 Revocs di tiara / Echi di terra, prefazione di Mario Turello (Kappa Vu ed.); nel 2013 La bancia da li’ peraulis piardudis / La panchina delle parole perdute, prefazione di Rienzo Pellegrini (Kappa Vu ed.); nel 2018 Nissun di nun / Nessuno di noi, prefazione di Gian Mario Villalta (Samuele ed.); nel 2022 Forsi il vint / Forse il vento, prefazione di Manuel Cohen (Arcipelago Itaca ed.). È vincitore di premi nazionali ed internazionali.