A tentoni nel buio di Paolo Polvani |  Ero nella frattura, dove la notte si schianta (note di lettura a Scisma, di Ilaria Palomba, Les Flaneurs edizioni 2024)

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Scisma nasce come racconto di una drammatica esperienza; come scrive Luigia Sorrentino nella prefazione “è l’autobiografia poetica di una frattura”, il resoconto di una lunga degenza in ospedale dopo un tentativo di suicidio;  l’intero poema risulta ancorato a questo avvenimento, e si palesa, fin dal titolo, fin dai primissimi versi, come un meraviglioso prodotto letterario e, per il lettore, rappresenta una splendida opportunità per attraversare territori di pura poesia segnati dal dolore, dalla resistenza, dalla rinascita.

Mi colpisce la perfezione e la potenza del titolo. Un titolo non è semplicemente la porta d’accesso al libro, costituisce un’indicazione segnaletica ma soprattutto   compendia il senso di un intero libro, ne chiarisce gl’intenti e illumina il percorso che si sta per compiere. Dal vocabolario Treccani apprendo che la definizione della parola scisma è :”dal latino tardo schisma, che è il gr. σχίσμα, derivato di σχίζω «dividere»] (pl. -i). – 1. Separazione di un gruppo di fedeli dal corpo della Chiesa”, e per estensione scissione, divisione, frattura. Questa parola, scisma, viene ripetuta, includendo il titolo, ben sette volte nel corso della raccolta. Ed è una parola perfetta per designare l’atmosfera, per descrivere l’efficacia contenuta in ogni singolo testo e nell’ultimo verso della prima poesia: “scempio”. Anche altre parole ricorrono e si fanno portatrici della profondità di un senso: il nome, frattura, finestra, amore; indicano le correnti attraverso cui si frantuma e si ricompone il racconto.

Mi colpisce la bellezza, e la sincerità, della dichiarazione di Ilaria Palomba: “Scrivere per me è un costante confronto con i maestri”. Mi torna alla memoria la frase d’esordio del libro La macchina sognante, di Julio Monteiro Martins: “Cos’altro è la letteratura se non un dialogo incessante, sempre aperto, tra epoche e civiltà, tempi e spazi, poeti e lettori?”. Circola, a volte in maniera sotterranea, l’idea che leggere altri autori comporti il rischio di perdere l’autenticità della propria voce. Credo che non ci sia niente di più sbagliato. Leggere è la prima forma di apprendimento per chi intende votarsi alla poesia. Tempo fa leggevo una riflessione acuta di Claudia Zironi, la quale affermava che per divenire poeti non è sufficiente leggere, come non è sufficiente ascoltare musica per divenire musicisti, come vedere film non garantisce la carriera di attore. Ma invece leggere i grandi poeti con l’avidità di succhiarne l’anima, di carpirne il respiro segreto, porta a risultati importanti, come importante è l’esempio che cogliamo nella dichiarazione di Ilaria Palomba, che da quel costante confronto con i maestri riesce a creare un poema in cui ogni verso sa essere tagliente come una lama. (Mi piace il felice contrasto tra la voce gentile di Ilaria e la potentissima voce poetica che sa esprimere).

Mi colpisce l’energia creativa che sprigionano i versi, fin da quel Giorno zero che inaugura il libro, dove la sequenza del gesto viene concentrata in un pugno di parole: “la finestra / le gambe raccolte / i palazzi al rovescio / scempio”. Credo che se non ci fosse stato un incessante dialogo con i maestri sarebbe stato difficile raggiungere una tale compiutezza e un risultato di tale efficacia. Mi colpisce anche la continuità della resa, la coerenza stilistica, tutti i versi costituiscono un pieno, un condensato di senso, tendono a rastremare, a stringere ma con l’effetto di divenire effervescenti, di assicurare ricadute luminose e profondità: “Spezzarsi. Spezzarsi. Sgretolarsi in gesso. Ricorda perché scegliesti la fine, l’abbacinare di una finestra senza occhi”. Ecco, credo che la parola abbacinare renda bene, si tratta di versi abbacinanti. Tutta la raccolta è un susseguirsi di bagliori, di intensi lampi di poesia: “Gravitare nell’aria imbastire una libertà”; “Guardandomi dicono: La bambina è viva”; “Ero nella frattura, dove la notte si schianta”.

Mi colpisce l’ambizione alla coralità, che trovo esplicitata nella dichiarazione dell’autrice: – Questo poemetto non è solo un modo per resistere alla degenza, è anche un testo brulicante, una voce alla ricerca delle sue origini letterarie -; credo che il concetto di coralità possa essere ampliato in questo modo: una coralità si raggiunge quando il lettore entra in perfetta consonanza con l’autrice e legge, e vive, il testo come se fosse suo, come se quella sequenza di parole fosse una propria creazione: accade nei grandi romanzi, nelle grandi opere letterarie, quando l’immedesimazione diventa perfetta fusione.

Infine mi colpisce la tensione al rinnovarsi, a resistere, a fare dello scisma un’occasione di risalita e di rinascita, una corrente che affiora e si rincorre nel corso dell’intero poemetto: “Accogliere la madre, non rinnegare la vita. Tutto questo morire tornerà, dovrai poi dirgli: Non voglio più, resto qui, nelle frane. Resto”.

Josef Kourdelka, exiles

Giorno 0

 

La casa vuota dei nomi

la casa del deserto

per il suono dell’organo

nera luce intorno

non hai più Dio

è il Dio dell’abbandono

il tuo nome di grafite

decomposto parla

con i morti

il cimitero della mente

epidemia

diecimila voci rapaci

il nemico armato

è l’occhio

il nemico interno

è l’altro

un plotone di sguardi

i blister

la finestra

le gambe raccolte

i palazzi al rovescio

scempio.

 

 

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Giorno 1

 

Non immaginavo di aprire gli occhi

la voce disse: Ingoia la fame.

E poi la finestra, i vetri,

di schiena, rovescia i palazzi.

Mi sveglio nella foschia del dolore,

Quale parte di me è rimasta?

Siamo nell’ aldilà?, chiedo.

No, siamo molto aldiquà, dice.

Cosa mi aspetta?

Nessuno sa se supererai la notte.

 

 

°     °     °     °     °

 

 

Giorno 46

 

Dei suicidi non hanno pietà,

anche se salvati restano

suicidi. Non si perdona

di scivolare tra molteplici lingue.

Ho paura di sbagliare

e cercare ogni giorno

mani mai toccate

lingue impronunciabili.

Rintoccava l’ora della colazione

aver sputato su Dio

sulla luce

sul seme

sulla lente che ingrandisce e deforma

le famiglie pencolanti sugli sterpi

aver incolpato ogni creatura

del mio immenso fallimento.

 

 

°     °     °     °     °

 

Giorno 65

 

È il punto in cui si spaccano

le maschere. Il punto esatto

dove non resta la menzogna.

È il mostro in ogni uomo,

divorazione dell’altro.

A te riesce di restare

appesa a un filo

e ti scioglie.

Dillo a tutti:

non sono più Ilaria,

non sono più nulla,

ma resto nella terra,

nell’attesa del volto.

Cerco ogni giorno il passo

e resisto nel nome di niente.

 

 

 

Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flaneurs; presentato al Premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi: Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble, premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Wolf al premio Nabokov 2022); il saggio: Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La gazzetta del Mezzogiorno, Minima et moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana; collabora con le riviste La Fionda, La città delle donne, Inverso, Versolibero.