Spazio di Claudia Zironi | Il pacchetto (racconto)

 
 

 

Il pacchetto
(racconto)

 

Il mattino del suo ultimo giorno, Giacomo Serra, torinese, di anni ventidue, si era svegliato in ritardo, dopo aver picchiato più volte lo schermo del telefono per rimandare il buzzer, e di malavoglia si era alzato. Aveva fatto tardi la notte prima giocando a Call of duty online con un paio di amici. Alle due la partita si era conclusa con una bestemmia che pareva un botto di Capodanno. Adesso, solo quattro ore dopo: una Red Bull, una doccia, una maglietta scolorita sui jeans e bisognava essere pronti in sella per le consegne.   

Altra bestemmia: piove! Giacomo mentre scende le scale indossando di fretta il K–way rimane incastrato tra il collo e la manica di plastica. Cieco e avviluppato, inciampa e rovina giù per i dieci gradini restanti. Anche a vent’anni dieci gradini sulla schiena e sulla testa fanno male. Quando si rialza gli pare che stia scendendo sangue dalla fronte e che il perone sbuchi dalla carne. In realtà è tutto intero, lo spavento e le ammaccature fanno il loro sporco lavoro e aggravano la percezione fisica dell’accaduto.  

Il dolore è uno squarcio, un lampo, un allucinogeno, uno stato di sublime malessere capace di distogliere da qualsiasi pensiero reale, un buco profondissimo nel quale sparisce il mondo fenomenico. La stimolazione dei nocicettori, la scarica di adrenalina che porta il cuore e il cervello ad assomigliare a quelli di un ghepardo che fiuta la preda, l’umor acqueo che scorre in lacrime, saliva e muco, gli orifizi che si contraggono, le piastrine che corrono a raccolta: ogni cellula sa dello stato di allarme e non appena il pericolo cessa, la mente e il corpo cedono e si rifugiano in uno spegnimento provvisorio, in un deliquio più o meno profondo, in una perdita di sé più o meno cosciente.  

Giacomo nel viaggio mentale indotto dallo stato di shock ricorda che il giorno prima – il suo penultimo giorno – ha incontrato un’infermiera, facendo il giro delle consegne: una signora sui sessanta un po’ grassoccia, dalla faccia simpatica e dai modi sbrigativi. Stava uscendo di casa per il turno in ospedale quando lui si era presentato con il pacchetto che, evidentemente, conteneva cosa gradita e preziosa data la reazione della donna che lo aveva preso in mano con gli occhi lucidi e lo aveva immediatamente e con cura riposto in casa riaprendo la porta che aveva già chiuso a tripla mandata.

Il giovane non veniva mai a conoscenza del contenuto dei pacchi che portava, tutti piccoli, compatibili con la sua specificità di rider, alcuni leggeri altri più pesanti, tutti per consegna urgente. All’inizio – un anno prima del suo ultimo giorno – quando aveva cominciato a fare quel lavoro, si chiedeva spesso cosa contenessero i pacchetti e a volte cercava di indovinare scuotendoli, poi aveva fatto l’abitudine all’ignoranza e la frenetica attività a cui era costretto aveva fatto passare anche la curiosità. Erano pacchi in cartone duro, color avana, con sopra solo l’etichetta del destinatario, nessuna indicazione relativa al mittente. Aveva provato a chiedere con noncuranza a colleghi e coordinatori ma nessuno pareva sapere altro fuor che ogni mattina, aprendo “bottega”, trovavano alte cataste di pacchetti da consegnare (probabilmente un TIR faceva la spola ogni notte e lavoratori turnisti – magari dipendenti di una cooperativa esterna – provvedevano allo scarico: erano supposizioni, non si sapeva per la verità nulla di certo in merito) e in base alle zone assegnate se li dividevano.

Ieri – suo penultimo giorno – Giacomo aveva provato a suggerire all’infermiera: «Signora, controlli che il contenuto sia conforme all’ordine prima di firmarmi il documento di trasporto…» Ma la donna, che pareva andare di fretta, gli aveva sorriso (di un sorriso inquietante e ineffabile) scarabocchiando il proprio nome in modo totalmente illeggibile, lo aveva salutato e se n’era andata. Mentre si allontanava pareva più leggera e più diventava distante più pareva agile, quasi stesse ringiovanendo. 

Un sorriso inquietante lo aveva ricevuto anche in un’altra occasione, sempre dopo avere consegnato un pacchetto, esattamente cinquantatré giorni e due ore prima del suo ultimo giorno, da un signore elegante e molto nervoso che lo aveva accolto in modo così affettato e formale da parere un… maggiordomo. Nessuno accoglie un corriere, un ragazzo delle consegne, dandogli del lei, facendolo accomodare in soggiorno e chiedendogli di firmare la ricevuta per la mancia! Il soggiorno era lustro e colmo di quadri e ninnoli e bacheche, il divano perfettamente conservato come se fosse stato rivestito da un tappezziere un’ora prima, aveva uno stile assolutamente desueto e fuori moda, la TV era un 42 pollici della Sony a tubo catodico, un pezzo d’alta qualità d’epoca – anni ’90 – raro e prezioso, sulla moquette del pavimento erano sparsi libri con la rilegatura in pelle, taccuini di carta, in un angolo un violino, tanti dischi in vinile accuratamente disposti in un grande scaffale della libreria, ovviamente terra-cielo in noce massiccio. In vista nessun PC, nessun tablet, nessuno smartphone, nessun router, nessuna Alexa. Quell’uomo doveva essere un pazzo… o un maggiordomo… o il maggiordomo di un pazzo. Dietro al sorriso enigmatico nessuna emozione era trapelata dal viso spigoloso e incartapecorito. A ogni modo l’uomo pareva non avere tempo da perdere e al giovane rider interessava solo fare le consegne in fretta e non aveva certo intenzione di ricevere un richiamo di ritardo per porre o porsi inutili domande. 

Nell’arco della sua recente carriera, Giacomo era incorso solo una volta in uno spiacevole incidente che gli era costato i pacchetti da consegnare ma, data la particolarità della situazione non aveva avuto alcuna conseguenza disciplinare. Circa centoventi giorni fa – circa quattro mesi dal suo ultimo giorno – dopo dieci ore di lavoro, nel buio del tardo pomeriggio invernale, il dock finalmente semivuoto, un rapinatore gli era arrivato alle spalle, gli aveva puntato un coltello sul fianco, altezza fegato, e si era fatto consegnare gli ultimi due colli, entrambi destinati a un unico indirizzo che si trovava proprio dall’altra parte della strada. Mentre il rapinatore fuggiva a grande velocità, un forte boato aveva fatto sussultare tutto il quartiere, aveva fatto cadere a terra la moto di Giacomo da salda che era sul cavalletto e aveva fatto cadere in ginocchio Giacomo, instabile com’era sulle gambe tremolanti per la paura. La casa a cui era destinata la consegna, una casa anni Trenta, rosso mattone, di due piani, circondata da un giardino molto curato e abitato da rose antiche, era in parte sventrata, in parte sbriciolata, le rose sparse a terra o coperte di polvere, due i morti per la fuga di gas: gli anziani coniugi a cui erano destinati i pacchetti rubati. Giacomo si sentì molto fortunato e grato e neppure denunciò il ladro poiché gli aveva evitato di rimanere coinvolto nell’esplosione lasciandoci le penne.

La rosa, cos’è dunque la rosa? Una clessidra? Qualcosa che viene messo sul nostro cammino per segnarlo, per indicarci la nostra caducità e la sua fine? Quanti petali possono cadere nella vita di un uomo? È quando cadono tutti assieme che si muore?  

Ripresosi dalla caduta per le scale e scacciati dubbi e pensieri – e anche il ricordo, associato alle ferite, dell’infermiera che comunque chissà dove si trova in questo momento e non può essergli di nessun aiuto – e il ricordo del maggiordomo – e quello delle rose dopo l’esplosione – Giacomo affronta la pioggia del suo ultimo giorno spingendo al massimo il motore dello scooter per le vie trafficate, per non arrivare in ritardo al lavoro. Si sente strano, come vuoto di futuro, come se presagisse di non averne, e non guarda le vetrine, le ragazze, il locale dove di solito si incontra con gli amici, nemmeno l’auto rossa che gli si ferma di fianco al semaforo e che corrisponde al suo ideale supremo di sportività di lusso superaccessoriata. Ha un moto di stizza per il boomer che si attarda sulle strisce pedonali dopo che è scattato il verde, distratto dal telefonino: di sicuro l’uomo sta andando al suo comodo e asciutto ufficio dove ha un lavoro a tempo indeterminato che potrà lasciare presto con una sontuosa pensione, mentre i suoi figli fanno i commessi precari o i rider o gli studenti frustrati e se la devono vedere con il clima impazzito che porta queste piogge violente in pieno maggio. Se la può prendere con calma, lui! Una scritta sul muro adiacente, un graffito nero e rabbioso con disegnato un meme urlante, sembra dargli ragione e fargli eco con il suo “Boomers to death!”. Giacomo spera che il prossimo pacco da consegnare sia proprio per quell’uomo, per dargli la possibilità di avvicinarlo e scagliagli in faccia uno sguardo di disprezzo. 

Alle 07:59 – cinquantasette minuti prima della propria fine – il giovane arriva al magazzino, in orario ma ultimo tra i suoi colleghi. Saluta con un grugnito chi incontra, scambia due bestemmie cordiali con un paio di tipi giusti e si guarda in giro per valutare il numero dei pacchi da consegnare nella giornata. Una sorpresa attende i rider all’interno del magazzino, in fondo all’ampio vestibolo dal soffitto altissimo usato dai TIR per le operazioni di carico e scarico: oltre alle solite cataste di pacchi da consegnare, su un tavolo in bella vista, addobbato con una tovaglia rossa, una bottiglia di prosecco, bicchieri di plastica trasparenti e un vaso di fiori di plastica, ci sono cinque pacchetti. Un cartello, stampato ma composto con caratteri calligrafici, comunica che l’azienda si congratula con i migliori rider dell’anno e che per ognuno di loro ha pensato a un incentive personalizzato che possono trovare sul tavolo. Sui pacchetti le solite etichette non portano nomi e indirizzi sconosciuti ma i nomi di battesimo di cinque di loro: Matteo, Luca, Giacomo, Giorgio, Irene. Il coordinatore consegna orgoglioso i pacchetti con un largo sorriso, stappa la bottiglia per un brindisi virtuale (visto che una sola bottiglia per tutti non basterebbe decide di versare il contenuto in un solo bicchiere, il proprio). Applauso, poi, dopo qualche istante, invita tutti a riprendere il lavoro. Giacomo prende il pacchetto e bestemmia tra sé e sé per la spilorceria dell’azienda che invece che riconoscere una gratifica monetaria mette in scena la commediola della “festa al lavoratore dell’anno”. Questi spilorci che, a chi il Primo Maggio – e quella sarebbe la vera Festa dei Lavoratori – ha fatto vacanza, hanno chiesto di recuperare le ore durante la settimana, dopo il normale orario, come previsto dal contratto-capestro che impongono a chi lavora per loro.  

Appoggia il pacchetto sulla pedana dello scooter, il suo mitico cinquantino rosso, e comincia a smistare le consegne per zona, inserendo quelle destinate a posti più lontani direttamente nel bauletto montato sul retro della moto. Le altre, come da lui suddivise, vengono messe dentro a scatoloni di cartone e caricate su un camioncino che le porta in una specie di armadio / cassaforte (detto dock) in un magazzino più piccolo, ricavato dal retrobottega di un negozio di parrucchiere che ha chiuso definitivamente durante l’ultimo lock down, situato al centro della zona di competenza del rider il quale così risparmia tempo e non deve tornare ogni volta al centro logistico fuori città per rifornirsi. Quando inforca la moto per partire, il giovane si accorge del regalo dell’azienda appoggiato poco prima sulla pedana e lo butta dentro il contenitore con gli altri pacchetti contando di aprirlo al primo “pit-stop”. Finalmente – come se qualche curiosità ancora lo animasse – saprà cosa contengono i piccoli involucri che consegna quotidianamente: – Speriamo roba buona! – sghignazza tra sé e parte.  

Al primo dosso, preso un po’ troppo in velocità, il bauletto si apre e il pacchetto che porta il suo nome vola a terra. Giacomo non se ne accorge e procede per la propria strada. Un clochard assiste alla scena e pronto si appropria del pacchetto, poi si allontana di qualche metro e si siede in un angolo per aprirlo. Ben visibile il suo moto di disappunto nello scoprire il contenuto del cartone.
Il clochard non immagina neppure che se avesse proseguito per la propria strada, arrivato alle strisce pedonali, sarebbe stato preso in pieno dal furgoncino dei gelati il cui conducente, Piero, quella mattina era intorpidito da un forte mal di testa, preludio di qualcosa di più serio (Piero Gallo è un lavoratore autonomo quarantenne – ex operaio dell’indotto Fiat falciato dalla delocalizzazione degli impianti industriali – che ha da poco intrapreso la sua nuova attività, che ha dovuto versare un anticipo sulle tasse tale da prosciugargli il conto in banca e che ha contratto un debito notevole per dotarsi del furgoncino refrigerato; inoltre pur essendo un “padroncino” lavora per una sola ditta che cura la logistica di diversi produttori multinazionali, garantendo loro un sistema di consegne capillare, impeccabile e a basso costo; dunque la “pressione” su di lui è molto forte e non può permettersi una giornata di letto quando si sente poco bene). Lo stesso furgoncino che, non incontrando ostacoli sulle strisce pedonali, andrà diretto all’incrocio dove Giacomo Serra sta arrivando, assonnato e acciaccato, a tutta velocità – pochi secondi prima della propria morte – e non si fermerà allo stop.