I padri della parola, a cura di Tiziano Broggiato (Luigi Pellegrini Editore, 2022). Recensione di Giancarlo Baroni

 

Consiglierei vivamente a tutti i poeti e agli appassionati di poesia di leggere il volume curato da Tiziano Broggiato I padri della parola (Luigi Pellegrini editore 2022). Convinto dell’importanza, anzi della necessità,  formativa della frequentazione del proprio o dei propri maestri e che tale bisogno  si stia affievolendo, Broggiato spiega da subito i propri intendimenti e la struttura dell’opera: «È così che ho pensato di consultare un drappello tra i nostri poeti più noti proponendo loro di scrivere una testimonianza, un ricordo non solo critico, ma anche umano, vivido di frequentazioni, di affinità, di eventuali, possibili screzi con i padri letterari che hanno contribuito alla loro formazione».  Dopo avere svelato il nome del suo primo maestro, Fernando Bandini, il curatore conclude la sua introduzione dicendo che «un buon poeta… ha necessità soprattutto di tre cose: innato talento, fervida immaginazione e illuminanti frequentazioni».

In maniera esplicita e perentoria, Franco Buffoni inizia il suo ricordo con questa frase-confessione: «Il poeta che maggiormente ha inciso sul mio percorso è stato Vittorio Sereni». E continua: «Sereni mi è maestro per molti motivi. Perché è il poeta il cui stile di scrittura sento vicino, congeniale da sempre; e perché in lui vedo mio padre… Anche mio padre, come Sereni, era un tenente di fanteria dell’esercito italiano. Lo studio dell’opera di Sereni mi ha permesso di comprendere certe asprezze del carattere di mio padre che da ragazzo non riuscivo a capire». Questo intreccio di sentimenti che non esclude appunto motivi autobiografici spinge Buffoni a rintracciare nei testi del suo maestro il filo rosso che gli permette di mettere ordine nei ricordi. Nella testimonianza di Buffoni le poesie di Sereni vengono ampiamente citate, ripercorse, rivisitate, come se principalmente da quei versi emergesse il ritratto più nitido del loro autore. 

Maurizio Cucchi parla di decisivi incontri: «Ho tracciato una modesta mappa dei  miei riferimenti più importanti, dei miei maestri che tali sono stati nelle loro opere e, spesso, anche negli incontri diretti, nelle amicizie». Fra loro Antonio Porta, «figura di rara nobiltà umana», Andrea Zanzotto con la sua «estrema vivacità intellettuale», Nelo Risi dal «tratto garbato, l’ironia sottile, la capacità di cogliere immediatamente il senso, il suono, il sapore del reale», Giovanni Giudici «aperto all’ascolto, al confronto», Giovanni Raboni con il quale Cucchi instaura un rapporto di amicizia («Ricordo benissimo i nostri incontri di allora, nel suo studio–abitazione a Brera», Giancarlo Majorino, Giampiero Neri dal carattere appartato e «dalla semplicità raffinata delle sue parole», Luciano Erba «capace, insieme, di concretezza e leggerezza», Vittorio Sereni «che, nel frattempo, avevo imparato a conoscere e stimare profondamente anche per la sua esemplare rettitudine umana».

Alberto Bertoni si sofferma diffusamente su Giovanni Giudici, «uno degli autori più rilevanti della poesia europea del secondo novecento», di cui è stato discepolo e amico. Le sue lezioni di poesia, confida Bertoni, «hanno lasciato in me un segno indelebile».

Individua senza tentennamenti il proprio poeta di riferimento Renato Minore: «Il primo poeta della mia vita? Giuseppe Ungaretti. Lessi L’Allegria prestissimo, avevo quattordici anni e quel modo frantumato, prosciugato di raccontare -scandire- il dolore, sillabare l’angoscia, fulminare l’emozione mi parve davvero l’essenza stessa della poesia». Ascoltava, giudicava, consigliava, con autorevolezza e generosità.

Davide Rondoni racconta il suo forte e inquieto rapporto con il poeta, saggista e drammaturgo Giovanni Testori: «Fu sempre tra noi un rapporto tra allievo e maestro, ma abitato da qualcosa di potente e non addomesticabile». Aggiunge Rondoni rinnovando la sua incondizionata stima: «Le sue poesie, i suoi Trionfi, i suoi testi d’amore…, i suoi inni sacri sperduti e violenti sono un patrimonio della poesia contemporanea».

Giuseppe Conte ha eletto come proprio maestro il poeta siriano-libanese Adonis che rappresenta «un ponte gettato fra Oriente e Occidente, un arco di energia vivente tra due culture e due attitudini spirituali». Abbiamo bisogno di maestri, anche solo per salire come nani sulle loro spalle di giganti «e da lì cogliere meglio la vastità e la profondità del mondo».

Se per Conte «il maestro alla fine è colui che ti svela il tuo destino»,  per Gian Mario Villalta «il maestro insegna, nel senso più proprio della parola, segna dentro». Il magistero, l’esempio, l’insegnamento, possono nascere dai libri ma, prosegue Villalta, «il vero maestro lo devi incontrare e frequentare»; proprio quello che successe fra lui e Andrea Zanzotto.

Giampiero Neri rammenta il giovanile «sodalizio avuto con [suo] fratello Giuseppe Pontiggia, detto Peppo […] Personalmente avevo come l’impressione di nutrirmi alle sue parole, ai suoi giudizi e commenti sempre meditati, ponderati».

Nella Piccola passeggiata nel passato di Patrizia Valduga, riaffiorano i volti di Zanzotto, di Paolo Volponi e di sua moglie Giovina… e quello amato di Giovanni Raboni: «Ho avuto la fortuna di vivere con lui per quasi 24 anni… insieme a un uomo di estrema sapienza letteraria e morale, di ingegno abbagliante… un maestro che non ha mai fatto sfoggio di maestria». Nel suo intervento dal tono molto colloquiale, Vivian Lamarque nomina più volte e con ammirazione Giovanni Raboni: «La musica raboniana ti resta nelle orecchie. E ogni anno che passa di più».  E aggiunge: «La poetina Vivian ringrazia allora qui tutti i suoi Maestri (anche quelli più lontani nel tempo e nello spazio…) per il patrimonio di poesie con cui l’hanno nutrita».

«Accettare ascendenze, riconoscere maestrie, non è impresa agevole» constata Elio Pecora, che individua le proprie radici in esempi lontani nel tempo (Leopardi, i poeti latini, i lirici greci…) e riconosce i propri riferimenti più prossimi in poeti e prosatori italiani e stranieri contemporanei, diversi dei quali più che maestri furono amici (Palazzeschi, Moravia, la Morante, Amelia Rosselli…).

Umberto Piersanti annovera indubbiamente fra i suoi maestri Paolo Volponi, dall’umanità «brusca e autentica» ma, fa notare, «nella vita il ruolo di maestri e allievi è molto mosso e frastagliato», anche dai “discepoli” i maestri hanno da imparare.

«Se penso ai miei maestri», scrive Claudio Damiani, «la mia mente va subito a autori di secoli passati con i quali ho comunicato a distanza. Di maestri in carne e ossa ne ho avuto uno solo…e era un ragazzo che aveva tre anni più di me, lui 24 e io 21: Beppe Salvia». Un’amicizia e una frequentazione che durano sette anni, dal 1978  al 1985 quando Salvia si suicidò. In quegli anni, fa notare Damiani,  il concetto di maestro era in crisi e criticata, come d’altronde la figura paterna.

Fra i tanti poeti in carne e ossa che Gabriella Sica ha conosciuto di persona, una figura spicca con nitidezza nei suoi ricordi: Elio Pagliarani. Il suo ritratto affettuoso ricco di particolari  offre alla Sica la possibilità di ripensare alla propria giovinezza, agli anni Settanta, ad una generazione che si è sentita quasi orfana di padri e di maestri.

Si intitola Una generazione senza padri la testimonianza di Giancarlo Pontiggia: «Appartengo a una generazione che non ha avuto -e forse non ha voluto-  padri, avvertendo fin dal primo istante il dramma di questo distacco». Un incontro importante è stato comunque quello con Attilio Bertolucci al quale Pontiggia ha dedicato la propria tesi di laurea: «Salivo a Casarola, nelle estati fra il Settantasette e il Settantanove lasciando che…raccontasse dei suoi incontri, delle sue letture, delle sue passioni».

Fra i tanti poeti che ci hanno proceduto o che ci affiancano, che leggiamo o che frequentiamo, per una serie di motivi ne prediligiamo alcuni. Loretto Rafanelli indica Roberto Carifi, suo collega al Liceo di Pescia, il poeta fiorentino Piero Bigongiari dalla parola «vera e garbata, semplice  e profonda», Mario Luzi la cui conoscenza «si sviluppò in diversi incontri e in numerose telefonate» e Roberto Mussapi, «un’amicizia consolidatasi nel tempo».

Il testo di Mussapi, che è «un estratto di un libro in uscita, incentrato sui miei luoghi e sui miei maestri», è un dialogo fra lui e l’autrice del volume, Silvia Granata. In questo stralcio si parla esclusivamente e ampiamente di Yves Bonnefoy: «nacque tra noi una forte simpatia… ci accorgemmo di avere molte affinità».  Un rapporto non solo letterario ed epistolare, da scrittore a scrittore, ma anche umano, basato sul piacere di incontrarsi  da amico ad amico: Mussapi gli fa visita a Parigi, nella sua casa di Rue Lepic; Bonnefoy e sua moglie quando «passavano da Milano, venivano a cena da noi».

Le diciassette testimonianze raccolte nel volume curato da Tiziano Broggiato I padri della parola sono come altrettante stanze di un unico appartamento le cui finestre sono spalancate sulla poesia e sui poeti; sono voci autonome ma non autosufficienti che compongono un variegato coro; sono un viaggio dentro la passione per i versi.