Sogni | I libri che leggo di Emanuela Rambaldi: Jessy Simonini, Campi di Battaglia, Sensibili alle Foglie, 2021
Questo libro, lo attraverso imp(r)udentemente, col mio scarno bagaglio di cartone, per lo più inadeguato. Ma in questo viaggio – nel tempo e nello spazio – faccio incontri con donne e uomini straordinari, e il poeta è così educato da presentarmeli senza farmi notare che sono poco più che una vagabonda.
In questo libro mi immergo, come nelle sabbie mobili.
Visito città che non sono più, ne annuso i miasmi bollenti. Frequento palcoscenici folli, schiacciata dai morbosi sguardi di disapprovazione dei perbenisti, sempre sulla soglia del baratro, ma il baratro è una crepa d’arte.
A volte mi smarrisco, stordita, disorientata, in preda alle vertigini, e incolpo il poeta per aver disseminato i versi di troppi richiami, citazioni omaggi rimandi, tutti troppo cari. Troppi sentieri da esplorare per due sole gambe, fosse in cui lasciarsi scivolare, troppe per un corpo solo.
A volte mi sembra di essere dentro un enorme murales dai colori accessi, abbracciata dai magici volti dei rivoluzionari che parlano lingue mai studiate, ma improvvisamente conosciute.
Una moltitudine. Poeti, intellettuali, lavoratori, schiavi, non li accomuna la classe, ma la rivolta.
Impossibili le categorie, banditi i generi, non esiste indice. Ma io me li appunto, li elenco, perché se è vero che i nomi servono – quelli dei colpevoli, dei responsabili – soprattutto servono i nomi dei sovvertitori.
Ognuno, da ciò che legge, si prende ciò che può.
Qualcosa che ha a che fare con la propria cultura – certo – ma dopo. Per primi vengono i sensi, l’impronta che si imprime nella carne. Nella propria storia.
Si prende ciò che già ci appartiene, che era già presente, in evidenza o nascosto, sepolto, più o meno coscientemente, più o meno deliberatamente.
Questo libro è per me uno specchio. Ciò che lega le parole scritte agli occhi che le scorrono appartiene a tutto l’insieme di vite che ha condotto i miei occhi proprio lì. E non altrove.
Ci sono in questo libro, temi che mi trapassato da parte a parte.
La differenza, tra i libri che abbandoniamo e libri che teniamo, la fa il riconoscersi.
Lo viviseziono, questo libro, perché è un corpo non solo da guardare, ma da mordere. Lo abbandono, lo riprendo, ogni verso mi porta altrove, in un mio altrove conosciuto (a volte dimenticato), in costante procinto di una scoperta – o di una riscoperta – e il libro diventa qualcosa che assomiglia ad un’ossessione, di cui accetto tutte le provocazioni. I pugni nello stomaco, la vocazione dei versi, che esplicitamente ricordano che la loro funzione non è consolare, ma disturbare.
Già dal titolo – dai titoli (ironici, istrionici, che sono mondi aperti su altri mondi) – so che è un terreno rischioso.
Da subito è chiaro che qui la poesia non sta ai margini, non fa da spettatore. Qui, con la poesia, ci si sporca le mani. Da qui si entra in stanze dove non si sussurra, si urla. Dove il poeta declama mille invettive contro il potere, insieme al disprezzo verso i verseggiatori con il posto al sole.
Da subito uno schieramento, il rifiuto di ogni neutralità. Da qui si entra nel territorio in cui va scelto prima da che parte stare.
Viene dichiarata fin da subito, la pretesa del poeta di essere ciò che si scrive. E’ qualcosa che richiede una coerenza senza tentennamenti, come solo sanno fare la gioventù, la follia e l’arte.
Bandite le dichiarazioni di intenti, i compromessi, il poeta (non solo la poesia) è per necessità materia rivoluzionaria. Non basta più solo scriverlo. Bisogna esserlo.
Assorbo l’esplicita ribellione al decoro, che è necessità del potere di disegnare il nostro immaginario e il nostro reale, allineare, decidere cosa va o non va fatto, pensato, vissuto. Parola ricorrente, nei versi. Decoro, “quello conveniente alla condizione sociale di una persona o una categoria”, dice la Treccani. Il decoro sociale non ammette la miseria, e non potendola eliminare (ne andrebbe del proprio profitto), la nasconde alla vita, che è comunque un modo per cancellarla.
Re/imparo l’urgenza di opporsi, l’incapacità di “restare nei ranghi”, di comportarsi bene, perchè ogni ribellione, ogni rivoluzione non può che nascere dalla collera, dal fuoco.
Trovo, nei versi precisi, netti, taglienti, commoventi, l’imperativo di non asservirsi al potere. Il canto di un coro dove contano solo le voci disallineate, che seguono un’altra armonia, chiara, trasparente, che si oppone al possesso che i padroni pretendono dei corpi e delle menti.
L’odio, verso la strategia di confondere le menti e sfinire i corpi. Perché poi, spesso, il corpo non tiene, viene stritolato. Incidenti di percorso. Danni collaterali.
Ricordo i morti che la storia non ricorda, perché non li considera vittime.
Coloro che si sono spinti oltre, dove l’arte e la poesia non possono arrivare. Nei veri campi di battaglia. Ma anche coloro che non sono stati altro che schiavi ribelli, uccisi dal potere nel momento in cui alzano la testa e gridano.
La storia personale si mescola a quella dei poeti, dei rivoluzionari, di artiste e artisti mai concilianti, o di donne semplici, che la lotta di classe non l’hanno imparata sui libri, ma la vivono con un’ostinazione irrimediabile.
E se ribellarsi è ancora sempre più giusto e le classi esistono ancora, è pur vero che esistono nel torpore indotto da un capitalismo che ne ha inghiottito coscienza e conoscenza, in un tempo composto di mancanze, di ipocrita inettitudine culturale ed artistica, dove impera la la sudditanza del politicamente corretto, la vacuità della maggioranza silenziosa.
Ma nell’arte, nella poesia, la rivoluzione è un gene senza età. I mondi di su e di giù sono destinati a collidere, e i pendolari e i guerriglieri si riconoscono come fratelli.
Ricordo, l’altra storia, non quella ufficiale dei vincitori.
Il poeta conduce attraverso le parole, ne indaga il significato, non si accontenta delle frasi accondiscendenti da cerimonia, che quando la democrazia per esistere zittisce il dissenso, allora si svela per ciò che è, sfruttamento sotto l’illusoria bandiera della libertà.
È stato, in Italia, un periodo in cui la lotta di classe si è fatta lotta armata. Un passato recente, un rimosso da svelare. Solo il pensiero libero si può insinuare nelle sue crepe.
Sono figlia di quegli anni, di quella libertà di corpi e menti.
Non puoi essere che così – mi dice un’amica – in una conversazione a tarda sera in memoria di un amico comunista che se n’è appena andato. Generata dagli anni di piombo, dai carri armati che invadono le strade della tua città, del sangue, delle grida degli studenti, delle cariche della polizia, e tu che scappi ma sai già da che parte stare, solo che sei troppo piccola per starci dentro. Sono ancora quelli i tuoi miti, guardati dai margini e ancora ne soffri la non appartenenza, per mancanza generazionale – rimani un’adolescente ammaliata dalla rivoluzione, che non riesce a staccarne gli occhi, a maggior ragione se perduta.
Poi incontro altre rivolte, altri gesti, la solidarietà delle contadine indigene, a fianco dei maestri del pueblo. Indomite, non tacciono. Ecco, ciò che manca in questo libro, è questo. Chi non si espone. Chi rimane muto.
E’ irriverente, il poeta, gioiosamente. E alla fine scopro, da una nota beatamente impertinente, che non possedendo le caratteristiche da lui indicate per abbandonare il libro, conquisto – non per meriti, ma per caso – il mio diritto a continuare a leggere il libro sino alla fine.
E poi, dato che i libri conducono ad altri, libri, da qui parto per altri viaggi. Che qui mi fanno tornare.
***
Ogni esperienza di lettura è personale (e quindi politica). A maggior ragione quella di questo libro.
Queste note, le chiamo emozionali perché non so definirle altrimenti. Il tentativo un po’ naif di mettere ordine e fare pulizia tra quelle che fisicamente riempiono a matita gli spazi vuoti nelle pagine.
Scelgo una poesia per ognuna delle tre parti.
Non quelle che amo di più, perché allora ne avrei scelte troppe, ma quelle che decido di tenere più vicine, per offrirle a chi legge, qui, ora.
***
Da
IL CATALOGO DELLA GIOIA
TAURO
III
Mi spinge avanti un amore preciso
per chi non ha armi contro il dolore
odio con tutta la forza che ho
per il male che a loro è stato inflitto
per questo s’arrotano i coltelli
si sfalda la lingua di pace che qualcuno
ci ha imposto:
le classi non esistono
rivoltarsi è sbagliato
rispettare le regole del campo democratico
questo è il lessico armonico
designato dal mondo di su:
preferiamo scrivere
nuovi e lucidi versi di guerra
lancia in resta nella nebbia
scegliamo un altro campo di battaglia
per difendere il mondo qui giù
mossi dalla rabbia
innestata ovunque
e dall’amore immenso per tutti loro:
i disprezzati dal capitale il cuore
di ogni rivoluzione
les gueux les peux
les rien les chiens
les maigres les nègres.
*
Da
ALBUMI DI FAMIGLIA
QUAI DES GRANDS-AUGUSTINS
Fortini ti scriveva che ci sono
due comunismi, uno più suo, uno
solo tuo: dimmi, di quale parleremo oggi?
/ /
In questa primavera in pioggia
rileggi Lenin mentre Mefis
si stende tranquilla sul divano,
per un istante penso ai gatti,
loro non soffrono il distacco,
esprimono un amore stanco
e avvelenato, cambiano padrone
facilmente, si adirano per niente.
/ /
Ortese in lacrime ti portò un mazzo
di fiori per farsi perdonare dopo mille
verste in solitudine nella steppa russa,
di Morante hai detto che era
una piagnona, di Fortini ricordi
che ti chiamava troppo presto
al mattino e teneva il ditino alzato:
sul tuo volto si accampano
le righe affollate di una mappa,
decenni di critica e di letteratura.
Questo pomeriggio mi parli di obblighi
e zdanovismi, di Togliatti e delle tue
altre centoventi abiure.
/ /
E io che vorrei pettinarti, aiutarti
nelle incombenze di ogni giorno
i gesti fragili, alzarti e camminare,
pulirti i lati aperti della bocca
amara di saliva e tè al limone.
*
Da
CAMPI E CAMPETTI
MOVIMENTO
Promettimi che non faremo la fine di Pezzana
o quella più squallida di Renaud Camus:
un tempo rivoluzionari di professione,
adesso autori sul Foglio o teoreti
affermati della Grande Sostituzione:
abbiamo venticinque anni, fammi giurare
che fino all’ultimo saremo
rivoluzionari senza professione,
che non compreremo un figlio
e non accenderemo un mutuo,
riprendimi e dimmi come l’amore
sia in ogni caso sovversione, anzi
amore impossibile senza spazi
in cui sognare lumbifragi
per industriali e capitale,
ti prego non voltare mai il dorso
della mano alla promessa,
anche a costo di finire soli
e poveri, ma intimi e politici,
nella casa-torre a Castell’Arquato
dove immagino sia morto
Aldo Braibanti, ancora innamorato
di Giovanni Sanfratello.
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