Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Mauro De Candia

 

Ho intagliato la mia immagine sulle persiane

L’impronta che si innalza è antropomorfa,
ritratta a torso nudo: si agita su una lamella
la parte superiore, ciò che resta della testa.
Ronzano come bombi le punte di due dita.
Si riesce ad essere ancora
tendenzialmente umanoidi
in questa riproduzione in sfaldamento
dinoccolato, mentre il tempo fugge oleoso
dai contorni, dagli stessi lombi, lento:
restiamo artificiali io, gli occhi e, sulla lingua,
il cioccolato,
restiamo a macerare sfibrati,
al traino di carrozze,
fatati io e le orecchie,
le labbra e il naso che,
latrando tra gli spazi,
si chiamano, si mancano l’un l’altro.
In questo sciabordare di intagli ho scorticato
anche i contorni di un rudimentale pianoforte
e ho poi fotografato le persiane,
incise coi taglierini degli occhi vigili
come operai notturni, taglienti
come sentieri dissanguati di grafite,
fermando ottusamente i talloni del Tempo
nel quadro dell’immagine,
come Robert Cornelius nel 1839.
Ora che sono inciso sono doppio
e puoi annusarmi come caffeina,
puoi rapirmi nello spazio,
nei satelliti della pupilla veloce.
Posso strusciarti addosso
un pensiero di cartavetro,
un’effusione ruvida della presenza,
quando ci incontreremo ancora
domani o tra millenni,
nelle camere volanti dei sonnambuli,
incendi disarmati di coltelli,
fuori di qui.

*

Piromantic

Mimando il corvettare della fiamma imbestialita,
il tempo, come spuma rafferma,
inacidiva tra le tempie:
in questo angolo d’osservazione siamo guardinghi
e piccoli come i fennec del deserto.
Il pazzo ha dieci bambole di pezza,
da bruciare una ad una
ascoltandone il canto diluviante dal grembo
e la preghiera delle morbide nocche
fuggite alle carezze solari.
A balzi ciclopici arranca finchè può
la baraonda degli occhi, si asciuga e poi
rimbalza sul soffitto biondo di arabeschi.
Maya e Rahel, combuste nella fiaba infernale
come le altre otto favolose in sottoveste,
eppure ardono simboli: sono lì, vive tra le rocce,
camminano tra fantascientifiche baracche,
si fermano, ci guardano, sdoppiate
con volti da cheyennes e doglie nelle mani.
Il pazzo munge il fuoco con rabbia di strega,
ci ha visti, prende due monconi di ulivo,
li distrugge, si avvicina terribilmente.
Vieni, corriamo sotto i dolmen,
non voltarti, corri tra la folla di gambe,
non conosciamo il prima e neanche il dopo,
lascia le donne sulle balconate spaziali di roccia,
c’è uno scrosciare amoreggiante di rasoi.
Chiudiamo il libro aperto casualmente
al centro, andiamo a cena.
Noi egoisti come gazze, torneremo ancora.

*

Perform perfume

Di te ricordo
il balbettio vivace delle mani,
l’utilizzo rettilineo della chimica sociale
e i tuoi avambracci di neve.
Di te ricordo
l’incesto di giostre olfattive,
la performance lubrificante del profumo.
Nel Kabukichō l’umanità
mastica i nomi con le dita,
e con le dita
orla le labbra di meduse oscene:
esplodiamo nei taxi notturni,
dondoliamo sui bordi delle fiamme ossidriche,
voliamo nelle vasche disidratate
e poi fuggiamo come iene scarnificate,
con la coda attorcigliata
al Vecchio Piccolo Mondo,
il muso glabro ad azzannare il Vuoto.
Grondiamo di punti
e pause brevi,
non parole.
Di te ricordo il profumo
di alloro e kajal sulla lingua,
e la parola, impastoiata in un suffisso,
che dalla tagliola restò amputata:
“-ness”.
Poi la performance, terminata,
trapassò in un viso:
“Happy-” (sistole),
“Sad-” (diastole).
E incastonare le parole in una,
in dieci o in centomila?
Non c’è certezza:
solo l’odore resta
sui fianchi ciechi
di corpi abbandonati
in trasparenza.

 

Mauro De Candia è un insegnante di lettere. Sue poesie hanno ricevuto numerosi riconoscimenti. Con Ensembe ha pubblicato le raccolte poetiche Le stanze dentro (2018), finalista al premio Carver, e Sundara (2021). Gestisce il blog «Il Calamaio Elettrico».

 

Lo stile affabulatorio di Mauro De Candia procede per successivi disaccorpamenti sintattici che si ricompongono in progressive aggiunte immaginifiche, sul filo di un citazionismo sottotraccia che percorre, come strato di significazione ammiccata, l’intera lunghezza dei componimenti inediti che qui presentiamo. Così, la ripresa di lessemi della poesia tradizionale o di figurazioni della cultura pop e post-pop assume il senso di uno spostamento coatto del valore mitologematico ad essi sotteso, allo scopo di scoperchiarne la valenza analogico-metaforica. Penso, in particolare, allo “sciabordare” di pascoliana memoria, nominato del primo testo ma sottratto al suo contesto lessematico e risemantizzato; ai fennec o volpi del deserto del secondo testo, che evocano l’immagine delle fiamme; alla citazione di Robert Cornelius, pionere ottocentesco dell’autoritratto fotografico che cristallizzò il tempo; o ancora, penso all’inevitabile ambientazione oriental-postmoderna, fatta di immagini ma anche di odori e profumi, che permea l’immaginario del lettore non appena, nel terzo testo, viene nominato Kabukichō, il quartiere a luci rosse di Shinjuku, a Tokyo. Si tratta di un gioco pergameno di intagli figurativi e di rimandi semantici intessuto continuativamente, che fa emergere una sapienza compositiva fortemente orientata verso una poetica ben definita, della quale rimane in bocca il sapore di un narrativismo poetico visionario, tra il neoscapigliato e il surreale, sicuramente intriso di neobeat.