Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Barbara Giuliani

il baccalà di madonna verona

la mia vista assolata
assolta
in questa piazza di collina marina,
stento a respirare, trattenere
la cartolina, i grilli muoiono
su arbusti incendiati, a tredici passi
da me, un uccelletto smagrito
tenta il volo guardando a nord.
la direzione presa, intra,
clave o bestia, ammalami
in questa giornata, torrido il buio
e vedremo insieme per la prima volta
come realizzare un triangolo isoscele e
non sapere cosa farne.
ci guardiamo la punta
dei piedi per non demolire
l’ombra dell’altro.
chiudi le orecchie, atterriamo
nel dirupo di carne domestica.
mondo cane
jacobina bienebol
tu non sai nemmeno chi sia
lascia condurti in questo vicolo desolato,
di umore, un punto geografico trasformato
in essere umano, il capovolgimento di un senso
frullando ingredienti a caso.
vorrei sole cuore amore,
baccalà, in fondo
mi manca il baccalà, non
vorrei altro che baccalà,
baccalà
baccalà
baccalà
baccalà
baccalà
pagine intere di baccalà,
stramilioni di quintali di baccalà.
nel nostro frigo ci sono ventotto scatole di sale marino grosso.
non nevicherà sotto il balcone, non andremo a verona, non avremo un pezzo da cinque euro nel portafoglio, e spezzeremo una caramella in due. dimenticheremo il baccalà, così come abbiamo perdonato il ferro da stiro acceso per tre giorni.
madonna quanto mi manchi.

*

commemoro la mia stanza bagno guardandoti rana

ho sospeso il ricordo
appeso a un lampadario
tiene il soffitto stampato
ogni volta
attaccata ad esso un’acacia dealbata
ventitré i gradi dentro il nostro appartamento di confine
giriamo girini nudi
avvolti in asciugamani troppo piccoli per impedire alle correnti di passaggio d’imbrattarci i volti.
penzolano pezze umide delle nostre parole spese
per assicurarci il posto migliore d’inquadratura del nostro panico
in attacco quotidiano e
non è da sfogliare.
tagliamo foto per disinquadrare l’altro da noi
una volta scattati siamo definitivi e
tu fai una smorfia e non abbiamo nessun numero da chiamare.
il modo più complicato per uscire da una relazione è avere una relazione, una concatenazione di eventi di cui non siamo sicuri che stiano accadendo o che siano caduti.
dimmi la prima volta che ti hanno chiesto di fare il verso della rana.
a sei anni alla recita della prima elementare vestito da principe azzurro.
e il cavallo?
e la mucca?
e il gatto?
e il cane?
il tuo lasciarmi?
non ti parto, ti porto
una serie di imbarcazioni messe tutte in fila, vicine vicine, sbattono tra di loro e non si infettano. siamo il contrario, la faccia della medaglia mai lanciata, la dimenticanza di un pin, la fuoriuscita di acqua dalla bacinella, la cenere soffiata, la storia di un lago fangoso, il decidere se destra o sinistra siano entrambe femmine.
qui non tramonta
svanire il giorno in dodici affezioni
le numeriamo
sul letto vasca da bagno
zeppo di sali rosa.
siamo un gruppo compatto
reso dipendente assunto
pagato con ore andate a puttane.
sono quella con la coda.

tu fai cra.
io sì.
crasi
sangue
flemma
bile bianca
bile nera.
tu consideri una mescolanza.
io una contrazione.
le tartine con il paté di tonno sono finite possiamo continuare a lavarci i dorsi dell’amore con dei batuffoli di cotone imbevuti di gin.
tonica diventa accentata.
pietà.

*

Velanidià

immagina il mondo visto dai tuoi occhi,
non sul viso, sulle caviglie,
una visione ipogea della vita.

immagina di avere solo braccia lunghissime,
rami di quercia, impassibili al vento
mobili e tramortibili.

immagina di essere ghianda frutto parola acqua e argilla,
fanne una pozione per credere un miracolo la cosa
più terrena che esista.

pensa al disincanto dell’altezza
a come possa sovrastare un lago di parole
in un rapporto laico e sacrale.

pensa alle tue profezie notturne senza oracolo,
agli accidenti presi sotto la luce del sole,
ai richiami degli uccelli nei nidi.

pensa al libeccio da nord-est, non esiste,
ma puoi renderlo reale con il tuo soffiare
da un altro pianeta credibile.

ti accoglie davanti a questa figura immortale
il vuoto, un luogo che puoi toccare,
prescindendo dal tempo di stasi.

inizia una conta, decimale, fatta di virgole e pieni,
respira tra una piega e una distesa,
addolora questo istante con un pianto misurato.

usa i verbi all’infinito, rendili interminabili e fisici,
inclina il capo a destra, poi a sinistra,
trova un centro didascalico, leggibile e frangibile.

partorire, nascere, vivere, mentire, precipitare,
piangere, gioire, fiorire, appassire, dimenticare,
ricordare, pregare, imprecare, assistere, morire.

cadere è la soluzione, unica, che ti permette
di vedere la superficie addomesticata e clandestina
del tuo dire quotidiano e non si sfoglia.

ora che sei a terra, affonda le tue mani,
sei radice e rizoma, concime e sottostrato,
utile a fondare un sentimento terreno.

concentra le tue vie vitali, fanne un esito
piantabile e circoscritto, adoperato all’azione
di vedere un futuro non verificabile.

sei in preparazione, cerchi alla cieca un precetto
a giustificare, ma ormai sei ancorato,
e non c’è nessun mare nelle vicinanze.

da qui, le ore di attesa si moltiplicano,
la conta è in ciclo continuo, parte un rumore,
un suono, un oggetto conducibile alle tue orecchie.

tutto è disarmonioso, non c’è un contratto,
tranne che per la tua bocca che tenta di mangiare
materia non commestibile al tuo sopravvivere.

sei in infiorescenza, luminoso e apribile agli altri,
vulnerabile e vigoroso, coperto dal calore colore
di energia espandibile e cronometrabile.

esplode verso l’alto il tuo manufatto artificiale,
l’intorno è attraversato da un boato chilometrico,
si mettono al riparo le upupe dell’africa.

altri tu sono deflagrati e ognuno cerca l’altro,
raccogliendo nel caso pezzi mischiati,
e un altro tu diverso prende vita.

sei una commistione di avanzi, frammenti, ritagli, scampoli, bocconi, elementi, tozzi&persone, per creare un esemplare destinato all’estinzione.

la forza è l’utensile che unisce perfettamente ogni lembo
rendendolo di nuovo usabile, incontaminato e vero
almeno nei primi quindici minuti di conversazione.

è passato il quarto d’ora, rinizia la caduta
non puoi arrestare il processo, torna
a essere un punto a duecentocinquantadue parole prima.

non avere timore, è un esercizio collaudato, studiato,
reso ripetibile per migliorare una prestazione umana
a cui altrimenti non avresti dato speranza.

rifonda il tuo sentire, confondi il gelo e la canicola,
condividi un oggetto dispari e canta un motivetto,
il cielo è una cresta rossa; le upupe sono tornate.

La fragilità dell’argilla e della carta diventano quercia per trasformarsi nel simbolo della forza.
Quello che percepiamo è dato dai nostri sensi e dal nostro vissuto, il cervello è in grado di rimappare il nostro sentire.
L’opera è interattiva, ogni spettatore diventa parte attiva del progetto di poesia reale.
500 parole per altrettante 500 campanelle, si spiegano al vento, resistendo o cedendo, ma insieme, formando un unico grande albero immortale.
Vi invitiamo a nutrirVi fisicamente e spiritualmente dei frutti di Velanidiá, parole su carta e suoni di ceramica. Vi invitiamo a lasciare i Vostri frutti, le Vostre ghiande, i Vostri portafortuna, le Vostre sciagure, le Vostre dimenticanze e le Vostre spazzature sentimentali.
La forza è un atto comunitario.

Barbara Giuliani poeta e Debora Vinciguerra ceramista

Barbara Giuliani, nata a Pescara, nel 1979, è autodidatta, da 20 anni nel mondo della poesia italiana, ha frequentato il collettivo Voici la Bombe e Cochonnerie Labile; ha fondato due piccole case editrici, Barrette Indipendenti e le edizioni trepuntinidisospensione; è stata slammer e MC per PoetrySlamAbruzzo; è redattore per la sezione Poiein della rivista Neutopia; da gennaio 2019 insegna scrittura poetica presso la Scuola Macondo di Pescara; ha ideato con Debora Vinciguerra (ceramista) la trilogia di installazioni di poesia reale (Eptá – 2912 metri sul livello del mare – Velanidiá); è direttrice artistica del FLAP (Festival di libri e altre cose sezione Poesia). I suoi libri sono Bergamo Mantova solo andata (BCE Samiszdat – 2009), Floppy (Autoprodotto – 2015), Cloroformio (Prospero Editore – 2016), L’Aria Rancida (Gli elefanti edizioni – 2018), Bianca (Neo Edizioni – 2022).

I primi due componimenti che qui presentiamo sono tratti da Bianca, l’ultimo libro di Barbara Giuliani, veterana outsider della poesia italiana che opera nella pulsante realtà pescarese con deciso piglio autocratico. Il libero associazionismo, di impronta evidentemente meta-analitica, si esprime in questi testi attraverso abbagli semantici continuamente mescolati, atti a generare il “capovolgimento di un senso” solo apparentemente “frullando ingredienti a caso”. Il lavorio dietro alla scelta delle parole e degli accostamenti è, in realtà, frutto di precise scelte tematiche e stilistiche raggiunte autonomamente in un indefesso laboratorio personale, che permettono al critico, col senno di poi, di avvicinare la parola poetica della Giuliani alla polisemanticità evocativa di Silvia Molesini. Ma il vero campo di indagine a cui la poetessa si sta da diverso tempo dedicando è quello che lei stessa ci tiene a definire “poesia reale”: con la collaborazione della ceramista Debora Vinciguerra, Barbara Giuliani produce un tipo di poesia visivo-materica che può essere, di volta in volta, tattile, ottica, uditiva, esposta al vento e alle intemperie, inquadrata in una dimensione naturale o antropica la quale, lungi dal rappresentare un mero sfondo panoramico, permea il testo e lo rende corpo nell’unità di forma e sostanza. In questo senso, l’installazione artistica Velanidià scompone le parole del testo in piccoli tasselli di ceramica esposti al contesto atmosferico e umano perché assumano la forma e il significato che lo spettatore, intervenendo anche materialmente sui pezzi, vorrà di volta in volta donargli. Il fruitore è invitato a interagire con l’opera staccando dei tasselli e sostituendoli con altri oggetti, brani di vita vibranti di semanticità materica, affinché l’opera si scomponga e ricomponga in modificazioni tendenzialmente infinite. Come a dire che la realtà vince sull’idea e che la poesia può essere tale solo se si presta alla propria auto-dis-integrazione perpetua, nella resa materiale della natura effimera di un dettato che è già sempre altro, anche solo se spostato e riassemblato dalle mani dell’uomo o semplicemente mosso dal vento.