Limonio (Pietre vive Ed., 2018): intervista a Antonio Lillo, a cura di Paolo Polvani, con una selezione di poesie.
La prima poesia del tuo nuovo libro ha una chiusa stupefacente: Perché soltanto attraverso la poesia / ritorna tra le dita il verde che non tace –
Ti confesso una cosa. La prima poesia l’ho scritta su ordinazione. Me l’hanno chiesta i miei genitori per un biglietto di auguri da allegare al regalo per le nozze d’oro di due cugini. Quindi non è nata da una pressante ispirazione ma da una pressante richiesta dei miei. Nonostante ciò, molti la indicano come una delle poesie più intense della raccolta. Io nemmeno mi ricordo come mi sono venuti i versi. Però la chiusa è efficace, ne sono consapevole, e non per nulla l’ho tenuta in apertura.
La seconda non è da meno, con quella attenzione particolare a – le tracce di vita insospettabile –
La prima poesia è la prima che ho scritto in ordine cronologico e la seconda, di seguito, è stata scritta subito dopo. Forse è meno di impatto, ma mi piaceva quell’abbinamento di colori nel segno del “verde che non tace”. Come l’altra è una poesia sullo scorrere del tempo e sul cambiamento – tema centrale della raccolta –, ma ha anche una forte vena ecologista. Parla di quel che succede quando distruggi una zona naturale per farci un parcheggio. Il grigio sembra seppellire ogni cosa, ma se stai attento ti accorgi, nelle “le tracce di vita insospettabile”, che la natura si adatta, si riprende inesorabilmente i suoi spazi.
Chi sono i professorini del verso – Il dito orgasmico / puntato verso il retto dei professorini?
Confesso che ce ne sono parecchie di categorie poetiche che non sopporto: gli arrivisti che non hanno rispetto di nessuno e nemmeno di se stessi; i talebani per cui ogni cosa è sbagliata perché cercano lo scontro a ogni costo… Però, ufficialmente, quelli che reggo in assoluto di meno sono i poeti nati con la scopa in culo. Rigidi, privi di autoironia, che per ridere devono sforzarsi perché non sanno prendere e prendersi in giro in maniera sana, così calati nel proprio ruolo di vate da arrivare a negare di cacare e pisciare per non ammettere la propria umanità. Ecco, con quelli ci stiamo antipatici a pelle e siccome istigano il mio lato sadico, se posso fargli una piccola sevizia, sia pur verbale, la faccio volentieri.
Tu scrivi: mi dà fastidio se dici poeta, e subito dopo titoli: se incontri un poeta ammazzalo. Concordo in pieno, ma a qualcuno potrebbe sembrare contraddittorio detto da un editore di poeti.
“Se incontri un poeta ammazzalo”, che è piaciuta a molti poeti, è una provocazione nata dalla constatazione che per quanto tu possa essere bravo, nella nostra realtà letteraria che è scolastica e per questo storicizzata e spesso superficiale e nozionistica, poco attenta al contemporaneo, “l’unico poeta buono è il poeta morto”, quello già antologizzato. Quindi lettore ammazzami, ti prego, così forse una buona volta ti accorgerai di me.
Mentre, su “Mi dà fastidio se dici poeta” c’è stato un equivoco che mi piace raccontare: una collega, leggendola, ha accostato quella particolare poesia al rigurgito post-corazziniano (“Perché tu mi dici poeta…”) con cui prima o poi chiunque scrive deve fare i conti. Eppure quei versi sono da mettere in relazione con un passaggio dell’ultima poesia del volume e dedicati a una donna amata che mi dice: “Solo i poeti non sanno parlare alle donne”. Quindi a lei rispondo: “Mi dà fastidio se dici poeta”. Letti così prendono un altro significato.
Il male di uno è collettivo, e nel verso finale della poesia – Giustificazione alle mie lamentazioni di editore povero – scrivi: Noi, popolo di stronzi! Ché la miseria è comune e non fa sconti. – Sono passaggi che fotografano molto bene la situazione di degrado, meglio di qualsiasi indagine o saggio sociologico.
Christian Tito diceva che non è importante se leggi poesie perché tanto è la poesia che legge te, e io lo trovo un pensiero di una verità assoluta.
Sulla poesia in particolare che citi ti dico questo: è stata ispirata da una chiacchierata con un mio caro amico il quale mi diceva che non è bello se nei miei post mi lamento di non vendere abbastanza libri o di essere povero, perché un imprenditore deve sempre dare un’aria di successo. Quindi non è importante se il tuo progetto – economico ma anche culturale – funziona realmente o meno, o se ha un impatto concreto sulla realtà, basta che fai vedere di sì, perché la gente gode del tuo successo, ma non vuole essere coinvolta, non vuole partecipare, perché partecipare richiede uno sforzo che nessuno è più disposto a fare. Anche se so che lo diceva per il mio bene, ho trovato che quello che mi diceva il mio amico fosse l’affermazione di una ipocrisia sociale e l’ho messo nero su bianco. Non a caso, quando leggo quella poesia, il pubblico non apprezza mai, perché si sente tirato in ballo, quando dico “stronzi” è a loro che mi rivolgo, uno per uno, non al politico di Roma o al padrone di turno. Il pubblico capisce e non applaude.
La poesia che dà il titolo al libro racchiude una storia dolorosa, ce ne puoi parlare?
Confesso che il mio primo istinto a questa domanda sarebbe risponderti con la frase di Bartleby lo scrivano: “I would prefer not to”, preferirei di no. Alla fine, immagino, una storia comune a molti. La poesia parla della morte di una persona cara e del senso di colpa che si prova quando ti accorgi di aver negato per tutto il tempo la sua malattia e, dopo, senti di non essere riuscito a comunicarle quello che avresti voluto nella maniera giusta. Così ti rifugi nella scrittura e provi a scrivere, nella maniera più asciutta e sincera possibile, una lettera che non ha più un destinatario. È un poesia triste, insomma, che non cerca di lenire le ferite ma guarda in faccia alla tristezza per quello che è.
Anche nei tuoi libri precedenti hai sperimentato la formula, secondo me felice, dell’alternanza di versi e prosa, si tratta di una decisione consapevole o casuale?
Consapevole, ma con molti margini di casualità. Nel senso che quando scrivo non faccio molto caso alla forma. A volte viene fuori una cosa in versi altre in prosa, in base all’istinto. Poi faccio un gran lavoro di montaggio, è vero. Ma per questa mia indifferenza ho sempre mischiato i registri e gli stili, il che forse – qualcuno me lo rimprovera – non fa bene all’arte, che dovrebbe essere coerenza e limatura, ma fa bene a me, che mi diverto. Ecco, soprattutto spero sempre di non annoiarmi e di non annoiare. Per l’arte c’è tempo, e infatti mi aspetto che a quella verrà fatta giustizia in futuro, in una bella antologia pre mortem o post mortem, limata a dovere dal curatore di turno, e di cui mi sono già immaginato il titolo: “Anatomia di un vigliacco”. Bocciato da tutti, famigliari e amici.
Essere editore ti agevola in qualche modo?
Poco o nulla, in verità. Mi diverte, e di questo divertimento parlo nel lungo capitolo aneddotico al centro del libro. Ma non mi agevola, anzi, lavorando ai libri degli altri spesso passa ma voglia di scrivere i propri. In più sono piccolissimo e meridionale, geograficamente distante da lobby e salotti letterari dove succedono le cose. Questo limita di molto il mio potere di aiutare me stesso e i miei autori. D’altra parte, stare lontano dai salotti, mi dà la preziosa libertà di fottermene e di fare solo quello che mi piace.
Perché il gatto risulta così affascinante per i poeti?
Forse perché poeti e gatti sono tutti dei grandissimi egoisti ma in qualche modo sanno farsi perdonare sempre.
POESIE
I
Cosa mai potrà portarci il tempo
se non il rinsecchirsi delle dita ed il silenzio
più buio nel lento avanzare dell’inverno?
Non certo l’esperienza od il conforto
di un ultimo improvviso amore offerto
a un cuore più maturo. Ecco. Noi qui
si vive soli per sentirsi meno soli
di fronte alla speranza che tradisce.
Perché soltanto attraverso la poesia
ritorna tra le dita il verde che non tace.
II
Dov’era aspra campagna e poi
ci hanno colato il cemento a farne
un ampio spiazzo senza fantasia
con in fondo una ferita ancora aperta
per piantarci un albero o forse un’aiuola
pareva tutto concluso.
Invece, se lo guardi dall’alto, non è.
Ci trovi le tracce di vita insospettabile:
i passetti sporchi di sabbia del gatto
e l’ombra della cazzodda che
si muove, grigia anch’essa
e perciò mimetizzata.
QUANDO INCONTRI UN POETA AMMAZZALO
Quando incontri un poeta ammazzalo.
Risparmiati le battutine o i discorsi accalorati
e pieni di riguardo e bei proponimenti
in cui difendi quello che non sai o non leggi.
L’unico poeta buono è il poeta morto.
E tu contribuisci alla sua storia armandoti di pietre
e mazze solide. La storia ti ringrazia.
La storia da solista di cui sei protagonista
e il poeta vivo un incidente di percorso.
Questo ti comando: risparmiati pietà
e vuota giustizia per chi la chiede o vuole
e riconduci il poeta al sangue al buio
a tutto ciò che la sua fame impone. Un attimo
della tua attenzione mio postumo lettore.
GIUSTIFICAZIONE ALLE MIE LAMENTAZIONI DI EDITORE POVERO
Se sono povero e lo dico a voce alta
non è che mi lamenti disperato. Non piango
in vista del suicidio. Ma ne rido a modo mio
per stemperare il senso di ingiustizia.
L’italiano medio invoca il mio successo editoriale
e non ammette la sconfitta del mio conto
che non va di pari passo alla poesia.
E non capisce il senso della mia lamentazione.
Poiché il male di uno – in questo caso – è collettivo
in ogni mio: «Sono poverino!»
(povertà che vivo a testa alta
perché nel mio lavoro metto tutto
a volte prima degli affetti e faccio libri
non guerre non palazzi e se il popolo non legge sono cazzi
solamente suoi) in ogni mio: «Sono poverino!»
non c’è nascosto un: «Ah, me miserino!»
ma un più maturo: «Noi, popolo di stronzi!» riassuntivo.
Ché la miseria è comune e non fa sconti.
LIMONIO
Alla fine ti chiamavo Limonio.
Non più il fiore tumido della mia
adolescenza distratta ma
scarnificata dalla chemio
qualcosa che si aggrappa
a quanto spazio rimane nel vaso.
Che lotta e si accontenta di un respiro
che nutra il suo scheletro d’erba.
Sarà forse una conquista dell’età
mettere senso al mondo dando
nuovo peso alle cose. Scambiare
la vanità del tuo corpo pieno
con la leggerezza ormai orientale
del tuo corpo vuoto. La chiamavo
conquista dello spirito e offendevo
con la solita mancanza di tatto
che mi avresti perdonato. Solo
i poeti mi dicevi non sanno
parlare alle donne. Io sapevo
ma rifiutavo di capire che morivi.
Negavo. Scherzavo. Negavo.
E così tergiversavo sul tuo male
per non dire che ti amavo. Che morendo
mi avresti spezzato il cuore.
Ora ho perso l’occasione di dirti
che il limonio l’ho sempre preferito
agli altri fiori. È la mia colpa
che ti confesso pur sapendo
che non si vive di rimpianti.
SAGGEZZA
Nelle belle giornate di sole
il mio gatto apprestato al balcone
non s’interroga più sul mio amore.
Non rompe, si gode il sole.
Mi lascia, dentro, da solo
alla mia disperazione d’autore.
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