A tentoni nel buio di Paolo Polvani  / Il nemico sono io, le mie parole (note di lettura a Mal di maggio, di Antonio Lillo, Samuele editore 2022)

 

La prima poesia di Cristina Annino che mi colpì così tanto che me la ripetevo nella mente quando volevo farmi buona compagnia, fu questa che apre la raccolta Madrid:

 

Se un ospite mi lascia la casa, io

le faccio domande, frugo ovunque, specie

nei materassi. Quando esco, è passato un ladro.

Ma non la dimentico, la ripenso. Dove mettono

l’amore gli altri?

 

Mi colpì perché ne percepii al volo lo spirito, mi riconobbi in pieno e ne percepii l’elasticità, la possibilità di estenderne l’applicazione alla lettura di poesie, non di tutte e comunque, sia chiaro, ma di quelle che regalano atmosfere intriganti, un punto di vista diverso, la scoperta di una luce nuova, di quelle che ti lasciano girare per le stanze e ti senti un ospite, puoi scrutare una presenza, rinvenire indizi utili, così accade che leggendo versi che catturano la mia attenzione anche io faccio domande, frugo ovunque, specie nei materassi, e dopo pare sia passato un ladro, frase in apparenza con valore puramente metaforico, ma in realtà mi piace segnare, sottolineare, evidenziare, prendere, e davvero restano somiglianze profonde col gesto del rubare. Se poi vi scopro anche qualche affinità di vedute, comunanze del sentire, allora davvero non la dimentico, la ripenso. Così viaggiando all’interno del libro di Antonio Lillo, Mal di maggio, edito da Samuele editore, mi piace soffermarmi su certi passaggi e paesaggi che sento particolarmente vicini. Mal di maggio è un libro di poesie, ma come avviene in quasi tutti i libri di Antonio, ci troviamo in presenza di una intermittenza di versi e di prose, scelta che rende ancora più gradevole la lettura; questa rubrica ha per titolo A tentoni nel buio, perché davvero non mi è facile penetrare la natura della poesia, e questa breve prosa di Antonio s’inserisce perfettamente in questa situazione di mistero:

 

Tre verità per ogni poeta

– Chissà perché, tutte le volte che ti intervista uno che non la scrive, sai già che fra le altre infilerà la fatidica domanda: Che cos’è la poesia? e tu ogni volta farai uno sforzo, arrampicandoti su tutti gli specchi, per non rispondergli la prima verità di ogni poeta: Non lo so. Un po’ perché non vuoi essere scortese, un po’ per astuzia, perché sai che se lo dici gli verrà naturale chiederti: Se non lo sai perché la scrivi? e tu non vuoi fare la figura dello scemo rispondendogli la seconda verità di ogni poeta: Non lo so. Alla terza verità, di solito, non si arriva mai. –

Festival del teatro in piazza di Santarcangelo di Romagna, Coriolano (Rimini), luglio 1980

Antonio cucina le sue poesie in salsa agrodolce, un sapiente dosaggio di aceto e di zucchero, ma qui si avverte la sensazione che il consueto equilibrio si sia disallineato in favore del sapore agro. Non manca certo un sottofondo di ironia e uno sguardo che in definitiva non esclude una certa allegria dalla propria visione, tuttavia è il disincanto, una non celata delusione che fa pendere la bilancia da una parte.

La raccolta si articola in capitoli i cui titoli sono già poesia e inventiva, per esempio il bellissimo: Capitolo delle poesie scritte come se fossi un altro, e anche: Capitolo del posto in cui uno vive.

Uno dei più belli come contenuto mi è sembrato il Capitolo delle domande e delle risposte, perché sia le domande che le risposte vertono sulla poesia, ed è un bello sguardo senza sconti sul magico mondo dei poeti, sulle ansie che traspaiono dalle richieste che avanzano ad Antonio nella sua veste di editore, e in un certo qual modo inducono a interrogarsi sul motivo di alcune scelte, per esempio in base a quale criterio si sceglie di parlare di un libro piuttosto che di un altro? ci sono motivazioni nascoste e inconfessabili? si fa per amicizia? per simpatia? per affinità? ci si aspetta un ritorno? Antonio scrive: – Ripaga in fama o in natura? La mia / letteratura non ha pace e s’arrovella / nel disprezzo. –

La più bella del capitolo, una poesia che avrei voluto scrivere io, è

 

Intervista a un poeta

 

E quando hai scritto la tua ultima poesia?

È stato ieri o stamattina? È più di un anno?

E come l’hai trovata? Sana e forte o gracilina?

Di quale colorito? Quale umore? era piena

di entusiasmo o già piegata dalla vita?

Era calda e fumante o ancora acerba?

Aveva già un partito o zoppicava? Con le ali

reclamava un posto al sole o alla finestra?

E ha bussato per entrare? O si mortificava

perché non ti voleva ed era pronta a odiarti?

Aveva mani grandi o lunghe gambe?

Reclamava un abbraccio oppure un morso?

O già poneva le domande di ogni figlia

che ingrata e piena di rimpianti

chiede perché l’hai messa al mondo?

Scrive Francesco Tomada nella bella prefazione: ”..la sezione di apertura, Capitolo delle domande e delle risposte, è poesia sulla poesia o meglio sulle contraddizioni, le incongruenze, le grandezze e più spesso le miserie della scrittura e degli scrittori. Sono testi diretti e impietosi, aspri, dissacranti, ma il gesto stesso del dissacrare serve a fare spazio a una domanda, anzi alla domanda fondamentale: la poesia, “perché l’hai messa al mondo?”.

Insieme al sentore di poesia che attraversa anche le prose, protagonista dei versi è  il sentimento dell’appartenenza a un luogo, sullo sfondo si percepisce sempre un paesaggio familiare, uno scorcio di case, un giardino dove la caduta di una foglia fa un rumore assordante, di una strada dove un uomo passa con una valigia pesante, le ruote macinano l’asfalto e l’uomo impreca al telefono, dove il gatto fa strage di un pettirosso e una volpe è maciullata da un’auto, dove: “Tu che sei informato, che succede in paese?”.

Un’altra presenza costante è riassunta nel seguente titolo: Il nemico sono io, le mie parole. Che trova una sintesi in una brevissima, folgorante composizione:

Mi stupisco ancora passati i quarant’anni

di leggere poesie

di non amarmi.

È un motivo ricorrente, una specie di sottofondo costante e reiterato, il desiderio di una fuga dal mondo, una celebrazione del sentirsi estraneo e fuori posto, in perenne lotta con se stesso: “…in questa mia congiura / d’essermi fedele fino in fondo e non credermi sincero / nel guardarmi, non provare né schifo né imbarazzo / ma pietà di me testa di cazzo / tutto mi assale il mio senso di resistere e lottare / contro me il mio farmi male”.

E tuttavia si aprono spiragli, sebbene non si riconoscano i segni della felicità, e -tutto andrà come deve andare, –  e infine il senso di sconfitta porta con sé come una liberazione, la consapevolezza dell’inutilità di ogni illusione ha il senso di una liberazione:

“E dopo la fine

di ogni illusione che il mondo

si possa salvare. Non

lo possiamo salvare e quindi

è meglio andarsene al mare”.

Lo stile di queste poesie è diretto e volutamente povero, consapevolmente povero, nudo come un ramo spoglio, trova la sua coincidenza direttamente nelle scabre architetture rurali pugliesi, nei trulli disseminati nella campagna, nel materiale aspro e semplice di cui sono fatti, nei paesaggi di uliveti, ricorda le ondulazioni lievi della Valle d’Itria, che fanno della essenzialità la loro più intima misura e tuttavia esprimono una diffusa bellezza.  Scrive ancora Tomada nella sua introduzione: “… un linguaggio diretto, brutale, rabbioso, dolorosamente ironico e autoironico, ma per questo assolutamente pulsante. La bellezza di questa poesia è che rifiuta l’eleganza formale di un vestito che possa apparire “bello”, rimane come uno scheletro esposto…”.

I segni, 1

 

Dio servirebbe qualcosa

per non essere tristi

o per sentirsi allegri

qualcosa che esuli

da droga o raziocinio

in cui non conti la fatica

la salute o la famiglia

qualcosa che mi dica

che non sbaglio

se proseguo nel mio sogno

e che non mi rimane

che il dubbio che sì

sono forse felice anche se

non riconosco i segni.

 

 

Antonio Lillo