Tra le terre di Sandro Pecchiari | NON DIMENTICARE GLI ANGELI ASLACHADH NACH BIODH NA H-AINGLEAN AIR AN DÌOCHUIMHNEACHADH: Christopher Whyte

 

Il Premio Internazionale Rainer Maria Rilke 2023 è stato vinto dalla raccolta Non dimenticare gli angeli di Christopher Whyte – Crìsdean MacIlleBhàin, a cura di Vita Activa Nuova APS, Poiein, Trieste 2023, con testi in italiano e gaelico scozzese.
La poesia tradizionale gaelica (Gàidhlig ) con la sua presenza costante del ricordo e dei luoghi interpretati come supporti di memoria e meditazione, era esclusivamente cantata almeno fino agli ultimi decenni dell’Ottocento. I pentametri giambici differiscono. leggermente da quelli inglesi: l’accento cade sempre sulla prima sillaba della parola. Spesso la prima sillaba atona cade, oppure è presente una sillaba in più, anche atona, alla fine.
Nei suoi versi Whyte usa quasi esclusivamente pentametri giambici non rimati che possono a volte cedere il passo ad una forma più libera, senza però mai arrivare al ‘free verse’.
Ma il vissuto di Whyte lo pone in una posizione particolare e conflittuale rispetto all’inglese e al gaelico scozzese: in giovane età, durante una escursione fuori Glasgow, Whyte si rende conto di non riuscire a capire né a leggere le tabelle esplicative dei nomi delle colline e dei picchi tutt’intorno. La presa di coscienza di abitare in una terra in cui si parlava una lingua che nessuno gli aveva insegnato, è stato per lui un vero shock.
Da qui la decisione di riscoprire e riappropriarsi del Gàidhlig, il Gaelico Scozzese, storicamente estirpato da secoli, con la perdita di una vastissima serie di informazioni culturali, va letta anche all’interno del processo lento, a volte estremamente doloroso, attraverso il quale la Scozia odierna si sta distaccando dall’unione con l’Inghilterra propriamente detta. È evidente che, scrivendo in gaelico una poesia del tutto moderna, internazionale, venata di amore e di sensibilità gay, Whyte contribuisce alla sua diffusione ed alla sua sopravvivenza; allo stesso tempo questa lingua gli ha permesso di uscire da una situazione di stallo, verso una chiarezza magari non scevra di dolori, ma alla lunga portatrice di gioia.
Una specie di do ut des. Il rapporto di Whyte con il gaelico è strettamente collegata alle sue esperienze e scelte di vita: apprenderlo era la possibilità di rimarginare antiche ferite.
La sua famiglia aveva una storia di abusi sessuali al suo interno, tanto più pesante perché totalmente rinnegata.
E ovviamente la lingua della famiglia era una lingua nella quale non si poteva raccontare la verità.
Quindi il gaelico nella sua scelta di bilinguismo affettivo ed effettivo, può definirsi una “lingua non-madre”.
Questa lingua così affascinante e complessa era ed è un modo per assicurarsi non solo innocenza e freschezza di espressione, ma anche una difesa impenetrabile.
Questa scelta implica cambiare il modo di vedere la lingua e cambia il rapporto con essa: da un qualcosa inizialmente di mnemonico e difficoltoso diventa via via un modo di essere che influenza il modo di pensare e di vedere le cose e alla fine riesce a modificarne la personalità, diventando parte integrante nella ricostruzione e ridefinizione di sé stessi. Diventa un modo di modificare l’interazione con gli altri poiché le cose si ricostruiscono in modi dissimile a seconda della lingua in uso.
Whyte, per necessità e volontà, affronta questa difficoltà titanica per riuscire ad abbracciare ciò che essa rappresenta, quindi la sua cultura, gli ideali e le tradizioni.
Che questo potere potesse significare non farsi capire, inoltrarsi in discorsi assolutamente impenetrabili per chi parlava inglese, era paradossale ma entusiasmante.
Per citare le parole di Whyte: Trattare questo, e altri temi in un idioma che nessun altro membro della famiglia padroneggiava, era un modo per assicurarsi non solo innocenza e freschezza di espressione, ma anche una difesa impenetrabile. Con una certa frequenza, se mi si chiedeva come mai avessi scelto di scrivere in gaelico, quando avrei potuto benissimo scrivere in inglese, mi dilettavo rispondendo: “Perché così i miei genitori non potranno mai leggere le mie poesie”.
 
 
Madrelingua
 
All’inizio il gaelico
era quasi un sogno per me,
un petto materno ancora caldo
di un calore che avevo scordato,
che non avevo mai provato,
una illusione dentro alla quale
potevo comunque rifugiarmi
in cerca della sicurezza, del conforto,
un luogo in cui nessuno poteva trovarmi.
Ma capii che la lingua madre
non è altro che un miraggio,
che non furono mai la sicurezza,
o il conforto, ma la difficoltà
e la stranezza ad attirarmi,
che nessuna lingua è capace di restituire
un’infanzia che non ha mai avuto luogo,
che se io amo questa lingua
è proprio perché non è materna.
 
 
Màthair-chainntIs
Is ann a bh’agam an toiseach/ bruadar den Ghàidhlig,/ seòrsa uchd mo mhàthar/a bh’innte, fhathast blàth/le blàthas leanabachd a chaidh/ a dhìochuimhneachadh, nach robh/riamh agam, a bha’na mealladh,/ ach a dh’fhaodainn teicheadh a-steach dhì/ ri teàrainteachd a lorg, is socair,/ àite far nach fhaigheadh duine mi./Ach thuig mi gur e aisling/ a th’anns a ’mhà hair-chainnt, / nach te àrainteachd, no socair/ ach doirbhe is coimheachas/ a bha gam shìor-tharraing,/ nach tèid leanabachd gun tairbhe/ ath-chumadh ann an cainnt sam bith, / gur annsa leam a’ chànain seo/ bho nach eil i mà thaireil.
 
E nei riguardi del padre che si trattiene dal mantenimento del ricordo e della sua continuità, scrive:
 
 
Giungerai sull’orlo della fossa
                                                                                      a mio padre
 
Giungerai sull’orlo della fossa
senza ammetterlo. La parola che avrebbe potuto
conciliarci sarà sepolta insieme a te,
non sentita da nessuno tra i viventi.
(…)
Se solo rimanesse un’azione buona o eroica
fatta da te, che si potesse portar via
dalla tua tomba al posto di questa vigliaccheria tenace!
Ma io porterò via attentamente
la parola mai detta, per farla risuonare
a lungo nel mio canto, nella mia vita.
 
 
La lingua “non-madre” appresa, oltre a riscattare la sua vita privata, a volte lo costringe ad affrontare una certa diffidenza negli altri nello iato purtroppo ovvio tra “native ” e “ non native”, come, ad esempio, nelle poesie  Mi credevo un soggetto impossibile e Disse che ciò che scrivevano
 
 
Mi credevo un soggetto impossibile
(…)
Perciò tutto quello che sentivo e pensavo
mi pareva (…)una prova in una lingua nuova
capita da nessuno, la quale anch’io
dovevo imparare e praticare.
Quella lingua era l’impossibilità che esistesse
qualcuno come me, appartenente
ad una stirpe senza precedenti né permesso.
Solo poco a poco mi sono reso conto
di quanto erano umane la mia rabbia, la mia
scontrosità, lo stupore con cui ho scoperto
di vivere circondato da altri come me.
 
 
Disse che ciò che scrivevano Per Denez
 
(…) Io pensavo
alle parole di scherno e derisione
con cui avrebbe accolto il mio gaelico
snaturato, stentato, zoppicante
se solo fosse stata in grado di capirlo.
Ma pensavo pure ai bambini marocchini
e nigeriani che imparano il catalano
nelle scuole dei paesi periferici
intorno a Barcellona, alla lingua
insolita, trasformata che parlano.
Chi avrebbe voglia di farli tacere?
 
*
 
Quanti angeli bisogna affrontare e con cui bisogna scendere a patti per portarsi fuori dalle prigioni linguistiche? Come si fa a dare una svolta alla propria vita quando questa scelta diventa cogente? Quanto conta la scelta di apprendere una lingua non-madre come rivalsa e schermo dalla propria lingua cosiddetta madre? Questa scelta ha condizionato e plasmato l’esistenza di Whyte, ma sicuramente anche di una enorme quantità di persone in condizioni non dissimili nelle diverse parti del globo. Quanto si è soli in questa impresa?
Il libro coinvolge il lettore con un continuo chiedersi, porsi domande e ipotesi di percorsi da fare o tralasciati o scelte dolorose e difficili, di modificazioni di modi di essere , di leggere l’esterno e di leggersi, trasportandolo dalla questione della lingua a mondi più mitologici e alle saghe della tradizione, annullando spazio e tempo e contemporaneamente rinnovandolo e ristrutturandolo. La scrittura spazia dalle tradizioni gaeliche alla poesia medievale e rinascimentale, al settecento scozzese, dal buddismo all’apporto di autori importanti come Proust, Pasolini, Rilke, Cernuda e Cvetaeva, con la sua bisessualità sfrontata, alleata di una tenerezza che sembrava quasi un senso di tutela verso gli uomini gay.
 
Nel solco della poesia rilkiana e della (im)possibile richiesta di aiuto agli angeli, citerei subito questi versi: (…)
 
Rè iomashiùbhlachd taigh-dealbh nam bruadar/nochdaidh iad ruinne dìreach far an deach/an fhilm a
lasadh, luideagan celluloid/a’ lùbadh air ais ’nan duilleagan airgead-dubh/mun cuairt air blàthan an neo-
làthaireachd./Mothaichidh ar cuinnlean dhan dol seachad/is boladh losgaidh ghraid a’ màirnealachd/san t-
seòmar; air neo, nuair a dhùisgeas sinn/’s ar craiceann pianta, is ann nach do dh’fhuiling/dòmhlachd ar
bodhaigean a bheantainn riutha,/is iad a’ suirghe oirnne ’na ar suain.
 
Non dimenticate gli angeli
perché le redini dei venti,
il governo e le divisioni dell’aria
sono messe nelle loro mani.
Le tempeste scoccano come acuminate
frecce di ghiaccio dai loro archi
pieni di rabbia e esultazione;
hanno le faretre colme di grandine e di nevischio.
Manovrano le nuvole, accatastandole
in bastioni traballanti sull’orizzonte,
(…)
vediamo soltanto
avvamparsi le guance di un angelo
che in continuazione soffia temporali e maltempo.
(…)
Le nostre narici percepiscono il loro passaggio
da un profumo di bruciato che aleggia
nella stanza, e quando ci svegliamo la mattina
con la pelle tesa e dolente,
questo avviene solo perché i nostri corpi
lordi sopportano male il loro tocco
quando nel sonno amoreggiano con noi.
 
*
 
Nella sua raccolta Whyte fa rivivere, all’interno di una sensibilità per così dire contemporanea, degli aspetti specifici della tradizione gaelica, come esemplificato nel saggio pubblicato da Poesia, del 2015. Hard Men parte da un passo dell’antico epos irlandese, ilTáin Bó Cuailnge, per polemizzare contro un’icona di mascolinità (e di machismo) operaia prevalente nella città in cui sono cresciuto. Il Coraggio, invece, per quanto sia un elogio di una parte del corpo maschile scritto da un altro maschio, si rifà ad un topos della poesia medievale e rinascimentale, in cui si parlava dell’avvenenza di un condottiero o un guerriero raffrontandolo ad un albero. E alla trasformazione e alla possibilità di una nuova esistenza comunque e nonostante tutto in una poesia, L’affogamento dei pianoforti a coda a Tymoszówka . Si dice che quando il compositore polacco Karol Szymanowski (1882-1937) dovette abbandonare la tenuta familiare in Ucraina durante la rivoluzione bolscevica, i contadini abbiano spinto i suoi due pianoforti a coda nel lago di fronte alla casa di proprietà.
 
 
I
Cosa provarono,
i pianoforti a coda,
mentre li stavano dirigendo fuori dalle porte,
le finestre frantumate come un grido straziato
congelato lungo la facciata della casa,
erba tenera sotto le ruote impazzite
mentre presero a correre, senza che i contadini
avessero più bisogno di spingerli,
con il lago buio alla fine della loro corsa?
(…)
 
II
Così iniziò un’altra vita
per i pianoforti. I pesci ebbero bisogno
di un giorno o due per trovare il coraggio
di esplorare a fondo la nuova dimora.
Nuotando sopra i tasti di avorio che scintillavano
leggermente, si avventurarono dentro
sotto il coperchio, sfrecciando tra le corde
che poco a poco perdevano la loro tensione,
lasciando le uova negli angoli più nascosti.
Chi sa se qualche tremore attraversava
il corpo degli strumenti, una musica fantomatica
che si disperdeva nel laghetto, turbando i pesci
(se davvero i pesci sono capaci di ascoltare).
*
 
 
L’atmosfera fiabesca e di stupore della poesia iniziale sulle mele dello Yunnan è una nitidissima dichiarazione di poetica: Quando ho finito una poesia, mi sento un po’ come se avessi costruito una casa, alla quale poi giro le spalle per cominciare ad allontanarmi a piedi. Se non sento un tonfo, vuol dire che si regge. Sono solo come l’impalcatura usata durante il processo di costruzione, che diventa del tutto inutile una volta finita la casa.
 
 
Lo scarabeo cinese
 
In una certa regione della Cina,
nel Sud-Ovest, non lontano dalle montagne di Yunnan,
si trova una specie di mele
dal sapore così squisito
che nei tempi antichi gli imperatori
spendevano il loro oro per comprarle ed offrirle
alle feste ed ai banchetti nel gran palazzo.
Però il loro sapore non era proprio quello delle mele.
Ho letto che la causa era uno scarabeo
che si trova soltanto sugli alberi di quella regione
e che lascia le sue uova nel cuore delle mele
per tutto il tempo della maturazione.
Quando poi la creatura
spiega le sue ali e vola via,
non rimane nessuna traccia della sua presenza
fuorché un rossore come d’ambra
nel cuore delle mele, e un aroma
meraviglioso che né gli eruditi
né i giardinieri di tutta la corte sapevano spiegarsi.
Ecco quel che io faccio con questa lingua.
 
Lo stesso stupore, eccitazione e meraviglia che alla fine della raccolta, permeano la poesia della partenza.
Annunciando un ulteriore nuovo viaggio che ricomincia nuovamente, con la possibilità di rinnovarsi perpetuamente
 
 
Sarà forse la morte come quando un taxi
 
Sarà forse la morte come quando un taxi
aspetta davanti alla casa, in fondo alle scale,
arrivato solo pochi minuti prima,
e c’è la certezza che avrà pazienza.
Di colpo non ti ricordi più qual era
il concerto o il teatro dove dovevi andare,
né con chi dovevi incontrarti
per sedere insieme in mezzo al pubblico,
anche se sei sicuro di aver messo
il biglietto attentamente in tasca.
Ma improvvisamente un’altra cravatta
ti sembra che andrebbe meglio con la camicia
che avevi scelto, e afferri un altro paio
di scarpe. La fretta e l’eccitazione
aumentano mentre il brusio sommesso del motore
si fa più forte man mano che scendi.
 
(…)Ach saoilidh tu gu h-obann gum biodh tàidh
eile na bu fhreagarrach don lèine
a roghnaich thu, ’s glacaidh tu paidhir bhrògan
diofaraichte, d’aighear is do chabhag
a’meudachadh, crònan ciùin a’mhotair
a’fàs nas fharamaiche’s tus’a’teàrnadh.
 
                                                                                                                   

 
 
Christopher Whyte, Glasgow, 1952, ha pubblicato finora otto raccolte di versi. Ha tradotto in gaelico le poesie di Kavafis, Mörike, Ujevic, Rózewicz, Ungaretti, József, Radnóti, Rilke e Cvetaeva, sempre dalla lingua originale.
​Euphemia MacFarrigle and the Laughing Virgin e The Gay Decameron contano tra i suoi romanzi in inglese, dei quali l’ultimo, tradotto in italiano da Lucia Corradini Caspani, col titolo La macchina delle nuvole (Corbaccio, 2001).
Nell’ambito poetico Whyte ha pubblicato numerose collezioni, da solo e in collaborazione con altri scrittori.
Tra le opere più recenti: Ceum air cheum / Step by Step, Cruinneachadh de dhàintean nas fhaide, A Collection of Longer Poem, Stornoway, Acair 2019 Mo She armon / What I Have to Say, London, Clive Boutle Publishers 2023.