Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Riccardo Bizzarri
ciclo sulla madre dopo “L’uomo e i suoi simboli” di Carl Gustav Jung
1
neppure la tua specie può pensare proprio il fuoco.
polverizzato
il vapore mi spinse più in su del piano
del tuo antro. fenice
piombo nel tuo petto lo trapasso
e bocconi del tuo cuore scoppiano
mio drago
2
con tutte le tue mollette
mi strozzasti la vita sulle vertebre
ero piccolo. il dolore
indecifrabile mi graffiava il rovescio
dello scheletro e le trincee vicine
furono come una mistica,
un drenarmi da me,
svaporarmi dello spirito dalla schiena,
il mio cuore eclissato sulle guance.
3
spingendo in
giù girando insieme il polso
come col cacciavite, come
si schiaccia si torce il tappo per richiudere,
mano di femmina a pugno
così s’incastra nella bocca di un vulcano
dopo l’ulteriore eruzione.
disintegrata dal deflagrare
soltanto istanti e una nuova stessa
sbuca giù dalle nubi e ottura.
ll credo nell’acqua, che evocandola
affiori infine dal profondo
e incontrastabile abbracci ribollendo
tutto, vulcano mano e nubi
brodo primordiale
Riccardo Bizzarri nasce nel 1981 a Sassuolo (MO). A oggi vive nella terra del padre, Foligno, in provincia di Perugia. Laureato magistrale in Storia dell’Arte presso l’Ateneo di Perugia, ha vinto ed è stato segnalato in concorsi di poesia nazionali. Ha pubblicato tre volte come poeta: Puzzle e altre poesie, Romano, Firenze, 2011; “prima; ora”, in Lévanté, Aletti, Roma 2016; Visioni, Transeuropa, Massa (MS), 2024. È sposato con Margherita.
C’è una ricerca costante del dato stratificato al di sotto della soglia del dicibile, nella poesia di Riccardo Bizzarri. In particolare, il trittico qui presentato, lungi dal consistere in uno sperimentalismo di maniera, si manifesta patentemente come l’emersione del sommerso archetipico che avvolge la psiche di un soggetto privo di difese e resistenze. L’andamento risulta, in qualche modo, circolare: il nostos verso l’archetipo materno prende avvio dalla spinta muscolare del parto, che fa sbucare alla vita, per approdare immediatamente alla descrizione di un episodio traumatico della primissima infanzia, psicodinamicamente spostato in altro, in cui la percezione del dolore fisico viene paragonato a una sorta di evaporazione dell’anima, tramite la funzione di sfogo del pianto neonatale; si giunge poi all’approdo del ricordo, mistificato dalla distanza temporale e dalle lotte intestine dell’io, di un altro trauma infantile, composto di immagini associative, come la torsione di un polso che ricorda l’avvitamento di un cacciavite o del tappo di una bottiglia, l’eruzione di un vulcano (probabile rappresentazione simbolica dell’ira materna), una mano chiusa a pugno (anch’essa presumibilmente materna); fino all’immagine finale che chiude il cerchio, quel “credo nell’acqua” che evoca il liquido amniotico dal quale affiora “dal profondo” il ribollimento vulcanico del trauma primario della nascita, in cui l’istante prima non è affatto quieto e confortante, anzi, consiste in un’eruzione che fa risalire alla coscienza il magma dell’inconscio, anch’essa immagine archetipica e quindi, junghianamente, simbolica: l’annegamento delle pulsioni filiali nel brodo primordiale dell’arké. Si tratta di “visioni” (come recita il titolo della raccolta da cui sono tratti i testi) che non rimandano a nessun alone mistico-vaticinante, bensì strappano la carne nuda dal sostrato dolente del reale e ne fanno sorgere la materia pulsante della psiche.
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