Circles di Virginia Farina | Il campanellino d’argento: piccolo viaggio intorno alla poesia di Maria Lai

 

“C’era un volta un dio, che vagava da sempre nella vastità dei cieli, era triste e annoiato. L’infinito è inafferrabile, e l’eternità è insopportabile. Il dio era infelice perché, essendo onnipotente, non poteva sognare le cose impossibili, come l’uomo. Il dio invidiava la condizione umana, l’unica capace di sognare l’impossibile […] Maria Lai, Il dio distratto

 

Nell’infanzia del mondo le parole sono segni slanciati sulla vertigine di ciò che ancora è impossibile da dire. Sono suoni presi in prestito al vento e al verso di ogni cosa, nel tentativo di esprimere qualcosa che per la prima volta è solamente umano.

Ci sono luoghi nel mondo in cui quest’infanzia sembra ancora ben viva, luoghi in cui ancora respira quel silenzio animato, in cui l’uomo non ha del tutto reciso il legame con la natura, proclamandosi suo padrone.

La Sardegna dell’interno è forse uno di questi luoghi fuori dal tempo, in cui è facile smarrirsi, e proprio nello smarrimento, a volte, ritrovarsi. Un luogo in cui la parola si rivela ancora nella sua impossibilità di contenere tutto, di spiegare tutto, e nel tentativo di esprimere sé stessa e il mondo si fa, a volte, slancio di poesia.

C’è un’artista che forse più di tutti ha saputo dar voce e forma a questo luogo ed è Maria Lai, che nei suoi scritti ha parlato di sé come di una bambina antichissima, riconoscendo le radici della propria arte in un tempo misterioso e sognante, connettendo così più generazioni lungo il filo di una storia millenaria.

«Ho dietro di me millenni di silenzi, di tentativi di poesia, di pani delle feste, di fili di telaio»,  scrive, e ancora:

«L’opera d’arte è prodotta in solitudine, ma è sedimento di culture accumulate in millenni di esperienze collettive»

In un’epoca in cui tanto spesso artisti e poeti si arroccano sulla propria opera, rivendicando la propria individualità e originalità ad ogni costo, riconnettersi a un fare collettivo è un atto rivoluzionario. Tanto più se questo richiamo al passato non si fa nella ripetizione stereotipata di un certo folklore, ma in un rinnovamento delle forme che ne riattualizza il senso più profondo.

Maria Lai, come Gramsci, era convinta che la grande arte non fosse quella chiusa in un museo privato, ma quella che cammina per strada, per arrivare alla gente, per sostenere processi pubblici (e in questo politici) di elaborazione del senso, e quindi generare comunità. Ma questo può avvenire solo se al cuore di questa comunità c’è un’intimità di ciascuno con la vita, che ne permetta un coinvolgimento appassionato e disinteressato come quello che ha il bambino nel gioco. L’arte, la poesia, sembra dirci Maria Lai, sono un gioco serissimo che ci fa prova della vita, delle sue ombre e della sua luce.

Non è un caso che due delle sue opere più famose si chiamino “Tenendo per mano il sole” e “Tenendo per mano l’ombra”. Senza toccare l’ombra, senza guardarla davvero non è possibile conoscere il sole. Come a dire che si può davvero parlare del mito, di quella costruzione comunitaria di un’identità umana più profonda del suo tempo, solo avendo ben presente la Storia e i suoi vuoti. L’isola piena di luce è, quindi, anche quella devastata dal petrolchimico e dei sequestri, dell’impoverimento sociale e culturale che ha accompagnato gli anni dell’incompiuto sviluppo economico.

 

È proprio dalla presa di consapevolezza di questi limiti, e di questa sofferenza, che l’arte può diventare atto pubblico di relazione e trasformazione, mettendo in gioco prima di ogni cosa il linguaggio con cui tutto si definisce.

In questo senso l’opera di Maria Lai, pur essendo prevalentemente visiva è un’opera potentemente poetica, proprio perché nasce dal vuoto prima della parola, dal segno prima del significato. Sembra che Maria nutra un’ancestrale diffidenza per il codice linguistico, che è stato nei secoli non solo luogo di incontro, ma di sopraffazione e divisione, di spoliazione quando proprio attraverso l’imposizione della lingua del potere veniva colonizzato lo spirito di intere parti del mondo. L’esperienza universale passa attraverso un piano sottile, tattile, visivo, e si fa significato profondo in ogni esperienza di sguardo, di contatto, di incontro. Così i libri che Maria Lai reinventa sono libri cuciti, di stoffa, che possono essere presi in mano, per scoprirne i fili tirati tra le pagine, che si aprono, ma mai del tutto, come a nascondere un segreto che è compito di ogni mano riscoprire. I fili imitano segni di parola, attraversano la pagina attraverso le infinitesimali fessure dell’ago per portare un po di quell’altrove che è lo spazio al di là, e poi si intrecciano, si annodano, si spezzano, come i versi, come le narrazione di infinite vite.

I titoli dei libri cuciti richiamano fiabe, patrimonio della cultura sarda ma anche archetipi universali. In esse si riversano la magia, lo smarrimento, il terrore, la prova, l’origine.

«L’uomo ha bisogno di mettere insieme il visibile e l’invisibile perciò elabora fiabe, miti, leggende, feste, canti, arte»

Ma alla fine, Maria non rinuncia alla parola, anche lavorandola come si lavora una pietra, o un pane. Scrive dichiarazioni poetiche potenti come versi, e piccole fiabe, riprendendo il lavoro letterario del suo maestro Salvatore Cambosu, che in Miele Amaro ha raccolto alcune delle più belle narrazioni della tradizione orale. “Il campanellino d’argento” è una di queste, una fiaba semplice, che però ci apre la chiave dell’intero mondo di un’artista e della sua isola. Vista la sua brevità raccontarla qui potrebbe sciupare il gusto della lettura, per questo è sufficiente dire che Maria Lai non si è accontentata di raccontare la fiaba per come la tradizione gliel’ha insegnata. Ne ha reinventato il finale, facendo della perdita (e del suo insegnamento morale) la possibilità di un vuoto e di una ricerca, di un richiamo, che proprio nella sua intensità, nella sua urgenza, darà origine alla musica, insieme all’arte e alla poesia. Le bellissima tavole di Gioia Marchegiani accompagnano la narrazione spalancandone i silenzi, disegnando anche ciò che non si dice, accompagnando il lettore, adulto e bambino, in un viaggio in un tempo e in un luogo lontani…

«… un’isola a forma di piede.
un’isola piena di pietre, sassi,
cespugli e alberi.
abitata da poeti e attraversata dal vento».

 

 

Un’isola che ha la forma e la durezza di una montagna, che somiglia a quella che sovrasta Ulassai, il paese originario di Maria Lai, nel quale realizzò una delle sue opere corali più complesse “Legarsi alla montagna”.

 

 

Nel 1981, dopo aver ricevuto l’incarico dall’amministrazione comunale per la realizzazione di un monumento decide, ispirandosi a una leggenda locale, di fare del filo un elemento di connessione tra gli abitanti del paese, facendolo passare attraverso le mani dei suoi compaesani di casa in casa, di finestra in finestra, fino a cucire l’intero paese alla montagna. Il filo finì per raccontare la storia di ogni relazione, lì dove passava dritto c’era inimicizia e conflitto, dove si annodava relazioni più intense, in alcuni punti i fiocchi svelavano storie d’amore. Tutte le storie si intrecciavano sorreggendosi alla montagna, trovando in essa, in tutto l’ambiente circostante, la loro prima condizione d’essere.

 

Ora il paese di Ulassai è un museo a cielo aperto, costellato di opere e scritture, che come nei libri cuciti sono inviti a riscoprire visioni, a pronunciare nuove parole, anche quando si inscrivono nella pietra, e in un muro di mille ghirigori fingono di essere leggere e volatili, e invece restano, e si trasformano, e attraverso la nostra voce ogni volta che vengono lette si risvegliano e ritornano al mondo.
Come la poesia.

«Il viaggio è la casa. Non solo la mia casa, ma quella di tutti noi.
Siamo sulla terra, che gira a circa trenta chilometri al secondo, in un viaggio che è pur sempre un viaggio speciale, dove non si distingue la partenza dal ritorno.
La vera nostalgia non è quella per un’isola. È l’ansia di infinito»