Reportage fotografici di Virginia Farina | Zene Srebrenice, lo spazio invisibile della guerra.
Quali condizioni si creano, non visibili, prima di una guerra, montando fino a generare l’esplosione di una ferocia che fino a poco prima sembrava inimmaginabile?
Mi sono fatta molte volte questa domanda viaggiando nei Balcani, davanti alle tracce di una guerra civile che ha messo una contro l’altra persone che fino a quel momento avevano convissuto negli stessi luoghi, come cittadini, come vicini, a volte come amici. E un’altra domanda mi rispondeva, una domanda che ancora non mi abbandona, che accompagna questa come tante altre e troppe guerre: quando è davvero terminato un conflitto? Al di là della proclamazione della pace, quanto tempo ancora cova sotto traccia il dolore? Per quanto tempo ancora i segni della rovina, nei territori come nella mente di chi è sopravvissuto, persistono e continuano a creare sofferenza?
Spesso sono le donne, in diverse parti del mondo, a farsi carico ci questo spazio invisibile della guerra. Per loro ricominciare a vivere dopo significa un po’ spezzarsi in due. Da una parte c’è un’esigenza pressante di memoria, ci sono i corpi dei morti, dei figli, dei mariti, dei padri e delle madri che chiedono di non dimenticare, che chiedono di cercare giustizia per quanto accaduto. Dall’altra c’è il tempo quotidiano della vita, le piccole cose di ogni giorno che reclamano attenzione, che poco a poco instillano desiderio di rinascita.
Le donne dopo una guerra sono, così, investite di un doppio ruolo, sono le depositarie della memoria e le responsabili di una ricostruzione, sono ponte vivente tra il passato e una possibilità di futuro.
Questo lavoro nasce dall’incontro con tre donne bosniache di tre diverse generazioni. Tutte fanno parte dell’Associazione Donne di Srebrenica, dove sono attivamente impegnate nel sostegno delle altre vittime e nell’estenuante richiesta che i crimini di guerra vengano finalmente puniti. Tutte hanno una visione chiarissima di quello che è il loro ruolo e la loro responsabilità nei confronti del futuro, perché tragedie simili non possano ripetersi.
Ho cercato di raccontare le loro storie, uniche e al tempo stesso esemplari, fatte di eroismi e di quei piccolissimi gesti che più di tutte le grandi parole sanno dar vita alla vita. Perchè sono passati troppi anni da quell’11 luglio 1995 e alcune di loro non ci sono più. Ma ancora non si è compresa tutta la portata di quegli eventi, la fragilità su cui a volte è costruita la pace di una comunità. E ricordare, anche da questa parte del mare, è un atto necessario. Soprattutto ora che tanto in fretta siamo diventati sostenitori di una guerra che più di tutte crediamo giusta. Mentre ancora la nostra civilissima Europa ha ferite di altre guerre che non ha voluto guardare.
La storia di Habiba
La storia di Advjia
La storia di Hajra
13/07/2022 alle 12:18
Bellissimo e toccante racconto.