Lagunare

Ci bagniamo nella laguna per
non riconoscere più la specie
diversa della pelle/del liquame/
degli stomaci/delle squame che
si fanno sulle onde se il vento

Quando scegli l’immersione/la
morte per acqua/lo sfaldamento
dei fuochi fatui dell’illusione, la
laringe idrica rintraccia
chiazze d’ossigeno sul fondo

La pozza colata dalle esse
delle colline stagna, ora che
Giove guida l’eclittica; poi
la consunzione diurna/il caos/
asciugandoci noi ricomporci e

piangere il vizio/lagunare

 

L’inverno annunciato

L’acme dell’inverno è già
nell’asciugatura dell’aria – è novembre,
la fine – in una volta
che si può sentire con la pelle
l’asciugatura, la secchezza dell’aria.
L’inverno intero – diremmo – è già
annunciato da qualcosa di antico
che si trova proprio nell’aria, quella
che avverti e non avverti, a momenti,
sulla linea della mano potersi incendiare
di gelo. La stagione presente –
si esemplifica col campanaccio dei buoi e i glitch
degli Autechre – sembra veramente
la fase del rame: verrà un freddo
circolare, il piede a terra duro e l’eco,
ma davvero tutto (il mastice degli anni)
può scucirsi da quest’aria secca,
da un attimo di nervi alla foglia (l’avessimo,
almeno, una memoria d’azoto).

 

I punti di saturazione

Succede più spesso di quanto credi
che una chiazza della realtà si sgretoli
e riveli in obliquo il criterio di
mondi lontanissimi: i suoi
punti di saturazione. Per dire,
prendi questa stecca di alloro – che poi
è solo obbedienza di fibre a un dato
baricentro di esistenza, di gravità, per dire:
ecco, qui si estende qualcosa, lo puoi
toccare – oppure prendi (è uguale)
il fiato che ci vuole a fare
questa salita, un falsopiano – che poi
sono appena momenti della città e a fare
la critica delle molecole ci vuole niente
per bruciarli o convertirli in ipotesi
di aggregazione: l’asfalto alla fine
è bitume ben steso, il bitume
una miscela di idrocarburi e questa mattina
la fanno un cinque dicembre,
un paio di schiene, un preciso ordinamento
di particelle (subatomiche, superatomiche…) –
sono degli ottimi esempi di arsura:
in un giorno a caso – fai domani –
cava l’osso alla natura loro e guarda
che da una leva di case ci viene
preciso un pozzo di elettroni; è un fatto
di granuli e messe a fuoco – poi basta
poco a convincersi di questa terra che non si sa
mai dove comincia.

(Inediti)

 

Antonio Francesco Perozzi (Subiaco, 1994) vive a Vicovaro, in provincia di Roma. È laureato in Filologia moderna all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi dal titolo Sanguineti e il decostruzionismo. Collabora attivamente con associazioni culturali. Oltre a poesie e racconti in antologie e riviste, ha pubblicato il romanzo Il suono della clorofilla (L’Erudita, 2017). Essere e significare (Oédipus 2020) è la sua prima opera poetica.

 

La ricerca espressiva di Antonio Francesco Perozzi, oltremodo matura, sembra permeata da uno sperimentalismo consapevole che però non si riduce in senso esclusivo alle modalità tipiche delle cosiddette scritture “fredde”, anzi riesce a comunicare per squarci espressionistici un’interiorizzazione della realtà di natura anche sentimentale, che procede per agglutinazioni di senso, apparentemente sempre sul punto di dire altro rispetto all’enunciato patente. Attraverso un uso accorto dell’enjambement e di una sintassi franta, interrotta spesso da incisi che richiamano l’accavallarsi del flusso dei pensieri nell’inconscio, Perozzi attua un procedimento di spostamento analogico continuo, con un preordinamento quasi geometrico che svolge la funzione di sovvertire l’immediatezza del dettato. L’utilizzo di slash e lineette divisorie svolgono, al contrario, una funzione agglutinante la quale sottintende la costruzione paziente ed accorta dell’atto analogico che scinde il processo associazionistico nelle sue parti primigenie, riconducendo il lettore verso il nucleo veritativo di un linguaggio disvelante. Queste due opposte tensioni, lo spostamento e l’agglutinazione, determinano lo stile dei testi qui presentati e offrono la testimonianza di una poetica personale già formata.