Miliaria di Maria Laura Valente | Metalli di transizione. Storie di poesia migrante al femminile in Confine donna: poesie e storie di emigrazione (Vita Activa Nuova, 2022)
Se, in ragione dell’«interdipendenza fra pensiero e linguaggio», conveniamo con Károly Kerényi sull’assunto che «le lingue non sono tanto un mezzo per esprimere una verità che è stata già stabilita, quanto un mezzo per scoprire una verità che era in precedenza sconosciuta», non possiamo esimerci dal riconoscere ipso facto che «la loro diversità non è una diversità di suono e di segni, ma di modi di guardare il mondo». L’immersione del pensiero in un linguaggio altro, che può discostarsi in misura variabile dalla matrilinearità linguistica d’origine, assume, pertanto, sia in contesti d’uso sia, ancor più incisivamente, nella pratica letteraria, i caratteri di una submersio psico-emotiva che inficia la struttura monolitica di una visio mundi univocamente precostituita, parcellizzandone i livelli di focalizzazione.
È precisamente in tale ottica che andrebbe letta la logica sottesa alla realizzazione, a cura di Silvia Rosa, di Confine donna: poesie e storie di emigrazione (Vita Activa Nuova, 2021), silloge miscellanea che racchiude storie e versi di 21 autrici, tra loro profondamente diversificate sotto il profilo geografico e generazionale, ma che hanno tutte ugualmente vissuto in prima persona l’esperienza della migrazione, in senso spaziale e linguistico, rielaborando gli effetti di tale vissuto in chiave mnesica attraverso la polimorfia di una parola poetica che, a una lettura attenta, si rivela politopica e utopica al contempo.
La compilazione dell’antologia ha impegnato la curatrice in una meticolosa opera di ristrutturazione editoriale, di cui ella stessa ci rende ampiamente edotti nell’Introduzione al testo: il volume nasce, infatti, dal rimaneggiamento, accuratamente mirato e calibrato, di materiali preesistenti in forma altra, ovverosia di interviste precedentemente apparse in una omonima rubrica ospitata nel biennio 2017-19 dal blog letterario Poesia del nostro tempo. Tale rielaborazione, finalizzata a catalizzare il focus attentivo sulle autrici attraverso l’eclissi della vox interrogans, ha determinato la mutazione del dialogo in monologo, cui ha fatto seguito una sua scansione in quattro tempi crono-logicamente articolati – Prima di attraversare il confine; Al di là del confine; Scrittura e lingua oltre confine; Il confine dei confini – il cui downstream flowing eleva la cronaca autobiografica, mnesicamente rivisitata nell’atto stesso della sua rievocazione, in consapevolezza metalinguistica, intesa, con Courtney Cazden come «capacità di funzionare obiettivamente al di fuori di un sistema linguistico», la cui condicio sine qua non è proprio, come rilevano, tra gli altri, gli studi di Maria Antonietta Pinto, «un ritorno riflessivo» sul dato esperienziale, che «richiede distanziamento dalle cose e lucidità».
Segnatamente, è nella sezione Scrittura e lingua oltre confine che la riflessione metacognitiva viene a estrinsecarsi attraverso la parola meditata in chiave psico-linguistica. Dalla dialettica tra lingue d’origine e lingue seconde emerge inattesa l’urgenza di esplorarne lo spazio liminale («Esiste un “dire in potenziale” situato nell’interstizio delle lingue che mi abitano», Prisca Augustoni), un limbo ibrido di ostica mappatura eppure estremamente fecondo quanto a potenzialità evolutive del pensiero («non vedevo confini, cercavo di muovermi nel paesaggio linguistico in cui mi trovavo, ma scoprivo con il tempo che quello spazio tra le lingue […] mi permetteva […] una visione privilegiata, obliqua, dal di fuori e dall’interno, una visione sullo stesso concetto da posizioni opposte», Barbara Pumhösel), in ragione delle segnanti ricadute che la coesistenza simultanea in un solo individuo di più idiomi in costante «dialogo interno» (Marjiana Sutic) ha sul suo habitus mentale («Ogni lingua è una prospettiva sul mondo e ci insegna a vederlo e a pensarlo», Vera Lùcia de Oliveira).
Nel vissuto di ciascuna autrice, l’immersione nella L2 ha talora assunto i tratti catabasici di un’incursione in territorio nemico, sotto l’egida belligerante di una verbofagia reciproca («masticavo le parole, letteralmente, ma era come se esse mi rifiutassero e quella lingua non scendeva con la saliva, non si mescolava al mio sangue», Vera Lùcia de Oliveira; «la nuova lingua divorava la materna […] le parole della lingua originaria, che erano polimorfe, sentimentali, si metamorfizzavano in parole cerebrali, mentali», Alexandra Zambà). Tale ottica conflittuale, nodo gordiano ineludibile per ogni esponente della letteratura transnazionale, si stempera sovente in un’azione di disarmo psichico («le due lingue non si fanno concorrenza, perché ognuna ha un suo ambito, il suo spazio dell’anima», Vera Lùcia de Oliveira) che prende le mosse da un graduale mutamento di prospettiva nell’approccio agli idiomi di approdo che, da meccanico processo di apprendimento si fa consapevole relazione empatico-inclusiva («una lingua non si impara affatto, ci si avvicina alla lingua – lo scrittore prova a domarla, ad ammaestrarla e il poeta dovrebbe mettersi seduto e incantarla, come fa l’indiano con il cobra», Eliza Macadan). Viene, pertanto, a disgregarsi il primordiale anelito al primato, nella consapevolezza della vacuità di qualsiasi gerarchia aprioristicamente intesa tra gli idiomi che si accolgono; privilegiata risulterà, infatti, quella lingua con cui si entrerà in naturale e totale simbiosi, a prescindere dal primato cronologico del suo apprendimento («[…] da bambina, quando leggevo in albanese io quasi balbettavo […]. In italiano invece, non so come spiegare, sono nata per parlarlo, è la mia lingua, la sento dentro, nelle viscere, nei sogni, quella che parlo nell’inconscio», Anila Resuli).
Tale stato simbiotico non viene in alcuna misura inficiato dal permanere nell’uso, anche letterario, dell’errore, la cui esistenza si fa icastica rappresentazione di un processo evolutivo («[…] ogni tanto scappano errori di forma. Li accetto come cicatrici che un po’ fanno male quando le tocchi, ma che sono anche la mappa del percorso», Barbara Serdakowski), la cui potente valenza metacognitiva è in grado di sprigionare una fonte creativa multiforme e potenzialmente inesauribile («Nell’errore […] esploro altri spazi possibili e impossibili, attraverso la voce e il corpo», Jonida Prifti), che si autoalimenta in perpetuum attraverso le micro/macro variazioni di posizionamento dell’essere rispetto al confine, ovvero rispetto sia alla polisemia intrinseca del concetto stesso di limes sia all’implicita scelta di posizionamento che ciascuna autrice costantemente compie rispetto ad esso («Non so se veramente voglio superare il confine della lingua seconda, nel senso che la parola stessa delimita un confine, perciò preferisco abbatterla, come senso e come suono, attraverso l’uso degli errori», Jonida Prifti).
Il portato letterario delle riflessioni metalinguistiche espresse dai preludi in prosa, che costituiscono la prima parte di ciascun capitolo monografico dell’antologia, si estrinseca compiutamente nei florilegi di versi, editi e inediti, di ogni singola autrice, posti a completamento di ciascuna sezione. L’incarnazione poetica della metacognizione linguistica non ha una valenza meramente esornativa, bensì costituisce un elemento rilevante che assomma in sé il pregio artistico e la rimarchevole pregnanza fenomenologica.
A differenza della narrativa migrante, su cui sono venuti, nel tempo, a stratificarsi numerosi studi sul tema, la poesia transnazionale italofona – se si eccettuano alcune approfondite indagini, quali quelle di Mia Lecomte, che Silvia Rosa ricorda anche come promotrice della Compagnia delle Poete, cui appartengono alcune autrici antologizzate da Confine donna – resta un territorio ancora poco esplorato e ancor meno conosciuto al di fuori dell’orbita ristretta dei circuiti specialistici. Di grande interesse sono pertanto i testi poetici di suggello, dei quali si offrirà, di seguito a questa disamina critica, una piccola ma significativa selezione, proposta in ordine sparso di appartenenza.
Due notazioni s’impongono, tuttavia, prima di concludere.
La prima concerne il fine apparato iconografico posto a corredo dell’opera, curato con particolare perizia da Valeria Bianchi Mian, la quale, unendo alle spiccate doti artistiche una profonda competenza psicologica e una sottile sensibilità analitica nei confronti dell’universo psico-emotivo femminile, ha realizzato ad hoc una serie di disegni ispirati alle storie e ai versi delle autrici. Tali raffigurazioni, lungi dall’essere un mero corredo illustrativo di supporto, si rivelano in realtà, per usare la felice definizione di Silvia Rosa, dei «fotogrammi poetici», ideati «sulla scia delle suggestioni che racconti e poesie hanno evocato». Essi rappresentano, pertanto, una componente essenziale di Confine donna, giacché la loro fruizione consapevole amplifica significativamente la profondità di percezione dell’«universo narrativo e poetico delle autrici espatriate».
La seconda è, invece, una personale suggestione di ascendenza para-numerosofica, evocata dalla felice coincidenza tra il numero delle autrici selezionate – 21 – e il numero atomico dello Scandio. Quest’ultimo, nell’architettura della tavola periodica, si colloca come primo elemento del gruppo 3, inaugurando la serie dei metalli di transizione. Per definizione chimico-concettuale, il metallo è un elemento caratterizzato, oltre che da elevata resistenza, da rilevanti doti di conducibilità, duttilità e malleabilità. Il concetto di transizione, d’altra parte, al di là del significato specialistico che il lemma presenta in qualità di tecnicismo di afferenza chimica, evoca, in virtù del proprio etimo latino[1], l’accezione semantica della scelta di attraversare, di varcare un limite, una soglia, un confine, appunto.
Tale lettura si sovrappone perfettamente, sul piano immaginifico-simbolico, a quella delle figure femminili che animano, in qualità di scrittrici migranti, le pagine di Confine donna. In questo «mosaico di storie d’espatrio al femminile», infatti, «le donne», come Silvia Rosa, con acume e sensibilità sottolinea, «si trovano ancora coinvolte in una lotta a più livelli per uscire da una condizione di subalternità, che le confina ai margini della storia, agli angoli periferici del potere, all’ombra delle disparità strutturali che ne segnano le sorti». In ragione di tali disparità, per le donne, l’esperienza migratoria (unitamente alle sue ricadute psico-linguistiche) rappresenta una prova del fuoco particolarmente ardua e segnante, che esse affrontano e superano dando ampiamente prova non solo di forza, resistenza, flessibilità e capacità di adattamento ma anche di conducibilità psico-linguistica, in virtù della feconda elaborazione, come la curatrice precipuamente nota, di un «processo di sfaldamento e di incessante ricostruzione di un Io sottoposto a numerose prove materiali e psicologiche», di una «riflessione su tutti i vari Sé che hanno determinato quella che può definirsi a tutti gli effetti un’autentica rinascita», volta a «superare la frattura tra la propria identità passata e la nuova identificazione etnica, culturale e sociale».
La natura composita delle differenti soluzioni adottate dalle autrici (scrittura bilingue, autotraduzione, eclissi della lingua d’origine, sperimentazioni di fagocitazione del significato ad opera del significante, solo per citarne alcune) lungo il percorso di metabolizzazione poetica della propria peculiare parabola migratoria, restituisce, pertanto, l’esatta misura della cifra individuale di riconoscimento di ciascuna voce poetica, concorrendo nel contempo a comporre un articolato scenario corale dal quale emerge, come Silvia Rosa ricorda al genere umano tutto, «la necessità di costruire ponti che a ogni latitudine ci mettano sempre più in relazione, sotto l’egida dei diritti umani fondamentali».
[1] > transĕo, voce verbale composta in cui il verbo ĕo, andare, portarsi da un luogo a un altro, si unisce al prefisso trans, preposizione che indica oltre, al di là.
Testi tratti da Confine donna. Poesie e storie di emigrazione, a cura di S. Rosa, Vita Activa Nuova, Trieste, 2021
Jonida Prifti
(E) Dridhur në fyt (E) Shpërthyer në gojë
A si arma e ariut në Bar Barìu me Cjapt në cep kërkon një Çik Çakmak mak mak mak Deti me Damën si Dhia me Dhelprën Enden të bëjnë Ëmbëlsira të Ëmbla si në Ënderr kanë Frikë ndërkaq Gomarica godit me Gjoks Hi hi hi hijen e Irakliut është Janar ejani Këtu mblidhuni Këtu me Limë tek Llozi Llogaritni Mami le Namë ua ua ua Namë mami je me Njollë jo si Njërka OOOh Otranto Otranto ore Plak me Pishtar je Plak poshtë tash Qetë me Rota Rrotull vrapojnë tek Spiro Spira Spia voi Spirate Spiate Shokët nëpër Shi Shejtan je Tapë je fare je Tapë Turp të Them Turp me Thikë në thembër pastaj UR pa Ujë URRA URRA në Vizionin e Xixëllonjave xixat tek Xhami shkëlqejnë Yjet e Zeza ndërkaq Zhapiku pickon Xhaxhin.
Vibrato in gola Esploso in bocca
A come l’Arma dell’orso al Bar il pastore con le Capre all’angolo chiede un accendino il mare con la Dama come la capra E la volpe che cercano di Fare dolci molto dolci come nel soGno Hanno paura intanto che l’asina colpisce nel petto l’ombra di Irakli, è gennaio, venite qui, raccoglietevi qui, con le Lime e le Leve, calcolate! Mamma sei uno zimbello mamma Non la macchia come la matrigna OOOTranto Otranto, tu vecchio con la fiaccola sei vecchio sotto, te lo dico io Placido in Quota con le Ruote corrono da Spiro che spira spia voi spiate gli amici durante la pioggia SaTana sei Ubriaco Vergognati con il coltello nel tallone poi ponte senza acqua PONTE PONTE nella visione delle lucciole che illuminano il vetro, scintillano le stelle nere, intanto la lucertola punge Zio.
*
Natalia Bondarenko
Come si chiama quella cosa
quando tu vivi da qualche parte del mondo
che, probabilmente, non ti appartiene,
quando il mare si trova
a soli venti chilometri di distanza,
il vento viene prevalentemente da nordest,
la pioggia da sudovest
e il sole ha il destino fragile
mentre dalla tua finestra vedi passare
soltanto
anni e anni d’incomprensioni.
Come si chiama quel pensiero perdurante,
quella teoria di una nostalgia più o meno sana
di un paese dove crescono molti cavoli,
dove le bufere di neve ti tolgono la vista,
e in chiesa si va solo per distribuire le scuse,
perché la vita da quelle parti si gusta con gli occhi
e la poesia si mangia al dente
dentro un monolocale, quattro per quattro,
dove si sta comodi solo se si sta abbracciati.
La perplessità sta nel non riconoscere più le cose,
dall’essere plagiati da un dettaglio
che non è affatto un dettaglio
mentre qualcosa di maligno
si spiffera dalle finestre chiuse
e mette a dura prova il tuo midollo osseo
ormai modificato.
*
Eliza Macadan
andrò a Nord
della parola
nella siberia sintattica
il gelo muto
a cavallo sul pianeta
veglierò
la morfologia della fine
*
Evelina Schatz
Non sono ebrea
né per religione
né per tradizione
né per educazione
né per cultura:
solo per persecuzione
Non sono tedesca
né per tradizione
né per nascita
né per cittadinanza
ma per una dose di
partecipazione linguistica
cioè cultura (che è storia)
e anche in questo caso –
persecuzione
Non sono americana,
se non per la nascita
a Filadelfia di mia madre
e per infinito fascino
della città di New York
Non sono ungherese, ma forse un po’ sì: l’aspetto di un misto di zingaro e giudeo: capelli rossi, occhi verdi, pelle bianco-lattea-lentigginosa e soprattutto carattere volitivo escandescente volteggiante e beduino: quest’ultima serietà aveva la nonna ungherese. Non sono austriaca se non per educazione austro-ungarica: l’impero piccolo-borghese ma ancora disciplinare cioè regale: la disciplina in educazione e non in costrizione è delle grandi civiltà imperiali. Quest’ultima era già predemocratica. Non sono russa. Se non lo fossi profondamente: per umore d’essere, per filosofia del paesaggio nativo (emotivo), per appartenenza ad un grembo materno preciso: lingua (cultura) russa con il suo complesso slavo/persiano/mongolo/turco/cinese/nomade e il resto dell’Europa. Par poco! Essere russi? Non sono italiana. Se l’italiano non fosse l’altro grembo. Scelto. Amato. Razionalizzante il mio modo russo irrazionale di essere. Struttura grafica per la mia anarchica disinvoltura coronata da un figlio d’amore per Italia. Infine un corpo a corpo tra la mia libertà in lotta con le imperiali costrizioni o con le democratiche riduzioni alla mediocrità. Le influenze sono sempre reciproche per leggi delle opposizioni. Stancanti e, spero, costruttive. Sempre nostalgica della patria lingua
*
Anna Belozorovitch
Filo di passi
Come credere al destino?
Esiste soltanto un destino inverso,
fitto tessuto di conseguenze.
Esiste soltanto un percorso
che chiamiamo cammino perché,
guardando indietro, mostra sequenze di punti
illuminati dalla nostra prospettiva.
Diventa cammino un filo di passi
quando si è fermi a contemplare,
mentre si riprende fiato.
È la ragione d’osservare, e d’osservarsi
all’indietro, a dipingere il destino:
colora i sassi casualmente pestati
in mezzo a migliaia d’altri simili sassi.
Allora il destino è un modo per raccontarsi un passato
visto in sequenza dal punto che ci ha fermati.
Allora è la ragione di fermarsi
la chimera del presente,
l’attimo puro.
Allora il vissuto, il cammino fatto,
è una forma di futuro:
si manifesta nell’osservazione che ci attende.
*
Eva Taylor
Bruxismo
La mattina mi dici:
di notte c’era un rumore stridente in tutta la casa.
E subito sono colpita da un senso di vergogna appiccicoso.
Nello specchio si vedono chiari segni d’abrasione.
I muscoli dei miei mascellari sono affaticati e dolenti.
Soffro di mal di testa: davanti all’orecchio, sulla guancia e sulla tempia.
Digrignamento e chiusura contratta dei denti:
forme comuni di parafunzioni di cui la paziente non è consapevole.
Sono virgole, punti, trattini e lettere da stritolare
il contingente di tre lingue in ogni parola
(e anche se non si vede, lo sento in bocca).
E il dolore è sordo, pulsante e continuo.
*
Adriana Langtry
Celebrazione
a Italia (1861-2011)
Sul mio balcone
sventola
un pezzo di stoffa
verde-bianco-rossa.
Quasi fosse
un rammendo
sugli orli
dell’assenza.
Un cerotto sul vuoto,
trasmigrazione
delle origini.
*
Irina Turkanu
Migrazione
A star immobili si finisce
per somigliare alle cipolle.
Strati di generazioni
incapsulati nei loculi
di uno stesso cimitero.
A muoversi troppo si finisce
per somigliare agli
spaventosi squali bianchi
mostri freddi e colpevoli
di un immaginario collettivo.
Silvia Rosa è nata a Torino, dove vive e insegna. Laureata in Scienze dell’Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden. È vicedirettrice del lit-blog Poesia del Nostro tempo, redattrice delle riviste digitali NiedernGasse e Margutte, di Argo annuario di poesia, e collabora con «Il manifesto». Ha intervistato e tradotto alcuni poeti argentini in Italia, Argentina ida y vuelta. Incontri poetici (edizioni Versante Ripido e La Recherche, 2017). Tra le sue pubblicazioni: l’antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d’ulivi edizioni, 2020), di cui è ideatrice, curatrice e autrice delle fotografie; le raccolte poetiche Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice, 2014), SoloMinuscolaScrittura (con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, La vita Felice, 2012), Di sole voci (LietoColle Editore, 2010); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni, 2013).
Valeria Bianchi Mian vive a Torino ed è psicologa, psicoterapeuta e psicodrammatista. Redattrice per Oubliette Magazine e Pisconline.it. Ha curato l’antologia Poesie Aeree (Matisklo 2014). Ha scritto e illustrato Favolesvelte (Golem 2015). Tra i saggi di psicologia: Utero in anima (Lithos 2016), la partecipazione ad Amori 4.0 (Alpes 2019) e Voci di donna – il complesso intreccio tra psicologia e femminismo (Underground, 2019). Il suo primo romanzo è Non è colpa mia (Golem, 2017). Ha curato e illustrato l’antologia di racconti Una casa tutta per lei (Golem, 2018) e l’antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d’ulivi edizioni 2020). Nel 2020 ha pubblicato la silloge poetica illustrata Vit(amor)te – Poesie per arcani maggiori (Miraggi Edizioni).
Silvia Rosa e Valeria Bianchi Mian hanno ideato e curano insieme il progetto Medicamenta: lingua di donna e altre scritture, che ormai da qualche anno propone letture ed eventi intorno al tema delle scritture femminili e una serie di laboratori rivolti a donne di ogni età, italiane e straniere, lavorando in una prospettiva psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita.
Le autrici antologizzate in Confine donna. Poesie e storie di emigrazione sono: Prisca Agustoni, Anna Belozorovitch, Natalia Bondarenko, Vera Lúcia De Oliveira, Anila Hanxhari, Adriana Langtry, Eliza Macadan, Gentiana Minga, Lidia Amalia Palazzolo, Mikica Pindzo, Brenda Porster, Jonida Prifti, Barbara Pumhösel, Anila Resuli, Candelaria Romero, Evelina Schatz, Barbara Serdakowski, Marijana Sutic, Eva Taylor, Irina Turkanu e Alexandra Zambà.
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