THANATOFOBIA, Guglielmo Aprile (Edizioni Progetto Cultura, Roma 2022) – recensione di Maria Benedetta Cerro e alcuni estratti
Il primo testo del libro, “Dei seri dubbi”, si apre con una visione di sgretolamento e di rovina, sostenuta da descrizioni dettagliate di ipotizzati disastri, sino alla premonizione cosmica dello “spegnimento di una galassia”. Potremmo, con poco margine di errore, assumere questi primi versi a riferimento emblematico di tutto il libro, che si snoda, con grande coerenza, a partire dal titolo, intorno al tema della paura della morte. Ma, se pure abbastanza comune, il sentimento della morte, quando diventa paralizzante sino ad “attendere che il sonno della neve ci ricopra”, quando la si vede in agguato ad ogni angolo, o si insinua nella quotidianità sino a condizionare la visione del mondo e delle cose, allora – è vero – di fobia si tratta, che suppone un soggetto, ma anche una realtà oggettiva affatto rassicurante.
A convalidare dubbi, timori e sospetti si cercano conferme nei “Rilievi forniti dai satelliti”, nei “valori anomali dei termostati”, in cataclismi, esplosioni, disastri, variamente descritti o ipotizzati. Una condizione angosciosa, il cui superamento non sarebbe immaginabile se non nella pazzia o nella morte stessa. Ma, se è vero che “il poeta patisce il mondo nella carne” – come afferma Maria Zambrano – è anche vero che da lui ci si aspetta qualche speranza di salvezza per il mondo (ma anche per se stesso) attraverso la poesia. E a questo punto viene da chiedersi se Guglielmo Aprile non abbia messo in campo una strategia singolare per lanciare il suo monito all’umanità: spaventarla a morte. Non scegliendo gli atti estremi ben esemplificati in “Corrimano” per esprimere il proprio dissenso, non denunciando i guasti e i disastri di una umanità che ha disimparato la necessità di vivere in armonia con l’universo, ma applicando una sorta di contagio della propria Thanatofobia, innescando insomma una reazione a catena di versi, in cui prospetta, a volte con lucida ironia, altre con toni apocalittici, altre ancora, particolarmente nell’ultima sezione “Gorgo unanime”, con partecipe, umana solidarietà, tutti i modi possibili di morire (come in un catalogo del caso che si rispetti). La lettura è nella valenza delle parole simbolo utilizzate: tombino, burrone, inghiottire, pozzo, tunnel, e molte altre ancora. Il senso di prigionia, asfissia, raggiunge il suo apice in “Che fine faranno gli ostaggi”. Il senso di catastrofe senza scampo, senza salvazione, culmina nei versi-sentenza “Il sole presto esaurirà il suo idrogeno”.
Invero l’ipotesi di una strategia ben congegnata crolla verso la fine del libro davanti a due versi, illuminanti e lapidari, terrifici e terribilmente umani, indicativi di una condizione esistenziale autenticamente tragica, filosoficamente tragica: “Qualunque parola io provi a scrivere, / sul foglio se ne forma un’altra – morte”. Così Aprile (il più crudele dei mesi, lo definisce Eliot), ma anche il più tenero dell’anno, dopo aver dedicato un libro intero alla morte, “l’imperatrice – l’Unica – la regina degli orologi”, nell’ultima poesia (bellissima!) prova a pronunciare la parola “speranza”, la parola “guarigione”, la parola “rugiada”. Un indizio felice, che induce a pensare che anche la morte è una questione di linguaggio e a lei, che confuta, abbatte, “fissa ad ogni pelle/ i suoi punti cardinali certi”, il poeta risponde con i suoi mezzi – la poesia –
Alla visione senza scampo del vuoto e del nulla, colui che ama per definizione, il faber della parola, oppone la bellezza, l’arte, l’opera paziente dell’uomo, che pur conoscendo il proprio destino, la propria finitezza, lotta, costruisce e vive. Tutto questo si chiama “amore”. E l’amore è più forte della morte.
Sicché anche in un libro di poesia, apparentemente senza intenzionali messaggi espliciti, dal linguaggio quasi privo di pathos, chirurgico nel descrivere, ipotizzare, costruire situazioni, “piano e colloquiale” come ben rileva in prefazione Carlo de Ambrogio, la poesia parla per sé, trova le sue vie per sollevare questioni, porre interrogativi, svelare l’ennesima fragilità nel tessuto profondo della società del nostro tempo.
Un libro sulla paura della morte che, paradossalmente, illumina una paura più grande: perdere la meraviglia della vita.
Estratti da Guglielmo Aprile, THANATOFOBIA, Edizioni Progetto Cultura (Roma 2022)
Novantamila anni di solitudine
Quando la giostra di carne e domeniche
sarà conclusa, e il lungo panno nero
steso ai davanzali, la Voyager
dov’è che sarà giunta.
Ci si sfileranno di dosso
tutti i documenti, inavvertitamente:
la sonda proseguirà
la sua canzone inascoltata.
Quando le palpebre avranno varcato
anche l’orbita del nono pianeta,
solo questo affondare, a peso morto,
negli spazi profondi di un oceano
nerissimo – relitti inerti, arresi
alla deriva, nel vuoto, per sempre.
*
Capitale del buio
La danza delle colline
è un cavallo rugoso.
Vecchio animale,
stancamente prolunghi questa rampa,
trascini in spalla un baule di sangue
fino al pozzo comune;
e infine la capitale del buio
si profila, nella sua mole: è qui
a pochi passi, dopo che per anni
ci inviò i suoi previdenti emissari
che non avevamo tempo né voglia
di ricevere.
*
Fine dell’equivoco
Stereotipie diffuse
e cassetti pieni di frasi fatte
schermano dalle frane,
nastri rosa su un’ulcera;
i passi convenzionali di ballo
un fazzoletto sul vulcano,
a sventare una piovra;
ma il pozzo di fuoco della follia
preme di sotto, costante, discreto.
Poi l’inserviente, l’addetto alle luci
con i suoi modi spicci, ci comunica
che il locale chiuderà a breve al pubblico;
il mare mette fine ai vari equivoci:
allunga il suo braccio di piombo
e fa a tutte le strade
da monotono sfondo.
*
Testa o croce
Se partissi ora, cosa perderei:
piume di piombo
e una barca di sale,
un inventario ampio e dettagliato
di colpi a vuoto e passi in controtempo,
scorte di tonno in scatola
e calzini spaiati,
buoni mai spesi per il cineforum
e polizze scadute,
animali impagliati sulle mensole
e capelli persi sul pavimento,
la pillola che cancella i ricordi
e la pomata per le ustioni lievi,
bicchieri vuoti e la loro sentenza,
la luna dagli zigomi sbucciati
che mi corteggia da anni senza esito,
termometri e scacciamosche,
collezioni incomplete
e foto in controluce.
Un grido, e avrei scavalcato il confine
tra il buio e la paura che esso suscita,
tra la risacca e le orme;
a dissuadermi, la sempre efficace
forza attrattiva che le calamite
sul sangue e sul suo nucleo in ferro esercitano.
*
Spartiacque
Le grandi vette hanno abdicato;
il bambino difficile ha strappato
la carta in scala, in un suo scatto d’ira,
di terre emerse, isobare, confini;
l’occhio non trova più né un nord né un sud.
La catena si sgancia dalla ruota;
i vetri a specchio del centro congressi
frantumati da un’eco di esplosione:
il braccio del tornado scaraventa
sparse schegge di uomini,
assi storte di ombrelli,
pagine di portolani, brandelli
di mongolfiere scoppiate, a casaccio.
Il vomito di Dio riempie le strade;
franano le galassie, dall’oblò
larghi intervalli fra polvere
e polvere; più oltre
una calotta bianca, cranio del mare.
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