A tentoni nel buio di Paolo Polvani |Il cielo sta bene con le tue scarpe della domenica (note di lettura a Mister me, di Maurizio Evangelista, Arcipelago Itaca ed., 2022)
L’ultimo libro di Maurizio Evangelista, Mister me, edito da Arcipelago Itaca, è suddiviso in quarantotto stanze, tutte di numero dispari. La parola stanza si collega direttamente a un luogo di dimora, a una possibilità di alloggio. Ma nella metrica italiana è un altro nome per strofa. Ci racconta il vocabolario che: “Questo significato, che si ricollega direttamente all’accezione originaria (di «fermata»), deriva dal fatto che la strofa o l’ottava, racchiudendo un senso compiuto, comporta alla sua fine una pausa, un riposo, che ne costituisce la caratteristica”.
Viene spontaneo pensare che in questo caso la parola stanze alluda e derivi sia dall’esperienza lavorativa di Maurizio, che si realizza appunto in un albergo, e sia dalla sua frequentazione e dimestichezza con la poesia. Non a caso il libro si apre con un check-in e si chiude con un chech-out.
Dunque esiste una sorta di unità di luogo che fa da scaturigine ai versi, alle microstorie, agli embrioni di racconto che si lasciano scorgere come attraverso una fessura, uno spiraglio di porta.
Mi tornano alla mente, per un’associazione d’idee istantanea, le poesie “farmaciste” di Christian Tito, e anche quelle di Alessandro Canzian, quelle del Condominio SIM, in cui le figure degli abitanti del condominio lasciano scorgere indizi minimi di storie, spezzoni, frammenti appunto di vita.
È ormai assodato che la poesia non è solo sentimento ma esperienza, e così mi viene facile immaginare Maurizio che nella sua postazione d’albergo osserva l’andirivieni dei clienti e imbastisce storie, immagina situazioni, crea un piccolo evento poetico per ognuno di loro, e così quei clienti diventano personaggi che albergano nella sua fantasia e vengono manovrati secondo l’estro del momento.
Qui, per analoga associazione d’idee, tornano alla mente le strisce dei fumetti, fumetti d’autore, fumetti di gran classe, e anche le figurine che circolavano un tempo, o forse si tratta di fotogrammi veloci che spargono suggerimenti, regalano dettagli sui quali costruire delle storie, così apprendiamo che nella stanza 103 l’uomo con la giacca scura dorme per finta, e che sua moglie “ha i capelli malinconici / e il sorriso di un tempo inguaribile / li ha tutti davanti a sé / con quel tipo di occhi che non si chiudono mai.”
Nella stanza 105 invece troviamo “la pazza / che posa stanca sulla sedia / con una data precisa di scadenza.”
Procedendo lungo l’ipotetico corridoio incontriamo la
STANZA 107
lui mi afferra e mi dice,
il cielo sta bene con le tue scarpe della domenica.
è vero, gli dico
le indosso solo per te
in questa luce alta e drammatica
che filtra il pomeriggio.
Invece nella stanza 111 apprendiamo che qualcuno ha fatto sesso con il pigiama sporco di gelato e di rossetto, e nella 119 c’è qualcuno che sorride alle ragazze come fosse James Dean e le bacia con la lingua del cinema, e qualche stanza più in là qualcuno legge un giallo della Christie con Jane Marple che risolve un omicidio. Invece nella stanza 207 è tutto uno zampillare di linguaggio gergale con allusioni alla musica, ed è questo un aspetto non secondario ma probabilmente quello che costituisce lo scheletro linguistico del libro, un’ossatura agile e scattante, un sistema comunicativo che adotta un linguaggio che trae linfa dal fumetto, dalla canzone pop, dai cartoni animati, e stabilisce un clima di novità all’interno dell’espressione poetica:
senti quello che ti pare piccola. io farei così.
sei così rock mentre fai la stronza
che il tuo corpo sorride alla morte.
è così jazz la tua sigaretta spenta nel caffè
mentre lanci un bacio fumo
e mi sfiori con le dita giuste.
mi fai sentire così soul
ma non sai bene cosa sia il soul, vero?
fai la cameriera e ti ho bevuta al bar
mentre ordinavo un goccio dopo l’altro
e mi scioglievi il ghiaccio giù nel fiume
con quei tuoi occhi swing venuti ad origliare.
Una poesia molto bella di Margaret Atwood, Se non ci fosse il vuoto, parla di quei motel che s’incontrano lungo le strade trafficate, con la scritta Camere libere che lampeggia all’esterno, e la reception con le chiavi a forma di chiavi che aprono la camera vuota col pavimento di linoleum consumato e il divano fiorato coi cuscini sgonfi: “Quella stanza è elettrostatica per me da così tanto:
un vuoto uno spazio un silenzio
che racchiude una storia mai ascoltata
in attesa che io la porti via.
E trama sia”.
Immagino che il percorso seguito da Maurizio sia analogo a quello descritto nella poesia della Atwood, davanti a un vuoto da riempire che trama sia, che si dia voce a una storia mai ascoltata, che prenda vita un teatrino fatto di incantamenti e di magia, fantastico eppure così legato a forme di realtà che conosciamo bene.
Scrive molto bene Alessio Alessandrini nella postfazione al libro: “Il misterioso “Mister me”, volutamente e ironicamente minuscolo, è uomo e donna, è padre e madre, è amato e amante, è vergine e madonna, prostituta e premaman, in un rodeo che si muove nelle multiple prospettive di una telecamera, di un indiscreto occhio fratello”.
Qualcosa di simile all’affermazione di Flauber: Madame Bovary c’est moi!
Del resto credo che il processo della scrittura contempli l’utilizzo di una dinamica teatrale, piegare elementi della realtà non a fini imitativi ma per farne cosa diversa, autonoma e creativa, così a volte anche il sole o il mare diventano nelle mani di chi scrive pedine da muovere, pretesti arresi, duttili, che assecondano il rito della creazione.
Che si tratti di proiezioni fantastiche legate a un unico io è già anticipato in maniera decisamente esplicita nel check in iniziale: “farai il bravo stasera / metterai la mia faccia / e aspetterai / che io vada a dormire / per te”, dunque sebbene attinte da una realtà prossima, si tratta di infinite varietà oniriche, sequenze che tendono a soddisfare una curiosità umana.
Da rimarcare l’utilizzo di una lingua spicciola, mutuata dal linguaggio delle arti popolari, il cinema in primo luogo, certi film americani in bianco e nero degli anni ’50:
STANZA 319
in una foto del duemiladiciassette
siamo al centro dell’East River io e te
a toccare le stelle americane.
ricordo di aver detto, sorridi
così sarà per sempre
e quanti come te sorridevano.
se non cercheremo più questa foto
se qualcun altro ci troverà per noi
saremo ancora felici
e lo saremo per tutta la vita degli altri.
Dove esattamente soffia la poesia? Decisamente lungo tutto il libro, già nella sua struttura ossea, nel suo scheletro si riconosce il progetto di dar vita a un vagheggiamento poetico che pur affondando le radici nella vita concreta, tuttavia allunga le mani e affonda i piedi nella materia del fantastico, dentro l’eterna adolescenza della creatività. E poi in certi scarti logici improvvisi come spari, quei “ti voglio Norma Jean / dentro una decappottabile del ‘56”, e i capelli malinconici, e
sarò sempre un bambino
affacciato all’età di qualcun altro.
Soffia decisamente molta poesia in questo libro, come un vento che ci propone fotogrammi di una realtà parallela, dove “nemmeno il padre sa quando arriva il suo tempo”, circola in forma di materiale onirico che fa della lettura una piacevolissima escursione.
STANZA 307
la signora Pia ha preso una stanza per l’apocalisse
suo figlio scenderà dal cielo, mi dice
a portar via le valigie.
e prenderemo l’autobus che ferma al cimitero,
saluteremo il Padre e renderemo grazie
ci prenderemo i crisantemi da fare invidia ai vivi.
indosserò il vestito nuovo
nasconderò la mia dentiera sotto il cuscino,
arriverà la fata
e mi prenderà per mano
mi metterà sul letto
come una bambola che guarda la finestra
avrò gli occhi di un cielo ferro
i piedini inchiodati, i capelli spazzolati con cura
e sarò ancora bella
quando sarò im(paziente)
quando sarò sua figlia.
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