A tentoni nel buio di Paolo Polvani / Ho la felicità inceppata / come una pistola al Luna Park (note di lettura a Una pistola al Luna Park, di Monica Messa, RP libri 2024)
Una prospettiva interessante per accostarsi alla poesia di Monica Messa è l’analisi dei titoli delle sue pubblicazioni. Nel 2018 “Poesiole”. Qui è la scelta di una minorità, di un profilo basso, come quei frati che scelsero di chiamarsi minori per enfatizzare la modestia. “Seppie ripiene – Poesie per poche lire” rappresenta un balzo in avanti, da una parte richiama (non direi che fa il verso a) gli Ossi di seppia di Montale, ma le poesiole sono diventate poesie, sebbene ancora “per poche lire”, il richiamo gastronomico un assaggio dell’ironia promessa, e confermata nel titolo “Il logorio della vita moderna”. Del resto non è stato Montale a suggerire una visione della poesia dal profilo elegante ma privo di retorica già con la poesia I limoni? Si sa, dice, i poeti laureati prediligono le piante dai nomi poco usati, bossi, ligustri e acanti, ma “qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni”.
Quale messaggio si nasconde dietro queste scelte? Suggerisce un approccio “pop” alla poesia, nel senso di popolare, di rifiuto di ogni accademismo, suggerisce che la poesia non è appannaggio esclusivo di una nicchia super acculturata; invita alla fruizione, promette una visione delle cose, della vita, personale ma condivisibile, propone una lingua dalla creatività domestica ma comunque raffinata, estranea alla banalizzazione di certi cantori che affollano le piazze ma sconfinano nella ruffianeria, nelle concessioni alle propensioni del pubblico?. Io vi leggo la caparbietà di chi vuole tenersi lontano dalle formule care al discorso poetico, dalle formule abusate, di chi prospetta una visione nuova.
Anche nella raccolta Una pistola al Luna Park la sensazione è questa, la proposta di una poesia aderente ai temi della vita quotidiana, fatta di personaggi che incrociamo nei nostri giorni frettolosi, una lingua sorvegliata ma accessibile, al limite della scrittura puntiforme, versi brevi, incisivi, tessuti di parole che appartengono a una lingua nuda:
Trasformati, trasformati
in poesia
rabbia bastarda,
con la stessa potenza
prima che mi consumi,
prima che mi consumi.
Trasformati
ragazzina scalza
prendi ossigeno e brucia,
brucia.
Così anche certi avvii dei versi possiedono concisione e insieme velocità: “Nacqui nel tardo pomeriggio / di un mercoledì a novembre” oppure: “Mi parlavi del vicino / a cui avevano arrestato il figlio”. L’ambientazione dei testi è sempre rapportata al profilo di un paese, tanto che Antonio Bux nella prefazione afferma: “Dunque è il paese con i suoi abitanti il vero protagonista della silloge, il perno di una non storia narrante”.
Le varie sezioni che compongono il libro sono ispirate a figure riconoscibili e universali, figure che popolano le strade delle nostre città, Samir, che consegna kebab a domicilio, Annarella, coi capelli nuovi di chemio, Bice e Anita che ogni tanto strusciano in piazza, e un marinaio perito industriale che scriveva poesie, e sullo sfondo sempre le vie di un paese:
Nel mio paese c’è un binario
e un passaggio a livello fra i ciliegi.
Vengono dalla città
e dai paesi limitrofi
a suicidarsi.
Perché un paese ci vuole,
un paese per morire da soli.
Versi che fanno da controcanto all’affermazione di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo”.
Non so se la scelta stilistica sia riconducibile alla professione di informatica di Monica Messa, oppure alla suggestione del paesaggio, a una dimensione geografica fatta di strade strette che portano al mare, di castelli dalle geometrie stringate, di cattedrali dalle linee essenziali, con lo sguardo rivolto all’orizzonte marino, al chiarore che sprigionane le pietre o al cibo che parla di una campagna operosa, quella operosità che spingeva Tommaso Fiore a parlare di un popolo di formiche. Probabilmente lo stile è riconducibile a tutto questo e anche ad altro.
Dunque ci troviamo di fronte a una felicità inceppata, e non è difficile crederlo, visti i tempi bui che attraversiamo; felicità inceppata che tuttavia riesce a liberarsi dai ceppi e rivelarsi come felicità espressiva: “stendere una palpebra / come tovaglia da picnic”, o anche: “Samir beve vino / e ingoia bignè”.
Forse il vero protagonista non è il paese, o soltanto il paese, ma questa lingua cruda e nuda, la ricerca di un’essenzialità formale che racconta le cose e le persone semplicemente sfiorandole, rivestendole di parole concrete.

foto di Paolo Zanardi
Il corpo chiede aiuto, il corpo canta.
Fra lenzuola fresche di bucato
attende il sonno, la deriva.
Il corpo puzza, prude, invecchia, pesa.
Sente il corpo, talvolta nutre, cieco
trema – il corpo è il teatro
dove ridono i sensi.
° ° ° ° °
Bice ha gli occhi grigi.
È minuta e le piace cantare.
Fiorin fiorello
l’amore è bello vicino a te.
Bice e Anita ogni tanto strusciano in piazza.
Bice indossa camice con volant.
I soldati le guardano,
ma Anita è Anita.
Anita ha il fuoco dentro agli occhi.
Bice ha capelli nuovi
castani, lucentissimi.
Bice legge,
porta gattini a casa,
frigge le alici,
arrotola trippa e serve vino.
Bice ha 20 anni e nessun fidanzato.
È bella Bice,
ma c’ha la risacca dentro
e la risacca abbaglia
chi non la sa guardare.
Bice scrive
e quando scrive è come un ricamo
fitto fitto di parole
scrive diari, poesie, preghiere,
piange per un pino caduto.
A fine agosto Monopoli è una brace.
L’afa si addensa
filtra dai muri nei palazzi.
La sera, ghiaccio e anguria nelle ceste,
si va al mare. Ma Bice è a casa.
Chissà a cosa pensa,
se si massaggia le caviglie bianche
se gratta la nuca di Nerone
se legge a bassa voce oppure prega.
Un colpo al portone, secco, uno solo.
Un cacioricotta galeotto
e un breve messaggio.
Bice non lo dice,
ma la sua risacca si fa mare.
° ° ° ° °
Le lettere ai morti
contengono poche parole,
sono brevi
per non disturbare il loro sonno,
sono continue
per mantenere il filo del discorso.
Le lettere ai morti
cominciano con un Ciao,
non ci sono Arrivederci
né grossi drammi,
i saluti sono brevi e concisi,
i caratteri messi stretti stretti.
Perché
le lettere ai morti
hanno una trama larga
quasi trasparente,
ci sono un sacco di spazi
dove prendere respiro,
nascondere una lacrima,
spegnere una sigaretta.
° ° ° ° °
(C’era un marinaio
perito industriale
che scriveva poesie.
Amava gli aerei,
il legno, ma più di tutto
amava lei.
Ebbe due figlie
le fece studiare,
le educò da uomini.
C’è un informatico
ragioniere programmatore
che scrive poesie).
Monica Messa è nata nel 1974 a Monopoli. Ha esordito nel 2018 con Poesiole, una raccolta di poesie su vari temi, scritte nell’arco di trent’anni. Ha poi pubblicato Seppie ripiene – Poesie per poche lire (2018) e Il logorio della vita moderna (2021). A settembre 2022 ha pubblicato la plaquette /imagine: l’universo è nato dall’immaginazione, dove accanto ad alcune poesie edite propone delle immagini generate mediante l’applicazione della IA Midjourney. Ha partecipato a diversi festival. Alcune poesie sono state pubblicate in blog, riviste cartacee e on line, in antologie nazionali e internazionali e nella rubrica “La Bottega della Poesia” di Repubblica – Bari. È stata nelle redazioni delle riviste di poesia “La Vallisa” e “La Confraternita letteraria”. Alcune sue poesie sono state tradotte in albanese e in spagnolo. Cura, inoltre, un blog e una pagina Facebook.
07/03/2025 alle 08:42
Probabilmente ogni poesia incontra reazioni emotive diverse in base al tipo di sensibilita` del lettore (il tipo, non solo la quantita`) e anche al momento della giornata, o alla fase esistenziale, della fruizione. Posso quindi parlare solo per me stesso, qui e ora: la poesia di Monica Messa mi entra dentro, senza resistenze, fino allo schiaffo dell’impatto con l’acqua, come nel tuffo della foto di Paolo Zanardi.
14/03/2025 alle 10:57
Poesie che esplorano il corpo, la memoria e l’assenza con uno stile essenziale ma evocativo. Il corpo è spazio di fragilità e desiderio, mentre Bice, figura sospesa tra quotidiano e mistero, incarna un’irrequietezza silenziosa. Le Lettere ai morti restituiscono un dialogo rarefatto con l’assenza. Il filo conduttore è il non detto, il vuoto tra le parole.