Tra le terre di Sandro Pecchiari | Storie de Fausta di Claudio Grisancich
Come parlare della ricchissima produzione letteraria di Grisancich, così legata al sentire e alle sorti di Trieste nel suo più infelice periodo storico, quello che si dipana dalla presa della città da parte dell’Italia con i conseguenti guasti del fascismo, fino alla seconda guerra mondiale che in queste zone si è protratta ben all’interno degli anni cinquanta, senza sforare in un saggio debordante?
Trovo che il romanzo breve in versi, Storie de Fausta, possa ben rappresentare la summa della devastazione della vita civile e culturale di quei decenni.
Siamo affascinati da Fausta e dal suo ripercorrere la vita mentre scende la strada che la porterà da via Molino a Vento nel quartiere di San Giacomo alla Serica, negozio di tessuti di ottima qualità, in centro, ormai chiuso da decenni, per comprare il tessuto per l’abito da sposa della nipote, riluttante ad indossarne uno, in quei primi anni ’70, eredi di un ’68 da contestazione globale. Fausta Nieder, sarta ormai a riposo, donna emancipata socialmente e personalmente, non può che ricordarci la figura di Anita Pittoni, ma non esclusivamente.
Le Storie de Fausta sono le storie di molte Fauste agglutinate assieme dal “ribaltòn” (così viene definito qui il rovesciamento storico sociale ed economico di una città austriaca per più di cinquecento anni, sbalzata all’improvviso in una realtà rampante e adolescenziale di una Italia confusa dalla vittoria della guerra, dallo scontro con le diverse culture ed etnie della regione che vengono soffocate con la violenza, vietando lingue che non siano l’italiano e storpiandone i nomi d’origine, la sopravvivenza attraverso gli ipereccitati anni ’30 fino allo sfascio e alla conseguente frantumazione della città, il crollo dell’economia, la perdita dell’intera Venezia Giulia ceduta come risarcimento di guerra, l’esodo e l’emigrazione pesantissima di molta parte della popolazione. Quello che ne è rimasto è stato un ‘non luogo’ per lunghi decenni.
Che cosa ricostruisce Claudio? Ricerca un avvicendarsi di storie (con la minuscola) e Storia (con la maiuscola) che però risultano inestricabili e indistinguibili. I fatti storici sono ricostruiti e rievocati da Fausta, e sanno essere contemporaneamente precisi e random. Così come il suo linguaggio che presenta almeno due aspetti e due registri linguistici diversi: uno più formale, più strutturato nelle descrizioni e ricostruzioni di ambienti, l’altro più popolare, ma mai popolano, più spezzato, accelerato e inarcato in balia di associazioni mentali e di emozioni contrastanti che danno al monologo un senso di fretta, di apnea nell’affastellarsi dei tantissimi ricordi agganciati ai luoghi che vede. Un po’ come le ruote di memoria di Giordano Bruno che associava dati e luoghi e oggetti e ricostruiva così la realtà.
Il libro è redatto in un verseggiare libero e discorsivo, in cui l’estensione dei versi è accentuata dai frequenti ricorsi ad enjambements che ne ampliano ulteriormente la dimensione. È uno strumento metrico particolarmente confacente alla rappresentazione di un flusso di pensieri e memorie in fluida libertà in un piacevole e ammaliante ascolto.
Oltre al fluire narrativo in stile Mrs. Dalloway, io qui ravviserei la nitidezza e la spietatezza dei monologhi drammatici di Robert Browning, che da Tennyson ci porta dritti dritti a Eliot con la sua Terra Devastata, e ad Ezra Pound. Sono soliloqui zeppi di dialoghi virtuali, il personaggio è l’unico a parlare e non sempre interagisce con gli altri.
Il libro si avvale di una fedelissima versione in italiano di Claudio Chiereghin, che ne cura anche la prefazione. Esiste una versione parallela in inglese che ho tradotto assieme a Claudio, che attenderebbe una versione di stampa. Prima o poi succederà.
Se il tempo riceve uno scossone nel suo fluire e fluisce in una dimensione atemporale non è che i luoghi si salvino a loro volta; tutto è descritto in modo puntuale, ma c’è sempre uno scarto tra quello che Fausta vede e quello che ricorda, e Fausta si muove quasi sempre in quello che ricorda. I luoghi sono ormai sicuramente sostegni di memoria o innesti emotivi. E noi con lei siamo portati a confrontare continuamente quello che è stato e quando è stato con l’osservazione del presente che non si sovrappone e non combacia più.
La ricostruzione nel libro richiama le atmosfere del non luogo di Jan Morris dove Fausta sembra sovrapposta con il photoshop su un film precedente in un modo indistinguibile. Verso la fine questo scollamento diventa evidente con Fausta che si sdoppia in osservatrice di se stessa, amabilmente civettuola e sempre chic, e in colei che si chiede come potrebbe essere vista e considerata dai clienti e dalle commesse della Serica.
La forza del libro sta nell’efficacia di questo continuo osservare, osservarsi, sovrapporre la vita propria e i propri ricordi agli scorci della città e il non fermarsi mai, non soffermarsi mai, coinvolgendo il lettore in un respiro in qualche modo guidato e inarrestabile fino a trascinarlo a una conclusione che non ci si aspetta proprio.
Claudio alla fine ci fa intuire altro, capovolgendo nuovamente l’intera storia: forse non c’è mai stata Fausta, queste storie sono un monologo che c’è stato e contemporaneamente non c’è stato. Una fiaba, come iniziano le fiabe turche con la frase “c’era una volta, non c’era una volta” (bir vardı bir yoktu). Tutto questo fluire è forse il breve periodo in cui si sta per morire: si dice che in quei momenti si rilegga e riviva tutta la vita.
Ma, con l’onestà e la schiettezza che le appartengono, Fausta di questo finire non sa dirci proprio niente, mentre ci porta a questo non-dire/dirsi attraverso una inarrestabile dovizia di accadimenti.
Ad esempio l’incipit del libro mette in campo immediatamente i personaggi principali, raccontando già una storia al passato che rievoca accadimenti ancora più remoti, contemporaneamente indicando persone che ancora non conosciamo, morti e vivi, che si intersecano e interagiscono in un loop di emozioni e rilessicazioni:
come ‘desso me vedo in treno noi due quel
dodici setembre milenovecentocinquantasei
de sol de bora ciara e ‘rivadi de matina ‘pena
fora de la stazion santa lucia el canal grande
gondole motoscafi vaporeti e là la gente
che no’ iera! tempo de un cafè su la strada
nova ierimo ‘ndai verso el ponte de le guglie
e ‘pena oltre ciapà a sinistra e fati pochi passi
dentro per ‘na caleta se ierimo trovai nel gheto
vecio d’i ebrei i tanti ani che volevo vegnirghe
za de quando nel quaranta sete me se iera dito
uficialmente che gilo fersen diese ani prima
iera morto combatendo in spagna volevo andar
anche al cimitero giusto un pensier pe’i sui
che là riposava la giornada iera tanto bela che
quel giro de memorie per venezia me gaveva
messo alegria ne la tristeza ‘no diverso de cussì
gilo gaveria volesto farse ricordar me gaveva dito
mio marì amerigo la sera in treno co tornavimo
a trieste tignindome ‘na man fra le sue e in tanti
ani venticinque! de quel nostro matrimonio
se ierimo dai chissà come quel’unica volta
un baso vero su la boca
Claudio Grisancich (1939) vive a Trieste. Ha pubblicato una quindicina di titoli fra raccolte di poesie, plaquettes e ordinato l’antologia Poesia dialettale triestina (1975) e l’edizione aggiornata La poesia in dialetto a Trieste (1989).
Poeta soprattutto in dialetto, ma non esclusivamente, pubblica il volume Conchiglie – sessant’anni di poesia (1951-2011), LINT editoriale, che raccoglie l’intera sua produzione poetica in dialetto. Nel 2013 pubblica 99 Haiku metropolitani, ‘fuorilinea’ ed., Roma; nel 2014 le poesie in dialetto Album, infine in settembre del 2015 le poesie in dialetto Cafè de moka e Dediche, Hammerle ed., Trieste, la prosa in lingua La vita dentro, Ibiskos ed. Empoli e, con altri 9 autori triestini, pubblica con l’editore Bompiani il poemetto in prosa Petit poème familial nel volume Mari di Trieste dedicato ai “bagni” di mare della città.
Sue poesie, presenti in numerose antologie, sono tradotte in sloveno, inglese, francese e tedesco.
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