Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Alessandro Anil
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Contraddizione è bellezza. Bellezza è il suono di ciò che sta precipitando.
Se Baudelaire scrive nei suoi diari intimistici che un poeta ha il diritto
di contraddirsi, allora la bellezza sono i sandali di Empedocle lasciati
sulla linea vertiginosa dell’Etna, l’immagine del busto di mia nonna sorretto
da papaveri con dietro il mare, quello che il mio antenato in un gesto d’amore
volle trattenere nella foto. Che la metrica dell’arabo e il sognatore degli inferi
siano le nostre parole, che il fuoco sia già la cenere del domani e il fiume
l’immagine più fedele della vita, mentre lo slip viola, delicato, che porti
amica mia lunghegambe è l’istante in cui il desiderio si confonde con la vita,
che il nostro consumato repertorio di tutti giorni abbia bisogno di includere
l’illusione e che la realtà si possa riflettere su un’altra superficie non meno reale,
fa pensare a quanto il sogno sia lo specchio della vita e l’attimo di commozione
per una nuova esperienza, sia già il disperato tentativo di resistere
al tremendo e meraviglioso scorrere delle acque. Io il più mortale fra gli esseri,
conservo ogni tuo ricordo, queste nostre dolcezze, riservate l’uno all’altro
al mattino, non sono che le dimenticanze di un dio distratto e fuggitivo.
Torneranno vedrai, anche noi torneremo a condividere i nostri corpi
nei modi di due anonimi amanti del futuro, chissà in quale altra forma?
Forse, due civette che alla fine dell’era tecnologica si rotolano nel prato, o forse
nel dialogo fra l’ultimo sole in cima ai palazzi e quest’acqua. Dicono
che il tramonto sul mare sia sinonimo di bellezza, diffido dei giudizi dell’uomo,
eppure, vorrei essere quest’acqua, così chiara, limpida, insensibile
ai grandi mutamenti, alla metamorfosi. Se la misteriosa forma del tempo
è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione,
una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente: un nome pronunciato
in una generica conversazione in una tavolata del futuro, forse
qualche verso declamato, forse. Intanto, nello specchio d’acqua
continuano a ripetersi le nostre immagini eterne, i desideri sopravvivono,
anche le volontà si spargono come informazione, finiranno per riscrivere
sé stesse e sembra assurdo, impossibile concepire che la nostra carne
abbia la gloria dei piaceri e che il sangue non sia ancora acqua, eppure, siamo già
i morti, la memoria del domani, quel che un giorno sarà chiamato bellezza.
*
Amica mia, in questo tempo attraversato nel sogno, in questa notte interminabile
dove i nostri corpi hanno oltrepassato i limiti del sonno, ho volato in forma di falco
sopra il Gange e più sotto, la mia ombra sfrecciava sull’acqua come un altro essere.
Fra le catene del Himalaya e la foresta amazzone, fra l’ora segreta dell’occidente
e l’altra stagione della memoria, ho visto, ho guardato la popolazione
dell’uomo e della donna allevare i loro figli, e roteavo e assecondavo il vento, l’aria
e assaporavo la tentazione di essere tutto ciò che sfugge e ogni confine
era scomparso, non restavano che geologie, movimenti. Mi sono unito con il cielo
in forma di scintilla, per tornare nella terra, larva, embrione e verme, infine
animale assetato che si aggirava in una metropoli sconosciuta. Sono stato anche
un uomo. Ero tornato nella mia terra e non c’era niente che attendeva, niente
che meritava l’ascolto, soltanto una grande venere moltiplicava le solitudini
sull’asfalto, e allora, esattamente lì, Io, il più mortale degli esseri, ho riconosciuto
la vegetazione di gesti minimi e piccoli dietro al quale si nasconde ogni forma d’amore,
e mi sono svegliato per ritrovarmi ad essere un falco. Sono stato io a sognare
o un sogno sta sog nando me? I barbari riscaldavano il cibo con i raggi
del sole e l’equazione che regola l’universo, le catene della gloria, quelle più subdole
dell’operato umano, ogni cosa era lì, a portata di mano, io guardavo e non bruciavo
e guardavo. Amica mia, cosa mi ha guidato in questo sogno eterno, cosa ho inseguito?
Un volto, un atrio, poi una casa abitata, delle voci amiche e della musica, l’odore
del cibo appena sfornato e ogni volta che aprivo la porta, non c’era niente, dio mio,
niente, un altro cancello, un’altra porta e ogni volta la stessa scritta: «Morirai
invano, nell’attesa di una risposta mancata, l’ultima cosa che sentirai sarà la sete.»
*
Vorrei consultare i corpi come un dizionario, aprire le ferite
fino a trovarne le traduzioni esatte, ma è tardi, queste ombre
iniziano a ritrarsi e come attività prima, non posso che cedere
la parte appena visibile della terra, questa erba ancora umida
al tatto, poi, il fondo scuro della parola dolore, per essere vicino
alla membrana, alla sua luce, sono disposto a cedere il frammento
impenetrabile, nascosto, l’altra immagine di armonia e forza,
questa fiamma nel corpo che non si traduce in cenere
e ti chiedo se, dopotutto, è questo il mondo che pensavi?
Nessun paesaggista ha dipinto il filo verde dopo l’azzurro, il bruno,
la perdita a vista d’occhio di ogni colore, la manovalanza
delle ore buone e quelle del riposo, le cedo, oso cedere, è vero,
a malincuore, il tuo odore sulle dita il giorno dopo, il blu che precipita
sulla casa bianchissima fra Diakos e Corinto e il rossore tatuato
nel culmine d’ansia. Come vedi, cedo ogni cosa, prendete tutto,
le mie mani, il mio volto, ma come ultima cosa prendete
me, non potrei cedere altro dopo me stesso e ti chiedo, se saprai,
non ora, quando sarà tempo, cedere ogni cosa,
perché non si fermi, perché sgorghi l’acqua della nostra sete e torni
ad avviarsi quella lenta e progressiva riacquisizione di ogni cosa.
Alessandro Anil, nato nel 1990, ha vissuto in India fino a sedici anni, a Santiniketan (West Bengal), frequentando la scuola fondata dal poeta R. Tagore. Si è laureato in Filosofia e Letteratura in Inghilterra. Dal 2013 vive in Italia. Collabora con varie riviste. È stato premiato e/o segnalato da Poesiafestival, Premio Rimini per la poesia giovane, Casa della Poesia di Como, Premio Mario Luzi, Premio Camaiore, Premio città di Como. Sta traducendo Une Histoire de bleu di JeanMichel Maulpoix, una breve proposta è uscita per «Nuovi Argomenti», e i Poeti bengalesi dopo Tagore per ISAS – Institute of South Asian Studies. Ha esordito con raccolta Versante d’esilio, Minerva, 2019 (Premio Camaiore proposta, 2019, Nella terna dei finalisti del Premio città di Como). Pubblica lo stesso anno con Franca Mancinelli e Maria Grazia Calandrone, Come tradurre la neve, Animamundi. Viene inserito nell’antologia curata da Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello, Poeti nati negli anni novanta, Ladolfi, 2020. Contribuisce con Giornale di un infante saggio nella raccolta di saggi Per Mario Benedetti, edito da Mimesis. È parte integrante di vari progetti dedicati alla poesia attraverso Zeugma: Casa della poesia di Roma di cui è ideatore e socio fondatore. Milo de Angelis cura una selezione di sue poesie per la rivista «Poesia» di Crocetti, e un’altra selezione di poesie da L’acqua della nostra sete escono per Atelier, Ladolfi editore, con un’introduzione di Mario Famularo. Oltre a quella di poeta svolge l’attività di drammaturgo e regista. Il teatro si lega anche come insegnamento. Ha scritto e diretto To Celebrate the Human Glory, Dance Once, Pray Twice, The Tea Room, Human, Antigone. Fin da giovane insegna pratiche e attività teatrali sotto la guida di suo padre Abani Biswas, regista teatrale, fondatore di Theatre House, un centro di ricerca teatrale, dopo la collaborazione con Jerzy Grotowski. In seguito, si forma sia come regista che come pedagogo con il regista russo Anatolij Vassiliev. Il 2008 riceve il diploma come insegnante dell’arte marziale indiana Kalaripayattu da KESMA – Kerala School of Martial Art. Tiene corsi di teatro e dell’arte marziali Kalaripayattu in Europa e in India.
Le tre poesie che ho scelto sono tratte da un poemetto inedito di Alessandro Anil intitolato L’acqua della nostra sete. In questi testi, la metafora dell’acqua come scorrimento incessante della natura increata dell’Essere si accompagna al dialogo intimo con un referente femminile, la cosmicità del dire poetico cammina sul binario parallelo della dimensione quotidiana della vita. I continui riferimenti alle piccole cose inseguono le grandi e si ammantano di significazioni progressive mentre il dettato, partendo da un semplice casus, da un microcosmico elemento d’osservazione, dalla focalizzazione di un oggetto, di uno sguardo, di un gesto, si fa sempre più universale man mano che l’ipermetro deborda in direzione di un colloquio in rebus col sé e con l’altro da sé. Sembra quasi che Anil voglia tornare alla radice primigenia del parlare filosofico, il quale, lungi dal consistere in una dissertazione incomprensibile e astrusa che ricerca senza esito la sostanza concettuale nascosta delle strutture logiche, si profila invece, nel quieto fluire del suo discorso poetico, come una sorta di dialogo dei minimi sistemi che decifrano le massime altezze estetiche del Mondo o, per meglio dire, come una delicata anamnesi del mistero insito nella trasformazione continua del tempo e delle occasioni, in un’onnicomprensiva catarsi che conduce chi legge al sentimento sovrumano della metexis.
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