Risonanze di Massimo Parolini | Quando questa luce andrà via: Eleonora Rimolo

 

“Quest’ultimo boccone di vita è stato per me il più duro da masticare ed è pur sempre possibile ch’ io ne rimanga soffocato […]. Se non riesco ad inventare l’espediente alchimistico di trasformare anche questo fango in oro, sono perduto”, scrive Friedrich Nietzsche il giorno di Natale del 1882 in una lettera all’amico teologo Franz Overbeck. “Prossimo e remoto”, l’ultima raccolta poetica di Eleonora Rimolo (peQuod, 2022, postfazione di Milo De Angelis) è la storia di un’anima e di un corpo in sofferenza (nascere è stato/ questo amaro avere negli occhi le schegge,/ un crescere cieco senza germoglio, incolta/ natura che offende e decide tutto) che si rispecchiano nella sofferenza degli altri perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia, come ci ricorda la capra di Saba. Esso ha il volto del trauma dell’abbandono (corteccia staccata dal tronco; vittima di legno scarnificata; ferita di resina; fino allo strappo immedicabile), del nascondimento del padre (sei tu che ancora muori per un padre), della ricerca da parte di chi è gettato (geworfenheit) del riparo di una famiglia, di un centro, di una dimora, che diano stabilità: ma la dimora diviene tana, il nomadismo primitivo bussa e si fa inquietudine, valore primitivo autentico, stadio archetipico e selvatico da cui partire per la guerra, per la caccia, del proprio sé.

Stagno inospitale è una fatica/ necessaria, selvatica: è la guerra che chiama,/ la premura del riposo, l’antico riparo  a gridare oltre le cime dei tetti famiglia, legno, sonno;  bloccati nella tana/ selvatica; per due giorni il vento ha cercato l’entrata/ delle nostre tane; come un fossile/ la parola segnala il resto parziale di un organismo, / di una cosa che c’era e che c’è […] tutto quanto ti fa vivo e primitivo; il nostro è un desiderio indigeno, / uno scucirsi dall’altro subito dopo il rammendo/ della tela.

Per l’alchimia la pietra grezza, attraverso un processo di raffinazione che comportava un’elevazione contemporaneamente spirituale, diventava pietra filosofale, oro: dalla Nigredo all’Albedo, dalla Citrinitas alla Rubedo, legate alle quattro operazioni-fasi della combustione-calcinatio, dissoluzione-solutio, disseccamento-coagulatio, evaporazione-sublimatio, attraverso un processo guidato dai quattro elementi che per la psicologia analitica di Jung simboleggiano una fase della trasformazione-metamorfosi psicologica della persona, quali proiezioni della psiche del processo di crescita interiore da lui definita “individuazione”, nel cammino verso la totalità.   L’alchimia è un processo di dissoluzione e raffinazione, dicevamo, e il primo passaggio avviene dal Nigredo (morte iniziale e successiva putrefactio, inverno, regime di Saturno, angoscia, ansia, depressione, paura, caos, solitudine, trauma, alterazione, rassegnazione, in Rimolo nero abissale, legno fradicio, inabissato;  dolore conservato sottovuoto stretto/ a macerare, feto annegato nella cavità) nell’ Albedo, l’opera al bianco, prima fase di resurrezione legata alla primavera, una tappa legata all’incontro con l’archetipo dell’Anima per il maschio e dell’Animus per la femmina. L’Animus rappresenta gli aspetti maschili, concreti, pratici, reali e razionali. Si rappresenta nei sogni con la guerra, il fabbro e simbologia affine.  Ecco qualche indizio, dell’ espediente, ad inizio processo, partendo   dal  centro abbandonato del guarire:   nel miscuglio/ di liquidi vivi… oggi siamo soli con questa sostanza pura…  sono/ un solvente mediocre e ti lascio intatto/ nei pensieri disciolti. Pago il mio debito/ e ti annego nel sale; l’erba/ che rompe il cemento e infesta la pietra: sale e calcare calcificano la bocca, corrodono [… ] eliminano per sempre/ ogni foglia ostile;   corre la processione del giglio e nel cuore/ bruciano grandi preghiere di paglia. Siamo alla terza fase, la Citrinitas (consapevolezza, rasserenamento, equilibrio, impegno, stabilità, lavoro, responsabilità): la materia prende le tonalità del giallo, indica il rimanere nell’emozione, è l’incontro col Vecchio Saggio, corrispondente della figura maschile-paterna della Grande Madre (meta finale della psicologia femminile): il vecchio saggio rappresenta colui che ha conosciuto il passato, il presente e il futuro e sa districarsi dalla vischiosità dell’Anima e dal polemos dell’Animus. La nuova sostanza si ottiene per l’alchimista col processo di disseccamento, spesso con lo zolfo, giallo, colore del sole-coscienza: il movimento della coscienza e della volontà, prima confuse e annebbiate.

L’ultimo stadio, la Rubedo (gioia, pienezza, armonia, pace interiore, vitalità, amore per sé stessi e universale) nella raccolta è attesa che l’acino si gonfi e scoppi sulla faccia/ e sporchi il sorriso di vivo rosso rubino, anticipazione ( il melograno scavato dalla polpa rubina:/ adesso tutto è carestia, le grandi gocce/ scivolano in cucina), disillusione (la pelle viva viene alla luce/ con la sua verità crudissima: questi mirtilli sono soltanto pietre). Ma la Rubedo non si realizza, resta sospesa: la trasformazione della materia solida in gas, movimento dinamico della coincidenza degli opposti, incontro col Sé, punto d’arrivo della propria individuazione e guarigione, resta su una soglia che ancora non si può attraversare: anche Milo De Angelis, nella sua postfazione, parla di un archetipo di Alterazione, che non dà sbocchi, resta nel mistero, nel nascondimento.

Il mare qui è un composto semplice, arancio

liquefatto nell’atmosfera, gas che annega

e brucia tutto: questo è l’odore di un’altra

vita, cresciuta al margine di una memoria non mia,

aliena fantasia di un attimo che sposta l’asse

mutando sogni e pianeti, senza distanza.

A volte lo sento in uno svoltare di strada,

appartiene a un passante, al suo stare

in un giorno reale: forse sono tornati

davvero gli dèi e tu non senti più il vuoto

nella pancia ma profumi di miti, stagioni

immortali, eroi che travasano la superficie

nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore.

Come a dire: c’è l’evaporazione, l’ho vista, la sento possibile anche in me, ma non ora, è in una memoria di altri (Un tempo affondavo l’oro), in archetipi di inconsci collettivi, è odore di altra vita… Io continuo a ribollire, resto nel processo (la testa si chiude/ a uovo e ribolle dentro il suo nucleo di ferro), attendo che la parola poetica, per me vero alchimista, dica al corpo quanto piovere, come scavare,/ chi accogliere sulla soglia: intanto si resta pietra, minerale solido: la realtà spacca campi e cuori, apre voragini e crateri di arida rena ventosa. Il processo della Magnum Opus non si completa, riferiscono le parole di selce dello scavo di Rimolo, resta sospeso, parziale, tensione: il soggetto si riconosce maggiormente nella pietra dura che non si trasmuta e non si liquefa ma può venire scalfita e scheggiata dal dolore, cuneo di ferro che porta il distacco: 

Un tempo il taglio fu netto, l’amputazione
necessaria: contro i fulmini e gli immensi
uragani punte sottili centrano le vene dentro
altissime aurore, fumi di poltiglia ghiacciata
e plasma risalgono dalle gole, corrono a valle.
Così sento il dolore e questa mite e pura
passione spaccarsi quando nel masso prescelto
infili il cuneo di ferro battendo per mesi
fino al distacco delle schegge dal blocco e apri
cieli bianchi, vuoti nella pietra che scompare,
gradualmente, senza sospetto e senza più scopo.

Il cuore è di basalto, il corpo ossuto si fracassa sulla pietra. La difficoltà nel compimento della trasmutazione riporta talora allo stadio iniziale della Nigredo, allo scoramento e alla sfiducia: nessuno è più emerso/ dal fondale petroso dove non arriva/ luce e non c’è vegetazione ma solo/ la palude ferma, severa cavità/ di un terreno franato/ scomparso come noi siamo.

L’elevazione della testa-uovo supera lo sguardo dell’io  microcosmo/microcosmi (prima sezione) e dell’isola (hortus conclusus, eden, seconda sezione), giungendo alla consapevolezza di essere parte di un mosaico globale, universale, di quel macrocosmo (terza sezione) verso il quale si direzionò la testa e lo sguardo della filosofia, da Talete in avanti, nella ricerca di un archè, di un principio primo unificante:  questi corpi elementari che volano eterni/ dai ponti metallici sono mossi dagli urti/ e scarnificati fino alla completa dissoluzione  chi lo sa come diventa dura la pietra [… ] se di polvere o roccia sarà il suo cuore,/ umano o divino. O ancora:

Abbiamo imparato a dormire seduti
in mezzo alla gente bloccati nella tana
selvatica, a spingere per cercare l’uscita
eppure la grande corrente di ritorno
ci tira sempre verso il largo, noi dentro
mulinelli feroci risucchiati via dalla secca,
atomi nel vortice dei mondi […].

Il correlativo oggettivo macrocosmico diviene il pianeta Plutone, miscuglio di rocce, ghiaccio e polveri, il più lontano dal Sole:

Plutone

Nonostante siamo cresciuti con rabbia
e sacrificio non sembriamo che sfere
minuscole, protopianeti in cui non
si scioglie il ghiaccio e non c’è sole:
un solo timido raggio riscalda e non basta
per quelli allo zenit coperti di brina, perché
non c’è fuoco per tutti i poli durissimi,
scorze gelate che cerco di rompere
spaccando soltanto l’interno, fluido
che risale e non trova uscita, ristagna
caldo e viscoso, in continuo circolo
dentro la pancia, dal sapore ferroso.
Le forze mareali non costringono
alla sincronia, non è semplice compiere
un moto di rivoluzione: siamo montagne
millenarie con le vette di carta su cui
lasci un segno a matita, teneri inutili
corpi rigidi adagiati su una terra qualunque
senza nebbia e senza vento che non
vogliamo esplorare, che non sappiamo
stringere, baciare, che lasciamo seccare.

L’attenzione privilegiata della terza sezione della raccolta verso il Cosmo, si innesta in una lunga tradizione: dal De rerum natura di Lucrezio al leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia fino alle poesie pascoliane Vertigine, X agosto, Il bolide, alle costellazioni delle Pleiadi nelle Laudi dannunziane,  ad alcuni incisivi versi ungarettiani (basti pensare a I fiumi, Risvegli, Dannazione, solo per citarne alcuni), il cosmo,  nel suo rapporto dialettico con la natura e l’uomo, è stato oggetto, da parte delle più alte voci della poesia mondiale, di un’attenzione privilegiata e delicata: se anche la filosofia, come ricordavamo prima,  nasce dallo sguardo rivolto al cielo e alle stelle, la poesia non è da meno, e nello stupore che la fonda, nella ricerca di un archè originario che tutto unisca, fonda anch’essa il proprio logos, pensiero e linguaggio dell’essere e dell’esserci (persino nella versione materialista di ispirazione epicurea e democritea di Lucrezio). Ci si interroga sull’eternità e l’infinità dell’Universo, in rapporto al decadimento fisico del divenire naturale terrestre, cercando talora conforto in un pianto di stelle empatico (come in Pascoli), nell’inquietudine vertiginosa dell’uomo che tenta di trovare le proprie radici nel cosmo, ma teme di perdere la propria, pur caduca stabilità e precipitare in un baratro di stelle, di sprofondare in un mare d’astri, in un cupo vertice di mondi, non trovar fondo non trovar posa sparpagliato, come polline disperso, nello spazio immenso, giungendo tuttavia, in molti casi, alla disillusione (come in Leopardi) nel sospetto che, forse, la intatta giovinetta immortal Luna, sia indifferente alle sorti frali dell’umanità seguendo solamente un meccanismo fisico.

Tornando a qualche breve risonanza con “Prossimo e remoto” di Eleonora Rimolo, evidenziamo come l’assenza di liquidità (E noi sentiamo la pioggia che non viene) si distende lungo i versi e non nutre il correlativo vegetale in cui spesso si identifica la voce narrante: è come/ se non fossi mai tornata, anima, come se/ tutte le volte che ha piovuto non ti fossi/ bagnata; cardo pungente senza fiori; come questo albero piccolo/ che sta dentro una mano/ tu mi sei cresciuto dentro/ la gola [] tu distendi i rami, perdi le foglie ed io soffoco [] palato secco/ di germogli [] le radici dimenticate nel fondo [] il tronco nodoso;  Se io fossi questo rampicante  che aderisce [] ma le mie non sono/ radici, rametti che scivolano lungo questa/ divina ingratitudine: sto raccolta in terra/ come secco mucchietto velenoso. Da due anni/ non germoglia la vite;    l’albero deperisce dolcemente  tra i rami della mente 

Si rimane in attesa, comunque, di radici nuove che bevono sangue e azoto, elemento, quest’ultimo, caro a Paracelso, considerato Mercurio vivo capace di cristallizzare la pietra filosofale (potendo realizzare ogni trasmutazione) che si otterrebbe sciogliendo la spirito vitale nascosto nella materia grezza.

In una visione tipicamente rinascimentale, oltre che con le pietre e l’elemento vegetale, Rimolo si correla spesso, lungo i versi, con le specie animali: tu sei un cane randagio che un giorno/ si smarrisce dietro nuove tracce […] lanci il dado con la testa piena di voci/ che abbaiano perdite incitando all’azzardo.  […]  paghi il tuo pegno animale,/ ritorni ogni volta alla fame; un verme resistente che congela tra le foglieun bestiario aperto/ a nuove specie, col disegno dell’animale/ che sempre divento quando mi chiami/ smarrito, senza coda -mutilo del fiuto/ ma l’artiglio è sottile[…] sono un piccolo rettile senza fantasia/ capace soltanto di un graffio leggero; Il soffio dell’ape;  gambe di cerva;  il ventaglio, le clorofite/ e tutto quanto ha radice dentro il mare  un insetto atrofizzato/ leggero come una briciola.

Nella prima sezione (Microcosmi) l’io, alla ricerca del movimento di rinascita spirituale, si avvicina ai tu, ai gettati, agli ultimi: il dolore, l’immedicabile, si riflette, ci condivide, ci lega: sono versi di grande intensità che ci restituiscono un’azione concreta, della poetessa, quello del volontariato attivo verso i senza dimora:

Se l’uomo coi suoi stracci incosciente
al sole d’agosto rimane immobile
col bacino esposto – due spade piegate
dal sole e uno straccio sul pube –
un cristo vissuto di paure e pochi
miracoli è perché i suoi chiodi
sono piantati al centro del petto
e sulle mani non vedi che squame
e piccole ferite inconsistenti:
non bastano a fermare gli impulsi
elettrici, a diventare un detrito
spaziale, non è così che si muore
solo quando si vuole. Questo
è il martirio cocente: non essere
ascoltati dal cielo, sentire il sangue
avvelenato e non riuscire a fermarlo,
provare e fallire a stanare il corpo
come se ci fosse un ladro dentro la casa
asettica, scavata, da anni abbandonata.

*

22 gennaio 2018

Da giorni il freddo piega le gambe, frantuma
le ginocchia, spezza i legamenti mentre le correnti
mi scavano la faccia: questa è una coperta,
sotto c’è una forma ruvida simile appena
ad un verme resistente che congela tra le foglie.
Per questo non divento neanche pallido,
il sangue non fluisce: è una culla questa carta
asciutta trapunta di macchie incolori
e tra i denti germoglia una colla
che non lascia gridare, ottura le orecchie,
risale agli occhi attraverso le guance
e copre l’azzurro delle sirene, il loro lamento
stonato, il ghiaccio graffiato dai freni sull’asfalto.

 La poetessa si è impegnata verso gli ultimi, seguendo le vicende dei “residenti” in via Modesta Valenti: indirizzo fittizio che allude ai senza dimora che,   a Roma,  per avere l’iscrizione anagrafica, possono chiedere ai servizi  sociali in modo da beneficiare, fra l’altro, dell’ assistenza sociale, del rilascio dei documenti, dell’iscrizione alle liste di collocamento, dell’assegnazione di prestazioni economiche, della richiesta di cittadinanza,  dell’ alloggio popolare, dell’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. Servizi pregevoli nati  dal senso di colpo della società rispetto a un detrito spaziale, ad uno dei tanti grovigli di carne che invocano pietà che occupano i nostri transiti-non luoghi cittadini: Modesta Valenti, triestina, era una senza dimora morta senza essere soccorsa, per via delle sue condizioni igieniche, dalle ambulanze giunte sul luogo, alla stazione Termini di Roma, la mattina del 31 gennaio del 1983, dopo una notte passata al freddo, vicino al binario 1.

Ecco che l’essere gettati su un marciapiede si collega all’essere gettati sulla terra e infine all’essere gettati nell’universo, luogo di forze fisiche di attrazione e repulsione, Dilatati dentro un tempo… accovacciato a volte dentro granuli/ sordi, a volte disteso – un linoleum/ poco pulito, esseri così piccoli e così vecchi, noi/ troppo vicini dentro scatole colorate/ sappiamo sperare nella collisione finale,/ nello scontro rumoroso della materia gigante/ con un corpo solo che non contiene/ ma respinge e deflagra sporcando tutto. Emerge una disperata tensione apocalittica, il rischio (della speranza) di una palingenesi per deflagrazione che, anche se non prodotto svevianamente dall’ordigno tecnologico,  riporta la terra allo stadio di nebulosa errante: il dolore per l’io e per l’altro, senza completamento del processo di trasmutazione e rinascita, possono condurre allo scenario distruttivo-autodistruttivo, perché  servono/ anni di orrore e di ricostruzione, carezze/ e riposo per assorbire il trauma, ma l’io può non farcela e dopo la ferita arriva l’azzeramento/ del dolore, la pelle viva viene alla luce/ con la sua verità crudissima.

Tuttavia, nel reboriano carro vuoto sul binario morto, ogni tanto sguinzaglia l’eterno:  Come freccia senza bersaglio […] che non conclude mai la sua discesa ma vive alta/ nel sogno della durata: è difficile dire quando/ questa luce andrà via. E se la citazione finale rinvia a  Qohélet- Ecclesiaste “Tutto è vuoto niente    / Tanto soffrire d’uomo sotto il sole/ che cosa vale? / Venire andare di generazioni/ e la terra che dura”, sentiamo maggiore risonanza con l’ultima poesia della raccolta, dove il sogno di una propria famiglia diviene sogno di un universo ordinato, amante, attraente, gravido di vita, fertile di dono:  
 

L’ho sognata più volte questa famiglia
come sogno i pianeti disposti in fila
in un ordine perfetto, impossibile:
la congiunzione naturale, fatale
delle lune e degli anelli nel tempo
instabile dell’infinito. La scelta
singola di un’attrazione, la gravitazione
dei sentimenti e dei pianti, dei godimenti
intrecciati con un fiocco di stelle
luminosissime, che nessun buco nero
potrebbe mai spegnere. L’ho vista
nei telescopi degli altri, nelle immagini
colorate o sfocate dei satelliti e ho
misurato ogni singolo cratere inciso
dagli asteroidi di passaggio, inevitabili.
L’unica certezza dell’essere vivi
è questo amore che moltiplica e non
divide, che desidera e agisce e crea
in questo anno luce dell’esistere
come alieni per tutti gli altri
ma non per noi, anime immacolate
vorticanti nel cerchio isterico dei giorni.
Credo nel ventre che si gonfia, voglio
essere madre anch’io di ogni singolo
figlio generato da un singolo seme
ed è questo l’unico dio che venero
e che prego quando la solitudine
stringe il cuore, modifica il suo
assetto, la sua rotazione pulsante.

L’unica certezza dell’essere vivi, di quella vita che spesso non sta alla catena e non abita nessuna creatura, è amare, atto che moltiplica e unisce, scintilla sacra del nostro appartenerci:  di questo collante dobbiamo diventare gravidi,  padri e madri della grande (e dolorante) opera dell’esserci.


 

Eleonora Rimolo (Salerno, 1991) è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. In poesia ha pubblicato: La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva) e La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018 – Premio Achille Marazza, Premio “I poeti di vent’anni. Premio Pordenonelegge Poesia”, Premio Minturnae). Con Giovanni Ibello ha curato “Abitare la parola. Poeti nati negli anni ’90” (Ladolfi 2019). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio “Ossi di seppia” (Taggia, 2017) e il Primo Premio Poesia “Città di Conza” (Conza, 2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier. È Direttore delle collane di poesia Letture Meridiane ed Aeclanum per la Delta3 edizioni.