Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | L’ira notturna di Penelope di Antonella Sica, nota di lettura

 

Con il corpus poetico in commento, Antonella Sica, attingendo ad un immaginario che eleva a correlativi oggettivi gli archetipi del mito, sviluppa, per il tramite d’un fil rouge che lega i topics rinvenibili nella linea diegetica, la sua peculiare ontologia dell’essere-donna. La Nostra, dunque, consegna al lettore una poetica fortemente declinata al femminile, non tanto o comunque non solo per agitare in forma rivendicativa la vexata quaestio del dominio del maschile sul mondo, quanto per invenire i tratti costitutivi di un’identità, appunto femminile, di cui fare cognitio ex se, al di là, quindi, della retorica giustapposizione uomo-donna.

Certo, nella prima sezione dell’opera, titolata <<L’ira notturna di Penelope>>, la Sica non cela il suo velato J’accuse nei confronti d’un sistema di pensiero che ancora oggi avalla il ruolo subalterno della donna (cfr. p. 35, <<ho vissuto già / cinquanta giorni da pecora / ruggendo come un leone>>). Ma la nota di biasimo, nell’intentio dell’autrice, è funzionale all’acquisizione d’una consapevolezza da cui solo può principiare ogni forma di affrancamento e, quindi, di recuperabile libertà. È quanto si evince dalla lirica incipitaria di p. 2 che dà il titolo all’opera, ove <<l’ira>> scaturisce dalla percezione di avere addosso un habitus che si riconosce posticcio, non proprio, ma di cui la poetessa è consegnataria avendolo ricevuto – quasi in dote – da <<mia madre, (…) mia nonna>> (cfr. ibidem), id est per traditio, a guisa di <<Pelle su pelle cucita / troppo stretta ai fianchi / (…) / che vive la mia vita>> (cfr. ibidem); habitus da disfare <<Ogni giorno con pazienza>> (cfr. ibidem), da scucire quotidie punto per punto.

Le costrittive convenzioni sociali che sostanziano l’habitus di cui s’è detto, e che hanno voluto (vogliono?) la donna quale <<fille rangée>> di beauvoiriana memoria, sono altresì rinvenibili nella lirica <<Fame>> di p. 5, ove si legge <<Ho lasciato sempre / qualcosa nel piatto / pur avendo ancora fame>>, quasi a porre en relief l’austerità di un’educazione volta ad uno sterile perbenismo, ad una moderazione, ad un’astinenza (anche da quel quid lasciato nel piatto), che si davano (si danno?) come atteggiamenti espressivi del ritegno femminile.

Ebbene, alla dimensione statica della compostezza, dell’ordine morale cui si s’è fatta menzione, la Sica oppone il dinamismo – e quindi il vitalismo – del suo incoercibile desiderio di <<correre / scomposta nei prati>> (cfr. ibidem), di violare i precetti d’una maniera anacronistica. (Cfr., a fortiori, p. 11, <<La porta>> ove il vento svolge la funzione di evèrtere l’ordine).

Se l’ontologia della donna non è riducibile – sempre stando a de Beauvoir – a deuxième sexe, ad entità a vario titolo sub-ordinata al maschile, allora il cd. sesso debole deve farsi forte; maturare cioè il convincimento che il suo stare-al-mondo è legittimato dal proprio in se, dal mero fatto di essere e di amarsi, e non dalla dipendenza, anche affettiva, dall’uomo.

Il tema cui s’è fatto cenno sembra rinvenirsi nella lirica <<Eco>> di p. 6, in cui la poetessa afferma che <<Non è amore / il batticuore del tuo cuore / affamato dal vuoto d’amore (…) Non è amore la questione / di vita o di morte del cuore / se l’amato distoglie lo sguardo / dal tuo sguardo che si spegne / senza l’altro>>, a voler dire, appunto, che l’essere-donna deve prescindere dal riconoscimento che può esprimere o meno l’alterità maschile; fino a quando lo sviamento dello sguardo dell’amato, la sua absentia, costituirà per la donna questione capitale, la stessa sarà sempre etero-diretta, emotivamente in vinculis e pertanto mai autonoma.

L’emancipazione del femminile, qui intesa nel senso di liberazione da cliché tradizionali, quali ad esempio l’essere donna di casa, è topic rinvenibile nei versi di <<La stanza>> (cfr. p. 7).

Il titolo evoca, anche a livello etimologico, il topos dello stare fermi; una stanzialità, appunto, che induce l’io-lirico agli intimismi crepuscolari propri d’un vissuto confinato nella dimensione deontica del <<dovere della stanza>> (cfr. ibidem), negli affaccendamenti domestici d’un ménage che, se eletto ad esclusivo modus vivendi, finisce per ridurre il campo visivo (<<non vedrai il tramonto>>; <<corta / sarà la vista>>, cfr. ibidem), così impedendo all’io – sottratto al mondo – di attuarsi pienamente.

In altri termini, il femminile della Sica, come si legge in <<Bianca uniforme>> (cfr. p. 8) nonché in <<Selene>> (cfr. p. 9), si scosta dalla visione della donna quale satellite dell’alterità maschile; la Nostra non vuol più illuminarsi <<di luce riflessa>> (cfr. p. 8 cit.), non vuol essere più una lontana <<Salomè impietrita fra i veli / (…) / fuori dall’orbita d’ogni carezza>> (cfr. p. 9 cit.); vuole spendersi al mondo, esperirsi, uscire dalla stasi per guadagnare spazi di henosis e koinonia. (Cfr., ad abundantiam, il desiderio di lasciarsi essere <<ciò che [si] è>> di cui alla lirica <<Dissoluzione n. 2>> di p. 13, indicativo della volontà di abbandono dell’autrice al fluire eracliteo, d’una disposizione a farsi vivere, a farsi – per così dire – consumare dall’esistere, anche uscendo dalla propria comfort zone, senza <<proteggersi dalla vita>> – cfr. p. 36).

Non si vuol certo dire, data la complementarietà tra i sessi, che l’io-lirico dell’autrice non si confronti con l’uomo; anzi, la silloge, specie nella seconda sezione <<Corda>> (il cui etimo richiama cor, cordis), pone in dominante l’aspetto dialogico che connota – o dovrebbe connotare – il rapporto amoroso.

Un amore che, in prima battuta, la Nostra definisce <<solo un segno / posto troppo in alto / per le mani>> (cfr. p. 16), mai compiutamente afferrabile, generativo d’un <<comune dolore d’essere>> (cfr. ibidem), d’un mal de vivre metaforizzato mediante l’immaginario, dalle suggestioni Montaliane, della <<periferia abbandonata, arsa / da cemento e sterpaglie>> (cfr. ibidem); un amore che, tuttavia, in qualche modo, si deve pur vivere, senza lasciar trascorrere le occasioni che lo rendono possibile, cogliendole dunque, poiché, ad es., il <<bacio non dato>> (cfr. p. 17) diviene diminutio, perdita non risarcibile, destinata a vanire nello <<scolorar del sembiante>> leopardiano (cfr. p. 17 cit., <<scolora il bacio non dato>>).

La Sica, in altri termini, invita a lasciarsi consumare – prima che dalla morte – dalla vita. È quanto emerge nella lirica di p. 18, dove gli imperativi <<Mangiami sennò mi mangia il tempo>> e <<spolpa anche le ossa>> (evocativi di quelli valdughiani che si leggono in Medicamenta: <<Vieni, entra e coglimi, saggiami provami>> e più in là <<addentami>>, <<divorami>>) sono rivolti ad un tu-amato da cui l’autrice intende essere assimilata e a cui quasi si offre come pasto, nell’ottica d’una relazionalità autentica, id est più corporale che verbale.

Il corpo, anche silente, diviene il vero medium tra le alterità; l’amore va fatto; <<far l’amore>> (cfr. p. 19, vv. 1 e 7) vuol dire sottrarsi al freddo esistenziale, alla vecchiaia dello sguardo, alla pulvis della morte (cfr., a fortiori, p. 20, <<Quando l’amore diventa / polvere addosso>>).È appena il caso di chiarire che l’amore, per la Nostra, non è mero costrutto mentale, non pertiene al platonico mondo delle idee; la gnosis dello stesso non avviene per epistème o doxa, ma per il tramite di un’esperienza che elegge il nomen dell’amato ed il locus della compresenza a caratteri costitutivi del rapporto amoroso.

Quanto sopra esposto trova conferma nella lirica di p. 24 ove si legge <<Da quando ti amo / non esiste più l’amore / ma solo il tuo nome / e un posto dove siamo>>: nomen e locus di cui s’è detto.

È il trasalire <<al calore / della carne senza parole>> (cfr. p. 26), lo stare <<occhi negli occhi>> (cfr. p. 29) che rende presenti l’uno all’altra e che davvero attualizza il sentimento; pur sempre, certo, nel rispetto d’una <<distanza>> (cfr. p. 29), atta a preservare la dualità, quella zona di rispetto funzionale a scongiurare il rischio d’una morbosa simbiosi, affinché la corda-cuore batta nel petto senza asservire tanto l’uno quanto l’altra.

In <<Nessuna>>, lirica di p. 33 (relativa all’omonima terza sezione), l’autrice, parafrasando Pirandello, prende atto di non poter essere <<Una>> (cfr. ibidem) ma <<cento>> (cfr. ibidem); cerca, senza trovarlo, un nexus tra le persone-maschere del pluralismo identitario che la abita, fino a percepirsi <<Nessuna>> (cfr. ibidem) <<dissolta e muta>> (cfr. ibidem), quasi atomizzata in un divenire insuscettibile di ipostatizzarla; ma proprio per questo non più tormentata, <<felicemente>> (cfr. ibidem) affrancata dalla necessita di definirsi, di riconoscersi in un unico paradigma ontologico.

Tale difficoltà definitoria o di giudizio, volta a giungere – ma invano – alla verità oggettiva delle cose, si rinviene altresì nei versi di p. 34, ove <<il nocciolo / della questione>> (cfr. ibidem), la res controversa sottoposta al vaglio della ragione, restano allo stadio di res dubia, tanto da indurre l’io-lirico alla scepsi, allo stallo cognitivo (cfr. ibidem <<ma alla fine niente / Opinioni nessuna. / Chiedo Venia. Scusa.>>

Ad ogni modo, l’indecifrabilità del vivere, per quanto percepita e sofferta, non ha impedito alla poetessa di maturare negli anni uno sguardo più sereno sul mondo; lo si legge nella lirica di pp. 38-39, <<Le finestre>>, in cui la Nostra, effettuando una ricapitolazione, una sorta di redde rationem del proprio vissuto, principia dallo sguardo <<spezzato>> (cfr. p. 38) e dunque ridotto di quand’era bambina, per giungere a quello <<di oggi>> (cfr. p. 39) che si apre sulla fuga del mare (cfr. p. 39).

La quarta e la quinta sezione dell’opera (rispettivamente <<Transitorio porto sicuro>> e <<La vita semplice delle ombre>>) possono essere trattate congiuntamente per la ricorrenza, in esse, di oggetti tematici che ruotano attorno: a) alla funzione pedagogica del dolore (cfr. p. 43, <<La ferita è un occhio / sulla vita (…) La ferita / è un padre che ti segue / lasciandoti cadere>>); b) al rapporto materno volto a <<non lasciare impronte da seguire a mio figlio>> (cfr. p. 45), per fare in modo che lo stesso percorra le proprie strade senza essere condizionato dal cammino tracciato dalla madre, avendo il << coraggio di percorrerle / senza una meta>> (cfr. p. 46) o meglio, avendo a mente che la meta è già immanente nel viaggio (cfr. p. 53, <<Non c’è terra mai / ma il viaggio>>); c) alla percezione della vanità delle cose, della <<lunga condanna / al desiderio di felicità>> (cfr. p. 55), del transito esistenziale che conduce all’assenza di sé (cfr. p. 66, <<Quando sarò andata via / dovranno occuparsi / della mia assenza (…) getteranno i libri / e le fotografie senza più memoria>>.

Nell’ultima sezione, la quinta, titolata <<Poetica>>, l’autrice partecipa al lettore la propria concezione sull’ars di comporre in versi, ponendo in evidenza che le parole poetiche devono essere – per così dire – partorite dalla carne (cfr. p. 68, <<Estraggo parole dalla carne>>), cioè patite, realmente vissute <<nelle viscere>> (cfr. ibidem) o <<nella luce e nel buio del vissuto>> (cfr. p. 69).

Ogni poeta autentico dovrebbe far proprio l’insegnamento che la valente e consapevole Antonella Sica ci consegna: <<(…) non posso dar voce / a un dolore che non conosco: / per pudore, per rispetto / per non trovare un giorno in mezzo al petto, / un mazzo di fiori di plastica rossi / né vivi né morti>>.

 

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Antonella Sica, laureata in Lettere Moderne, è regista e manager culturale in ambito cinematografico. Ha fondato e diretto il Genova Film Festival e realizzato audiovisivi più volte premiati.  Nel 2016 pubblica con Prospero Editore Fragile al mondo, la sua prima raccolta di poesie. Nel 2017 vince il Premio Internazionale di Poesia “Città di Milano” con la silloge La memoria nel corpo, pubblicata da Rayuela Edizioni. Nel 2019 con L’ira notturna di Penelope, pubblicato da Prospero editore nel 2022, vince il Premio come Miglior Silloge al XX° Premio di Scrittura Femminile “Il Paese delle donne”.