Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su <<La macchina del tempo>> di Raffaele Floris (Puntoacapo, 2022)
Il corpus lirico in esame è ascrivibile a quella corrente neo-metrica che ha fatto del repêchage delle forme chiuse la sua cifra stilistica.
Ne sono prova sia le misure versali adottate – endecasillabiche – sia le partizioni strofiche dei componimenti strutturati in quartine (eccezion fatta per alcune liriche a strofe unica).
Quella di Floris è dunque silloge che fa della densità degli ictus il suo ductus prosodico, che, associato agli insistiti ritorni fonici in clausola, restituisce al lettore una melopea classicheggiante (cfr. p. 51, <<Hai celebrato aprile tante volte / con ago e filo, e viole nel bicchiere, / scalogno e funghi secchi sul tagliere. / Ormai ci sono lampade sepolte>>) amplificata da accorgimenti sonori – onomatopee, allitterazioni, rime al mezzo – da fonosimbolismo pascoliano (cfr., a titolo esemplificativo, p. 26, ove si legge: <<Accendi una scintilla inaspettata: / non sia luce sfocata ma favilla / d’oro, una stilla. L’ombra che mi assale / induce al tedio, viaggia sul crinale>>).
Tuttavia, la quadratura delle strutture strofiche, il loro schema spesso chiastico (alternato o incrociato che sia), non scade mai ad eloquio cantilenante; e ciò per il tramite di artifici prosodici che, pur mantenendo le marcature sonore in clausola, disarticolano le unità sintattiche per effetto di enjambement che contribuiscono a smorzare i ritorni fonici, nella specie di fatto anticipandoli rispetto alla naturale terminazione del verso e così confondendoli e attenuandoli all’interno del corpo testuale (cfr. p. 69:
<Vedrai: la ciminiera che si staglia
nel cielo, quasi fosse ancora al centro
di tutto, ha rinunciato alla battaglia
perché lo sa di essere morta dentro
ebbene, nel caso di specie, e in molti altri, ci si accorge che il dettato formale – come detto per l’utilizzo dello scavalcamento o inarcatura – non corrisponde all’eloquio orale che, a seguire le unità sintattiche, suonerebbe così:
Vedrai: la ciminiera che si staglia nel cielo
quasi fosse ancora al centro di tutto
ha rinunciato alla battaglia
perché lo sa di essere morta dentro
Ci si accorge come, prescissa la forma, nella sostanza le rime si alternino sia in clausola che all’interno dei versi e ciò – per la perizia stilistica che dimostra Floris – a beneficio d’una pronuncia meno battente a livello sonoro).
A tale scelta formale Floris associa, in termini contenutistici o semantici, un crepuscolarismo di ritorno; sia nei toni che ricordano il corazziniano puer piangente (cfr. p. 47, <<non resterà più niente / di noi, sciame perduto d’invisibili>>) sia nelle atmosfere umbratili e soporifere che dominano il mood della raccolta (cfr. p. 39, <<Il chiarore / del giorno è una lucerna sotto il moggio>> qui recuperando in negativo la parabola della lampada che si legge nei sinottici), sia nell’immaginario del melanconico sfiorire e vanificarsi d’ogni vissuto (cfr. p. 39 cit., <<nel morire delle cose>>) che il poeta assume sempre quale anticamera terrena del nulla (cfr. p. 28, <<Sul crinale / del nulla (…)>>).
L’Autore fa propria la filosofia ateleologica della storia, fondata cioè sulla negazione della finalità dell’esistente (cfr. p. 39 cit., <<non c’è nessuna traccia sul cammino, / nessuna meta>>), di un vivere che La macchina del tempo fagocita senza possibile restituzione.
Nella lirica di p. 51, (<<Ormai ci sono lampade sepolte / nei giorni che rovinano>>) il rafforzamento dell’avverbio ora è volto a rendere, con sfumatura di rimpianto, la definitività di un temp perdu la cui recherche si palesa vana e confinata alla mestizia del ricordo.
Trattasi qui di quelle proustiane intermittences du coeur occasionate dalla memoria alogica dell’io-lirico, da quella transeunte sensazione che gli permette di rivivere il passato, di ri-sentirlo nel suo clima originario, per il tramite di improvvise epifanie mnesiche che, risalendo dalle regioni anche inconsce della psiche, ri-affiorano, si ri-attualizzano, magari per il semplice ritorno d’un odore (cfr. p. 58, <<Ma quel profumo ancora mi accompagna / di pesche sulla stuoia e rosmarino, / del mosto che fermenta e si fa vino. / E incenso nelle chiese di campagna.>>).
I vissuti in absentia, il tedio, l’assalto predatorio del tempo che avanzando riduce quello che residua, il senso di smarrimento e d’incompiutezza sono costanti dell’opera.
Forse è a tale labilità o evanescenza esistenziale che Floris risponde contrapponendo la sua forma; quasi essa potesse in qualche modo raccogliere la temporalità, evitare la sua dispersione.
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Raffaele Floris è nato a Pontecurone nel 1962, ove vive tutt’ora. Sue poesie sono apparse nella rivista La Clessidra, nell’antologia Poesia Alessandrina (Joker, Novi L., 1999) e nell’antologia della Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo, Pasturana, 2012), ne L’antologia della poesia in provincia di Alessandria (ivi, 2014) e in riviste on-line come Larecherche.it, ladimoradellosguardo.it, alfredorienzi.wordpress.com. Dal 2013 è membro della giuria del concorso <<G. Gozzano-A.Monti>> di Terzo (AL). Recentissima è invece la sua collaborazione con L’International Web Post con le rubriche Proposte di lettura e Rileggendo Poesia. Ha pubblicato: Il tempo è slavina (Lo Faro, Roma, 1991); L’ultima chiusa (Joker, Novi L., 2007); La croce di malta (romanzo breve, puntoacapo, Pasturana, 2013); L’òm, l’asi e ‘r puloù (detti, proverbi e filastrocche in dialetto pontecuronese, con cenni di grammatica, PiM, 2016); Mattoni a vista (Puntoacapo, Pasturana, 2017); Senza margini d’azzurro (ivi, 2019).
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