Sogni di Emanuela Rambaldi | Cinque. Prologo: l’arrivo

 

Eccomi qui. Di fronte al mare, finalmente.
Ti chiederai cosa faccio, tutto il giorno, ora che sono qui.
Dormo molto. Sto alla finestra. Guardo il mare, gli ultimi turisti che si attardano cercando di prolungare l’estate, strappando prezzi migliori.
Un caldo tenue, che invita all’indolenza.
Non è più la riviera chiassosa, luminosa, sempre sveglia, sempre pronta.
Non c’è un altro posto così, in tutto il mondo. Si potrà dire questo di tutti i luoghi?
Se ne vanno, i turisti, dopo la grande estate. Dopo l’ubriacatura. Le luci sempre accese. Le voci sempre urlate. A malincuore. Non ancora il freddo. Non ancora.
Ogni giorno le occhiaie diventano più profonde. Ogni giorno un po’ di più il corpo si decompone. Il volto si avvizzisce. La mente si frantuma.
Eccola. La fine, così temuta, così nota, sempre inattesa.
L’inizio del lungo buio.
Eccola. La fine di questa finzione – breve e disperata. Neppure il suo ricordo ci riscalderà.
Canzoni dal sapore di un addio accompagnano questo languore. Qualcuno fischietta solitario.
Non è più necessario, ora, chiedere una stanza sul retro. Chiudono, gli stabilimenti balneari. Un allegro campo di battaglia che viene smobilitato, smontato, pezzo per pezzo. La prospettiva di un riposo che è un po’ come un letargo, per chi per tutta l’estate ha corso e soccorso chi cercava di porre delle distanze tra sé e la realtà. Chi cercava una sospensione dalla vita.
Ma la vita, non ti abbandona mai, neppure in vacanza. Lo sappiamo bene, noi.
Osservo gli ultimi clienti dei bar sulla spiaggia. Aperitivi rassegnati. Eppure, a volte mi pare traspaia un guizzo dal loro sguardo, e che la malinconia fugace si trasformi in un barlume di ribellione, una volontà che si divincoli alla regola del ritorno.
Ma che si rassegnino. Qui si chiude.
Tra poco rimarremo solo noi.
Noi chi.
Ancora non so.

Chi giunge qui, ora, lo fa per cercare di dimenticarsi. Giorno per giorno. Con pazienza. Notte dopo notte.
Lo so cosa pensi. Se ci sarà un punto da cui ricominciare – sarà di fronte al mare. Ce lo siamo detti tante volte.
Arriva un momento in cui non si corrisponde più a se stessi.
Non con l’immagine allo specchio. Non con quella passata – e quella futura, semplicemente non è.
Un momento in cui non abbiamo più nulla a che fare con le nostre maschere.

Ieri mi sono accorta degli alberi. Le foglie a terra hanno invaso il viale.
Prima ho pensato ad una malattia. Poi ho pensato all’autunno. Ma forse anche l’autunno è una malattia.

L’albergo è un anonimo ampio edificio bianco, probabilmente costruito negli anni settanta – secolo scorso. Un giardino curato. Camere spaziose, bagni puliti. Alla sua scarsa personalità fa da contrappeso una magnifica posizione.
E poi, soprattutto, c’è la terrazza. E’ ampia e provvista di colorate sedie a sdraio. Da lì si può vedere tutta la costa, a perdita d’occhio, abbracciare con lo sguardo tutta la baia, così ampia e dolce. E nei giorni limpidi, in lontananza, le linee precise degli edifici a ridosso del mare e persino le ombre raddoppiate delle colline.
La prima volta che sono salita, dall’emozione mi è mancato il respiro. Era una mattina cristallina, il sole tiepido di settembre sembrava potesse durare per sempre. Mi sono appoggiata alla ringhiera. Sono rimasta ad osservare il mare, sperando che mi fosse dato in dono di finire lì.
Ma non è successo, ovviamente. E all’improvviso ho sentito una voce dietro di me.
– Non si lasci ingannare dal sole.
E ovviamente mi sono voltata.
Era un uomo elegante, con un cardigan beige su una camicia azzurra. Il volto abbronzato. Mi ha teso la mano. Robert.
E lì, io, invece di presentarmi, buongiorno, Giselle, ho trattenuto la mano e detto una cosa senza senso.
– La vostra camicia.
– Cosa?
– Così azzurra.
Il suo sguardo, anch’esso azzurro, non si è scomposto, non si è chiesto cosa stessi dicendo. Evidentemente, non aveva l’attitudine a reagire con sorpresa ad un discorso senza senso.
Così ho continuato.
– Mi ricorda uno scrittore famoso, ritratto in una fotografia con una camicia azzurra, dietro di lui il deserto, e un cielo senza nuvole. Lui, così bello, l’espressione noncurante del tempo che passa. Il viso un po’ inclinato verso l’alto, segnato dalle rughe. E un abbozzo di sorriso.
– Non c’è merito nella bellezza, mi ha detto Robert, ed è venuto accanto a me, appoggiandosi anche lui alla ringhiera.
E io allora, in un sussurro, ho pronunciato il mio nome. E ho a mia volta allungato la mano. Come in una recita dove gli attori non sanno andare a tempo.
Lui mi ha sorriso. Poi ha guardato il mare.
– Ditemi qualcosa di voi, così, per fare conoscenza.
– Niente è come sembra.
Non avrei potuto trovare frase più patetica. Però ero stata brava. L’avevo fatta seguire da una di quelle risate, che tu conosci bene.
– Sono d’accordo.
– E arriva un momento in cui diventa impossibile fingere la normalità.
– Non è detto, però, che quel momento, arrivi per tutti.
Ha sorriso. Mi aveva seguito, quel pazzo, in quel mio delirio. Mi sentivo come in preda ad un’allucinazione. Avrei voluto abbracciarlo, mi sembrava di aver trovato l’anima gemella. Incredibilmente, per una volta, sono stata saggia. Per fortuna non l’ho fatto.
I nervi, a volte, sembrano esplodere. Nessun confine tra la gioia e la follia. A volte si vorrebbe piangere o fuggire. Ma gli occhi e il tempo non lo permettono più. Chissà se in quel sorriso c’era sorpresa – simpatia – rimpianto – tenerezza – o semplicemente compassione.
Mi ha raccontato alcune cose, poi, Robert. Non troppe, perché non è incline alla conversazione. Sono in previsione altri arrivi. Ruth, ex insegnante di liceo. Marcel, non si sa bene cosa.

E’ ingiusto che gli odori dell’autunno assomiglino così tanto a quelli della primavera. E’ lo stesso inganno che – a volte – rende simile la malattia alla sanità – la morte alla vita.

Cala, a poco a poco, la luce. Cala il silenzio.

Mettiamola così. Ho superato il senso del ridicolo.
Quando accade? Quando oltrepassiamo per sempre la linea del giudizio altrui. Non è detto che siamo salvi. Ma è già qualcosa.

Caro Michel, mi manchi. Ma mentre lo scrivo, penso che non sia giusto dirtelo. Questa necessità di essere sinceri, di svuotarsi, di buttare addosso a qualcun altro i nostri dolori, le nostre paure, le nostre colpe, tipica di un’educazione che ho ripudiato tanto tempo fa, mi tende delle trappole che riconosco solo a posteriori.

Caro Michel, quindi, non mi manchi. Perché sei sempre con me. Qualsiasi cosa accada.

Giselle

 

***continua***