Sogni di Emanuela Rambaldi | Nove. La versione dei vivi (seconda parte)

 

E’ necessaria una giornata di sole abbagliante perché Giselle dica dell’amore perduto di Julie.
L’aveva saputo da Christine, che gestisce l’albergo in assenza di Monsieur “x”. Lo chiamano così perché Christine sembra usare per lui ogni volta un nome diverso, addirittura un soprannome. A loro non interessa granché sapere come si chiami veramente il padrone dell’albergo e hanno cominciato anche a giocarci un po’.
Sviluppano questa propensione per i giochi in maniera del tutto inaspettata. Quando hanno bisogno di leggerezza, abbandonano i sogni per questo nuovo passatempo.

– Per un po’ l’avevo tenuto segreto. Era una cosa terribile e non mi andava di parlarne. Poi, quel giorno il tempo era brutto ed ero così infastidita che mi è letteralmente scappato di bocca. Mi sono pentita subito. Un secondo dopo averlo detto avrei voluto fuggire, scomparire. Di colpo vi siete voltati tutti a guardarmi. Ruth, che aveva appena finito di raccontare il suo sogno, aveva la bocca mezza aperta, come in procinto di chiedere qualcosa, ma ha taciuto. Tutti l’avete fatto, per fortuna.
Poi c’era stato il sogno ad occhi aperti di Marcel, che ci aveva lasciato quella malinconia avvolgente che appartiene alle ultime cose e mi era parso persino possibile che ce ne dimenticassimo.
Però, tutte le volte che ci ritrovavamo insieme, sentivo il fantasma delle vostre domande svolazzarmi intorno, alitarmi sulla nuca, sfiorarmi i capelli. Cosa è accaduto a Julie. Cosa è accaduto al suo amore.

Julie era arrivata alcuni giorni dopo di loro.
Pallida, magrissima. I lunghi capelli neri legati con l’elastico. Il volto diafano, come certi cieli invernali. Di quelle bellezze innate e profonde e completamente incuranti, inconsapevoli di se stesse, che non necessitano di nulla. Qualcuno pensa che sia uno spreco, un dono simile e nessuna idea di cosa farsene, nasconderlo al mondo invece di esibirlo Altri che sia vagamente snob e leggermente irritante. Altri che dietro a tanta bellezza non si possa che celare l’ipocrisia di non saperla riconoscere.
Loro non avevano pensato a nulla, vedendola. Era apparsa.
Si era presentata. Aveva sorriso in un modo che assomigliava ad un vento forte, ma benevolo, che induce all’arrendevolezza, all’abbandono.
L’avevano guardata, incantati. E si erano lasciati trasportare.
Durante la mattinata scompariva in cucina e poi, ad ogni pasto, era la loro guida, la loro musa, la loro deliziosa ospite, la loro dolce compagna, il loro balsamo di giovinezza. Indicava i piatti e li descriveva come fossero opere d’arte. Li porgeva come fossero oggetti preziosi, e non materia che di lì a poco si sarebbe decomposta nelle loro budella. E loro, incantati, aspettavano quei momenti come riti che segnano il senso delle giornate, se non delle vite intere.
Poi c’erano le sue “pause-sigaretta”, alle quali anelavano con la stessa trepidazione dei bambini in attesa dello spettacolo dei saltimbanchi. Ma lei non faceva acrobazie. Saliva in terrazza, spesso se ne stava in silenzio ad ascoltare. E la sua sola presenza illuminava le parole, le rendeva più leggere.
Julie era diventata la loro droga.

Un giorno Ruth aveva raccontato di quando aveva portato in gita scolastica i suoi allievi al mare. Era il suo primo incarico. Aveva proposto quella meta sperando di ritrovare nei paesaggi un po’ del fascino maudit di uno dei personaggi più intensi del cinema italiano.
Era inverno. Si erano immersi nelle nebbie pastose di Zurlini. Erano andati al molo, l’avevano percorso e avevano raggiunto il limite, dove rimane solo il mare. Il molo grigio che si confondeva con il cielo grigio e l’acqua grigia.
Allora le era sembrato persino di vederlo, il set pronto per le riprese, e Delon, di una bellezza commovente, nel cappotto cammello, la barba incolta, i capelli lunghi e spettinati dal vento, lo sguardo di un uomo travolto dall’amore e annientato dalla vita. Un insegnante, come lei.
Non avrei potuto fare nient’altro nella vita, aveva detto Ruth. Tutto quello che avevo imparato, tutto quello che avrei imparato ancora, non poteva finire con me.
Julie aveva guardato Ruth, come appena sveglia da un sogno che lascia sulla fronte un’impronta inquieta, e le aveva detto, con quel suo tono morbido: i bambini mi piacciono nella misura in cui sono gentili, simpatici, dolci, educati.
Sono d’accordo, aveva risposto Ruth. E non ne farei una questione di età. Se qualcuno mi chiedesse se mi piacciono gli adulti risponderei allo stesso modo.
Poi, Julie aveva aggiunto qualcosa che avrebbe dovuto sorprenderli tutti, un indizio, col senno di poi, se i loro sguardi non fossero stati perennemente offuscati, quando si trattava di lei: è così difficile avere a che fare con il lato oscuro degli essere umani.
E’ vero, aveva confermato Ruth. Con i bambini è più semplice. Il loro lato oscuro è molto piccolo. Si allarga crescendo. Io però insegnavo ad un liceo. I bambini, quando arrivavano da me, se ne erano già evaporati. Avevano lasciato il posto a degli adolescenti un po’ ribelli e un po’ fintamente obbedienti. E un giorno, pur di allontanarsi dalla scuola, si sono arresi all’idea di una giovanissima insegnante di accompagnarli nel freddo del mare fuori stagione, per raccontare loro di un film amato oltre ogni misura.

– E’ accaduto una sera qualunque. Una corda intorno al collo. Biglietti d’addio.
Una cosa così, lascia che il futuro sia riempito dalle banalità.
      così giovane
      l’aveva sempre con sé, la morte
      così sensibile, incapace di affrontare il successo
      sono così le rock star, geniali e fuori controllo e muoiono giovani
      intrappolato, inadatto alla vita
      impaurito, alla vigilia del tour che avrebbe cambiato la storia della band
      e di tutti loro
Ma alla fine si è sempre imprigionati dalla vita. E la storia della band, la storia di tutti loro, sarebbe cambiata lo stesso. Per sempre.
Lei, Julie, ascolta tutto, piange, ride, balla, beve.
Poi, un giorno si ferma e pronuncia una frase. E non farà più nient’altro che ripeterla. Terribile è morire senza salutarsi. Da lì in poi tutto è definito dall’assenza.
Ciò che hanno fatto allora, è stato – letteralmente – strapparla a se stessa.
L’avevano addormentata per giorni e notti che parevano non finire mai. E quando finalmente ha aperto gli occhi l’unica parola che ricordava, che le era rimasta conficcata come una lama in una zona indefinibile, tra l’assenza totale di pensieri, nella sua mente un tempo satura di parole e ora docilmente liquefatta e nel corpo senza più muscoli e ossa e carne, era stata overwhelmed. Sopraffatta.
Era stata sommersa da un oceano di soffici carezze chimiche che l’avevano cullata nella perenne ovattata sensazione di percorrere la vita di qualcun altro. L’avevano allontanata – fisicamente.
Si erano inventati per lei un altro paesaggio. E dato che lei ancora fluttuava, perché non se ne volasse via l’aveva ancorata alla realtà attraverso una finzione. L’avevano legata ad un ricordo indotto, quello del mare, che non era il suo. Le avevano cucito addosso abiti che non le appartenevano. Per salvarla. E lei, inaspettatamente, si era fatta salvare.
Nessuno può sapere cosa accadrà quando Julie si sveglierà veramente e comprenderà di essere sopravvissuta al suo dolore.

 

Perchè la morte è la prima notte di quiete?
Perchè finalmente si dorme senza sogni

 

***continua***