A tentoni nel buio di Paolo Polvani / Dove alzi il viso e sorridi, lì è la mia casa (note di letture a I bimbi nuotano forte, di Isabella Bignozzi, Arcipelago Itaca Edizioni, 2024)

 

 

 

In questo ultimo libro di Isabella Bignozzi la parola “angelo” ricorre sei volte, e sono due gli arcangeli incontrati. L’angelo è il messaggero cui è affidato il compito di annunziare, ma annunziare cosa? La parola forse? o schiudere uno spiraglio sul divino? o semplicemente del mistero della vita e della morte?

Una poesia di Rilke, dal titolo L’Angelo, nella traduzione di Roberto Carifi, avanza un’ipotesi suggestiva:

Davanti a lui stanno cieli profondi

colmi di forme: vieni, riconoscimi,

ognuna potrebbe domandargli.

La profondità di quei cieli è tutta ritrovata nei versi de I bambini nuotano forte, e il riconoscimento delle forme che colmano i cieli, il tributo alla sacralità delle parole, appare come la struttura portante del libro.

Ancora in Rilke in una poesia dal titolo Il poeta, i versi finali recitano: “Tutte le cose a cui mi dono / diventano ricche e mi abbandonano”. Come se l’atto stesso della nominazione, l’investire di luce quelle forme, costituisse insieme un arricchimento e una perdita.

La consapevolezza della precarietà si avverte fin dai primi testi di questo libro che si rivela come una miniera di splendori grandi, brillanti come schegge di forte luce, ettari di fulgore, e così la ricchezza del nominare e del repentino abbandono investono di consapevolezza il lettore:

al peso degli addii

riservi la tua quiete, un albeggiare

scura il proseguire

e tutta la raccolta si offre come un meraviglioso nominare, un dono di luce che piove sulle cose e “fa tremare / di precisa primavera”.

La poesia di Isabella Bignozzi mi ricorda certe sinfonie di Mahler cui è necessario accostarsi con cautela, quasi in punta di piedi, nella certezza che ogni successiva lettura dispenserà nuovi doni ed emozioni, piccole estasi, rivelazioni che ricompongono ”la sala d’aspetto della gioia”; così, sempre nella poesia “al peso degli addii”, incanta e avvolge la successione musicalissima di assonanze e rime: sera – bufera – voliera – tremare – primavera, una successione di forte impatto emotivo, una musica che affascina e inchioda, rallenta la prosecuzione della lettura e insieme la sollecita.  

In un’intervista Iosif Brodskij, a proposito della poesia ha affermato: “Credo che sia la forma suprema di eloquio umano, e in quanto tale rappresenti, dal mio punto di vista, lo scopo antropologico, o genetico, se vogliamo, della nostra specie. Non è un semplice intrattenimento, una “lettura”. Se il linguaggio è ciò che ci distingue dal resto del regno animale, allora la poesia è il nostro imperativo biologico. La forma più succinta per dire qualsiasi cosa”

I versi della raccolta rappresentano la forma suprema di eloquio umano, ne costituiscono una perfetta testimonianza. Se la poesia è il luogo privilegiato delle parole, se è qui che vi si celebra il rito magico, è qui la “follia di dolcezza / del nostro essere scagliati così”, è qui che “inietta l’infanzia buia dei lupi”, è qui che “una parola ti chiedo che salvi” e i santi stanno benedetti nel loro nome:

quando sei per me

io tento una piccola cuccia di fienile

caldo posto, vivo di piuma

risalgo il mio sguardo

nel dolce puro dei bimbi di latte

 

bevo il sole senza colpa, nella fiducia

è anche per me quest’isola d’alba

Ma è sempre l’abbandono il destino cui siamo strettamente legati: “ombra / di morbido non esistere / solo congettura d’angelo / che sa tutti i gradi dell’abbandono”.

Il filosofo Giorgio Agamben chiarisce meravigliosamente la stretta connessione tra parola poetica e perdita:

“Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio”.

 

E dunque è al peso degli addii che volge lo sguardo l’autrice, e la felicità di stare sulla terra ha un prezzo; e ancora con Rilke: “Così viviamo per dire sempre addio”.

 

 

           agosto

 

ci sono ore come laghi di sale

e albe rosse che ruotano avversità

d’insonnie limpidissime

dentro perdute case di pietra

 

l’anno è un migrare di navigli

fianco che ti spinge nella luce

il silenzio dei cipressi tiene

l’orma dei pensieri nell’acqua

questa fiaba nuda, battesimo

che ogni perdono prega nel vento

 

 

°     °     °     °     °

 

 

   dove alzi il viso e sorridi

 

dove alzi il viso e sorridi, lì è la mia casa

e i cigni di febbre, dai quieti steli

a far clessidre d’acqua in volo

 

come l’astro dei limoni, un arpeggio

d’agrumeti e girasoli

la contròra in un frinire di zagare

 

e sera come aurora levandosi

Grecale, chiara veste

vela di lentezze nel celeste

 

 

°     °     °     °     °

 

 

  tutto lo stupore del mondo

 

quella cosa calda e buona

che preme del suo non tornare

va alta, nel separarsi da sé stessa

sale a quel vulcano di labbra

che ancora sa pronunciare l’acqua

ma ora è un foro di perduto

che riassorbe nel suo nome

tutto lo stupore del mondo

 

 

°     °     °     °     °

 

 

     così ricamati, benedetti

 

così ricamati, benedetti

stanno i santi nel loro nome

scordano le stimmate e l’aure chiare

si tengono nelle tele antiche

nelle cornici

come numeri nei quadrati, segnati

dai gessetti di giugno nei cortili

 

ma vanno sorridendo nel celeste

dimenticandosi dello stare

e pensando appena abbozzati

a ipotesi d’angelo, d’aurora

minima conseguenza

di qualcosa che li pensa,

porgendoli

 

i santi han cura dei bambini

quando stanno per cadere

li rallentano con la mano

fasciano loro le ginocchia

fan più morbido il mondo

che sia solo per giocare

il doversi inginocchiare

 

e ai grandi riparano il cuore

dai colpi più duri, i muri

rispondano al senso della luce

sia soffice croce nel gelo

questo scalare il cadere

sia gemma ogni goccia di cera

che scioglie dentro la bufera

 

 

 

Isabella Bignozzi (Bologna, 1971) in poesia ha pubblicato: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021, prefazione di Elio Grasso) e Memorie fluviali (MC edizioni, collana Gli insetti, a cura di Pasquale di Palmo). In prosa: i romanzi Il segreto di Ippocrate (2020) e Cantami o diva degli eroi le ombre (2023), entrambi editi da La Lepre edizioni. Suoi versi sono presenti in antologie, riviste e lit-blog di rilevanza nazionale. È presente con suoi testi, saggi e interventi critici in numerose riviste letterarie, cartacee e on line, tra cui “Filigrane” (Ronzani Editore), “L’anello critico” (CartaCanta Editore), “Avamposto”, “Metaphorica” (Efesto Edizioni); ha curato come prefatore alcuni libri di poesia, e diversi suoi saggi sono on line in “Pangea”, “La poesia e lo spirito”, “blanc de ta nuque”, “Nazione Indiana”, “Poesia del nostro tempo”, “Larosainpiù”, “Morel – voci dall’isola”, “Culturificio”. Cura lo spazio web “L’astero rosso – luogo di attenzione e poesia”.