Omaggio ad Andrea Zanzotto a cento anni dalla sua nascita, a dieci dalla morte, attraverso i suoi versi. “Il logorante continuo confronto con un inizio”. Una selezione a cura di Silvia Secco. 1

 

Primo giorno, Domenica 10 ottobre

 

Andrea Zanzotto ha rappresentato per me il primo incontro con la poesia: un immediato, sconvolgente e straordinario innamoramento, per il quale tutto devo ad Enio Sartori, poeta e studioso (autore – fra gli altri – dello splendido saggio critico “Tra bosco e non bosco, ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il galateo in bosco di Andrea Zanzotto”, Quodlibet 2011) e mio insegnante di lettere lungo tutto il percorso di formazione al liceo artistico A. Martini di Schio (VI).

Uno dei libri sul mio tavolo, ora, mentre scrivo questa breve introduzione ad un omaggio al poeta di Pieve di Soligo, nei nove giorni che, quasi a ritroso, celebrano la distanza dalla data della sua nascita (10 ottobre 1921) alla data della sua morte (18 ottobre 2011), omaggio che ho l’onore e l’inadeguatezza di curare a nome dell’intera redazione di Versante ripido, è l’edizione del 1993 Oscar Mondadori delle sue Poesie (1938 – 1986), a cura di Stefano Agosti: il primo libro di poesia che ho acquistato. Avevo quindici anni e ricordo tutto esattamente. Al mattino, a lezione, avevo imparato che i poeti erano vivi, che uno di loro viveva a un’ora di distanza dalla mia casa e dalla mia storia, dall’altra parte del corpo massiccio montuoso, maestà di corpo e mostro al quale entrambi, in qualche modo, guardavamo: luogo e non luogo.

Le parole di Andrea Zanzotto, lette allora dal libro di Enio Sartori, mi avevano colpita come un pugno in pieno stomaco, tanto che poi possedere un intero volume di parole-pugno, di parole-mondo, mi era parso necessario come respirare, procurarsi il cibo. Così, dopo la scuola, corsi a comprarlo. Mi ricordo tutto esattamente: “Andrea Zanzotto, per favore, le poesie”.

Le parole di quella mattina erano queste:

Da Dietro il paesaggio (1940 – 1948), Quanto a lungo

Quanto a lungo tra il grano e tra il vento
di quelle soffitte
più alte, più estese che il cielo,
quanto a lungo vi ho lasciate
mie scritture, miei rischi appassiti.
Con l’angelo e con la chimera
con l’antico strumento
col diario e col dramma
che giocano le notti
a vicenda col sole
vi ho lasciate lassù perché salvaste
dalle ustioni della luce
il mio tetto incerto
i comignoli disorientati
le terrazze ove cammina impazzita la grandine:
voi, ombra unica dell’inverno,
ombra tra i demoni del ghiaccio.
Tarme e farfalle dannose
topi e talpe scendendo al letargo
vi appresero e vi affinarono,
su voi sagittario e capricorno
inclinarono le fredde lance
e l’acquario temperò nei suoi silenzi
nelle sue trasparenze
un anno stillante di sangue, una mia
perdita inesplicabile
Già per voi con tinte sublimi
di fresche antenne e tetti
s’alzano intorno i giorni nuovi,
già alcuno s’alza e scuote
le muffe e le nevi dei mari;
e se a voi salgo per cornici e corde
verso il prisma che vi discerne
verso l’aurora che v’ospita,
il mio cuore trafitto dal futuro
non cura i lampi e le catene
che ancora premono i confini.

In Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Gransasso Nottetempo, testo nato nel 2006 dalla sua voce diretta, Andrea Zanzotto definisce la poesia come “logorante continuo confronto con un inizio che non si sapeva nemmeno bene quale fosse, si configura come un trauma perché persiste sempre”. Ed è dal giorno del suo principio, nel giorno della sua nascita ad un secolo di distanza, che anche noi prendiamo il passo in questa celebrazione e in questa “lode”: lode che rappresenta la sorgente stessa del fare poetico, la sorgente ed il fine. “L’incoercibile desiderio di lodare la realtà di lodare il mondo ‘in quanto esiste’” (Da Autoritratto, 1977).

Per questo, con umiltà, da oggi e fino lunedì 18 ottobre, ogni giorno proporrò un testo poetico, in suo omaggio e per infinita gratitudine: infinita “perché salvaste dalle ustioni della luce il mio tetto incerto”, il tetto incerto del mondo.