A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Editori di poesia al sud: il doppio della strada. Alcune domande ad Antonio Lillo, editore di Pietre Vive

 

  • Quando hai deciso di creare le edizioni Pietre Vive? con quali obiettivi e motivazioni?

Questo lo racconto sempre con un certo divertimento. In verità non è stata un’idea mia. Ci sono capitato in mezzo, io non volevo averci avere nulla a che fare con una casa editrice, nel senso che avendo un minimo di dimestichezza del mercato editoriale subodoravo già la fregatura economica che ne sarebbe venuta. Mi ha convinto un amico che ci teneva assolutamente. Abbiamo creato insieme il progetto, nel 2013, poi l’amico si è reso finalmente conto della fregatura e si è eclissato. Io, avendoci messo il nome e la faccia, mi sono ritrovato  da un giorno all’altro a dover gestire la baracca.  

 

  • È una scelta molto coraggiosa quella di fare l’editore di poesia, al limite del masochismo, ti capita di pentirti?

Mi pento quasi tutti i giorni, esclusi i festivi. Il mio problema è che non so fare altro. Uno pensa sempre che gli ambiti dell’editoria siano intercambiabili, ma non è proprio così. Io non sono così sicuro di saper gestire un romanzo o un saggio come so gestire una raccolta di versi. E viceversa, conosco ottimi editor di narrativa che si perderebbero davanti a un sonetto o che non sanno chi è Zanzotto. 

 

  • Con quali criteri scegli i libri da pubblicare?

Non sempre ci riesco, ma in genere cerco sempre di pubblicare un libro di meno del necessario. Nella scelta vado a naso, come credo facciano un po’ tutti, poi volendo approfondire credo che la componente principale nella scelta dei libri faccia quasi sempre capo a un più ampio “discorso” sui diversi modi di esposizione del testo poetico: sono cose che io stesso cerco di capire, su cui mi interrogo, sai domande tipo chi siamo, cosa scriviamo, dove andiamo… così abbiamo una grande varietà stilistica fra i libri pubblicati perché io stesso possa avere, sulla lunga distanza, un’idea più chiara di cosa stiamo combinando tutti insieme. I miei autori hanno sempre qualcosa che li accomuna, sia nell’approccio propositivo verso il lettore sia rispetto al sentimento di distanza rispetto al contesto editoriale in cui operano, dove sono un po’ degli outsider, non riescono a starci dentro, allora mi sentono vicino e mi adottano.

 

 

  • Tu sei anche poeta, costituisce per te un limite o un vantaggio?

Più un limite che un vantaggio.

 

  • Essere editori al sud è certamente uno svantaggio, percentuale di lettori più bassa e occasioni di incontri limitate, in che misura la rete agevola i contatti?

Lino Angiuli quando cominciai questo lavoro mi disse che chi lavora al sud deve sempre fare il doppio della strada degli altri. È vero. La rete aiuta molto nell’esposizione di sé: oggi “esisto” nei confronti di un certo pubblico perché sono in rete. Meno seguendo le apparentemente intramontabili vecchie dinamiche relazionali (festival, saloni, eventi) da cui cerco di tenermi alla larga il più possibile per una grave forma di misantropia mondana, che riconosco e di cui mi dolgo profondamente.

 

  • Tu metti una grande cura nell’aspetto grafico, nella presentazione dei libri che pubblichi, sono sicuramente oggetti da collezione, che importanza ha per te?

Per me molta. Anche perché in generale i libri di poesie sono oggetti brutti, è come se la poesia si autopunisse perché è poco letta, e allora si fissasse in questa forma di estetica veterocomunista, con stampa su carta povera e copertine tutte uguali che fanno molto riempitivo per scaffale Ikea. Io i libri cerco di farli diversi primo perché mi diverto di più a fare i libri che a venderli, poi perché ho studiato arte e quindi è la mia unica occasione di sfoggiare quel po’ di cultura che ho e farmi bello io stesso, e quando posso li differenzio anche nel formato e nelle dimensioni perché così quando li incaselli nella libreria ti scompigliano l’arredamento.

 

  • Sei l’unico editore tra quelli che conosco a non mettere il nome dell’autore in copertina, qual è il motivo di questa scelta?

Premetto che non sono l’unico a farlo e ad averlo fatto. Per me un retaggio dei miei studi di arte medievale. Mi piaceva che sulle vecchie chiese romaniche non ci fosse la firma dell’architetto, perché le si considerava un lavoro collettivo, e metterci la firma era come fare atto di vanità verso Dio. Ovviamente non voglio arrivare a tanto coi libri (dove il nome è comunque presente in quarta o sul frontespizio), ma in un paesaggio editoriale dove non si vende più il libro, ma semplicemente il suo autore, spesso per solleticare la sua vanità, mi piaceva fare un’operazione opposta (anche perché le copertine permettono una identificazione immediata dell’opera). Io mi ci trovo benissimo a non avere il nome in copertina, so che a molti autori non piace, perché ovviamente già la poesia non vende, se mi togli anche il nome dalla copertina che cacchio lo pubblico a fare il libro? Ma la domanda è proprio questa: perché vuoi pubblicare il tuo libro? Cosa ti motiva a farlo?

 

 

  • Quali prospettive intravvedi per un editore di poesia? credi che il pubblico possa aumentare? ci sono iniziative che potrebbero irrobustirlo?

Prospettive nel mercato ne vedo poche, specie con la crisi in corso che avvantaggerà alcuni comparti più remunerativi per far sopravvivere l’industria. Ho forse più speranze sull’aumento del pubblico della poesia. In questi giorni sto leggendo con grande coinvolgimento un poeta sudanese, Abdel Wahab Yousif, morto nel Mediterraneo nell’agosto 2020, a 24 anni. Mi piacerebbe fare un libro di testi suoi tradotti per l’Italia. In Sudan, che è uno dei paesi più poveri del mondo, aveva molto seguito, e lì la poesia è letta e diffusa, così come in Sudamerica, o nella Russia di Brodskij per dirne un’altra. Insomma, leggendolo, mi sono sempre più convinto che forse la diffusione della poesia in una società è fortemente connessa al benessere economico: più benessere c’è e meno la poesia è diffusa, più forte è la povertà più se ne sente il bisogno. In questo senso il progressivo impoverimento della nostra società potrebbe riportare in auge la poesia. Certo, se la mia profezia si avverasse, le persone impoverite potrebbero venirmi a cercare per farmi la pelle.

 

  • Da quest’ anno hai allargato gli orizzonti aprendo alla poesia per bambini e ragazzi, pensi di continuare su questa strada?

Ci spero. I progetti in merito ci sono. I primi libri della collana le Pietroline sono quasi pronti. Vediamo come vanno e incrociamo i diti, come diceva Di Ruscio.

 

  • Se non ricordo male nel passato avevi manifestato l’intenzione di aprire anche a libri illustrati di argomento erotico, è un progetto accantonato?

No, per nulla. Solo che per ovvi motivi ho dovuto per un po’ metterlo da parte. Straordinario fra l’altro accorgersi come fossi partito per fare una collana erotica e ho finito per farne una per l’infanzia. Freud ci andrebbe a nozze.

 

  • Hai in cantiere altre iniziative?

Idee ce ne sono anche troppe. Il problema è farle combaciare realisticamente con le possibilità economiche. Eppure, me lo dico da solo per farmi coraggio, nessuno  avrebbe scommesso un euro su di me, ma dopo quasi dieci anni sono ancora qui a fare editoria alla mia maniera. La povertà, oltre alla poesia, dà anche una certa libertà di azione.

 

  • Il fatturato della tua casa editrice è molto lontano da quello delle grandi case editrici, eppure la qualità delle tue scelte a volte non ha niente da invidiare a quelle dei grandi editori. Pensi che il mercato prima o poi se ne accorgerà?

Confesso che non mi frega molto di far soldi, certo mi piacerebbe sopravviverci con dignità. Però credo sempre che l’importante è non star fermi a fare tappezzeria. Piero Gobetti ad esempio, al di là del suo percorso politico, chi se lo ricorda più come editore? Eppure Gobetti pubblicò un giovanissimo Montale che poi ha fatto una rivoluzione nel nostro ‘900. Io penso sempre che la speranza di un fare buon lavoro editoriale è quella lì. Essere una buona spalla per chi viene.