Luminosa claustrofobia di Laura Leoni (Chi Più Ne Art Edizioni, 2021): recensione di Ivano Mugnaini

 
 
 
Non è un ossimoro in senso stretto, il titolo del libro di Laura Leoni, ma è comunque affine alla figura retorica che consente di vedere al contempo la luce e il buio, un versante e l’altro, quello che splende e quello in ombra di quella luna stralunata e maliosa che è la poesia, e la vita.
Luminosa claustrofobia mette in contatto e in contrapposizione la luce e il timore del buio.
Potremmo dire che è un ossimoro elevato all’ennesima potenza. Non affianca semplicemente due termini contrapposti ma aggiunge ad essi una sensazione umana per eccellenza, la paura. Al livello visuale si unisce l’interiorizzazione.
Tutto ciò è anche un segnale, un’indicazione implicita di ciò che troveremo nelle poesie raccolte all’insegna di quello specifico titolo. La luminosità, la nitidezza espressiva, è filtrata da un fitto reticolo di metafore e dall’utilizzo costante di strutture sintattiche volutamente avulse rispetto alle cadenze e ai ritmi consoni e ordinari per farci cogliere angolazioni altre e chiaroscuri che
riconducono tutto all’indagine del sentire, all’alternanza di vitalismo e sgomento, a quel senso di soffocamento che riconduce in ogni caso alla sete di luce.
 
“Non so proprio perché
Giuditta sbriciola una lunaria
gioca coi fili di seta pallidi
come i suoi capillari.
Siede su ceneri
sparse da streghe incandescenti
su sentieri avvallati
come vecchi divani
che Giuditta conserva
affezionata com’è
a riposti silenzi.”
 
Questi versi, tratti dalla seconda poesia della raccolta, partono da una montaliana negazione, il non sapere, che tuttavia in gran parte si modifica fin quasi a mutare di segno quando scopriamo la cura affettuosa con cui Giuditta viene mostrata tramite i suoi gesti, arrivando ad un’immedesimazione che non la strappa al dono e alla pena dell’individualità.
 
“Sulle sembianze
ghirigori a esse
in sintonie comparate
scannellano il niente
assistiti dalla bellezza
di tale complicità.”
 
I versi della lirica “La camera disadorna-spoglia d’ali” pongono anch’essi l’accento (senza la banalizzazione di una dichiarazione immediata), sulle sintonie comparate, ossia poste a confronto, in grado di incidere con profonde scanalature solamente il niente. Con un ulteriore mutamento di segno si scopre tuttavia che tale attività in apparenza vana è assistita dalla bellezza di un’arcana
complicità.
 

foto di Paolo Zanardi

 
Anche questa poesia, come accade in molte occasioni nella raccolta, sembra indicarci un punto, una coordinata spaziale e temporale per darci l’occasione di estendere la visione a più ampio raggio, abbracciando l’orizzonte.
Il senso, il cosiddetto messaggio, come si era soliti dire un tempo, nelle poesie di questo libro si colloca sempre un passo più in là, oltre gli steccati di intarsi di parole che racchiudono più sensi, non di rado di colore cangiante e di tono diverso. Il significato è adeguatamente mutevole, adatto ai nostri tempi e a una forma di poesia che suggerisce più che indicare, evoca piuttosto che argomentare tentativi vani di spiegazioni.
Anche i lettori sono chiamati a entrare nella logica-illogica dei labirinti delle sintonie comparate, quelli che a ogni sguardo si evolvono assumendo forme e tonalità di complicità mutevoli. La poesia si fa specchio di un mondo, il nostro, in cui tutto cambia a velocità impensabili, o meglio legate ai guizzi di un pensiero soggetto a miriadi di stimoli spesso in conflitto, in disarmonia.
La salvezza allora, ammesso che esista, si trova forse nella bellezza di accordi e disaccordi con la realtà che ci plasma e da cui veniamo costantemente mutati e ristrutturati. Così come accade alle parole, l’evoluzione ininterrotta e istantanea è dettata da stimoli fulminei, da sinapsi che nascono dalla mente e ad essa ritornano dopo che tutto quanto è stato scombussolato (scannellato potremmo dire usando il verbo vigoroso della poesia citata).
Ogni angolo del corpo e di quella dimensione misteriosa e fondamentale costituita dalle sensazioni, dagli stati d’animo, da istinti e da pulsioni, cambia, si trasforma. Ossia, in sintesi, ogni parola muta se stessa e la struttura della poesia che la contiene allo stesso modo in cui ogni lettura (della parola e del mondo) riforgia noi stessi in ciascun istante, ricollocando di continuo le tessere del puzzle della nostra consapevolezza e del nostro mondo interiore.
 
“Rosso mattino a colazione
indugio
tra le tenebre (stanze)
 
e perché mai
l’equilibrio e il suono
battono passi
nudi e leggeri
sull’idillio velato?
 
Uso indizi d’affresco
a fantasmi dislocati
interrogo la luce strana
al centro
dove l’unico teatro risiede
da trascorsi diversi.”
 
Viene spontaneo, come se fossimo fisicamente nel Labirinto a cui si è fatto cenno, di tornare all’inizio, ai primissimi versi della raccolta:
 
“La pelle-ombra
rannicchiò
l’anatomia della lepre
sulla stirpe dei folletti.
Coltivando l’esempio
all’elevarsi
del bosco.”
 
In quest’ottica, il riferimento alla lepre chiama alla mente le parole e le immagini di un libro che utilizza il fascino magicamente ludico delle parole per entrare in universi ulteriori. Questo libro è Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll e il riferimento è alla March Hare, la Lepre Marzolina. Nel libro di Carroll viene descritta senza specificarne sesso né colore. Il suo nome deriva dal modo di dire anglofono to be mad as a march hare , ossia essere matto come una lepre marzolina, basato sulla credenza popolare secondo cui nel mese di marzo le lepri si comportano in maniera imprevedibile. Il personaggio è strettamente legato al Cappellaio Matto con cui condivide la tendenza a invertire il tempo.
I richiami e le assonanze con il libro della Leoni sono ancora più evidenti con il seguito di Alice nel paese delle Meraviglie , vale a dire  Attraverso lo Specchio, Through the Looking-Glass, and What Alice Found There.
Alice entra ancora una volta in una dimensione fantastica, stavolta all’interno di uno specchio attraverso cui riesce a vedere il mondo. Una volta entrata nello specchio si accorge che, proprio come accade ad un’immagine riflessa, tutto è capovolto, rovesciato, compresa la logica (ad esempio, correre consente di rimanere fermi, allontanarsi da qualcosa o qualcuno ti conduce verso di lui, i pezzi degli scacchi sono vivi, i personaggi delle filastrocche esistono davvero, e così via).
Mentre Alice gioca con un gatto bianco e uno nero, riflette sull’aspetto che ha il mondo al di là dello specchio. Si ritrova in una versione riflessa della sua stessa casa dove scopre un libro di poesie scritte al contrario, di modo che possano essere lette solo guardandole nello specchio. Si accorge anche che i pezzi degli scacchi hanno preso vita ma sono rimasti abbastanza piccoli da poter essere sollevati e spostati dalla sua piccola mano.
Nella raccolta di Laura Leoni leggiamo versi che necessitano un capovolgimento della prospettiva consolidata per rivelare un senso che racchiude in sé sia la logica che il suo contrario.
Le parole, con le metafore e i simboli ad esse legati, sono pezzi di una scacchiera che prendono vita, facendoci intravedere le loro luci ma anche le ombre gigantesche da esse generate. Lo scarto rispetto alla visione del mondo è calibrato con cura dall’autrice, di modo che ogni pezzo possa essere raccolto e riposizionato dalla nostra mano, ossia dalle nostre capacità di comprensione della realtà.
Il meccanismo dell’esplorazione del mondo e dei suoi arcani aspetti e significati si basa su una modulazione della lente linguistica. In altre parole, partendo da una descrizione in apparenza “piana” si arriva alla visione più profonda ed estesa grazie all’elevazione di un verbo o di un
aggettivo al punto massimo della scala di riferimento.
Gli esempi possibili sono innumerevoli. Faccio ricorso qui a queste “stanze” di una poesia che descrive “la periferia femminile”:
 
“I frutti secchi
allineati nel sottoscala
si dissolvono
in segni.
Sotto il fogliame
alla periferia femminile
cumuli di lentiggini
stilizzano colli
streghe e calendule
bruciano.
 
Le tazze vuote
sbavano umori
alla solita maniera”.
 
Le lentiggini si fanno cumuli che stilizzano colli e bruciano streghe e calendule mentre le tazze vuote sbavano umori.
Ci sono anche, con uguale rilievo, composizioni più “liriche” nella raccolta. Ci sono poesie in cui il gioco e la pena del ragionare, del riflettere sulle parole e tramite le parole al massimo dei giri si concede una tregua. Non si spegne, non si annienta. Ma coglie la bellezza di silenzi e pause che racchiudono la voce possente delle sensazioni:
 
“Nei lavatoi si posa
l’incerto del passero.
In innumerevoli sguazzi
confonde la sua timidezza.
Un fioco cinguettio
annuncia
l’indubbia gioia di quell’attimo.
*
Se fai la domanda
forse non otterrai la risposta
il fiore si chinerà colando
la rugiada che io avrò premura
di raccogliere come reliquia
di un amore segreto
e l’estate prossima
il suo giallo fiorirà
sui miei seni
rigandoli della sua lucentezza.”
 
Oppure, poco più avanti, le due dimensioni trovano un punto di incontro, pensiero e senso, nel senso di sensualità, immediatezza vivida del percepire desideri ed emozioni, si fondono e si fanno un unicum, un’armonia di conflitti, per così dire, che disegnano l’insieme, la totalità:
 
“Alternarsi di soste.
 
Col pigiama largo
avviata al gioco
dell’inverosimile
cresco nello spasmo delle acque.
Nell’unità a semicerchio
cambia l’eros”.
 
I riferimenti alla letteratura, con connessioni intertestuali e rimandi ci sono, sono presenti, così come i richiami all’arte. Tutto senza strepito e senza compiacimento, con complicità accennate in punta di penna e appena sussurrate ma non per questo meno chiare e suggestive, anzi assolutamente essenziali proprio in virtù del segno sfumato con cui vengono evocate:
 
“In un fiorire d’acque
il corpo di Ofelia
traspare di muschi.
 
Lontana dalla purezza del rosso
cola insonnie
dense di autunni”.
*
“Se oggi ho avvertito qualcosa
è solo quel profumo di pioggia
sulle tue labbra scarnite
mentre l’impronta della mano
è timido segno scolorito dal tempo”.
 
Luminosità claustrofobiche crea tramite le parole, con la loro ineludibile fascinazione, un mondo altro, che tuttavia riflette il mondo cosiddetto “reale”:
 
“Note scordate accavallano volti.
Dissolvono fisionomie.
Come un rovello affastellano pensieri.
Tra le dita anchilosate
barlumi si evolvono.
*
Ho collezionato
ritratti che
la diafanità magnificava
nelle donne sui cammei.
Coabitava in quel segreto
quando, sull’incarnato
trasferiva la passione mentale”.
 
Attraverso uno sguardo femminile e tramite una serie di personaggi e persone a metà tra vita effettiva e immaginazione, Laura Leoni ci conduce in una dimensione di confine tra verità e fantasia, buio e luce. I versi qui sopra citati, ossia le due liriche che concludono la raccolta, possono forse anche essere visti come un sunto, o una dichiarazione, squisitamente poetica, d’intenti. Le fisionomie si dissolvono in un rovello di pensieri affastellati. E tra le dita si evolvono barlumi di luce. Nei ritratti di donne collezionate in questo libro coabitava (e coabita) il segreto della passione mentale che, tuttavia, risplende nell’incarnato di un volto di donna.