Poesie velate, Donatella NardinIl Convivio editore, 2024

Recensione di Ivano Mugnaini

 

 

Poesie velate

Il velo è quella stoffa fine, leggerissima e trasparente che, pur coprendo e nascondendo, lascia intravedere ciò che sta sotto. Nel Cantico dei Cantici la sposa di Salomone viene lodata perché «le sue gote sono come melegrane nascoste dietro un velo». Ma il velo è, in fondo, anche il sudario, l’esile tessuto che trasfigura il volto del dolore senza cancellarne i tratti, le forme, la presenza e la memoria.  

In ambito artistico la velatura ha acquisito un forte ruolo metaforico soprattutto nel periodo simbolista, in poesia e in altre discipline. Più di recente, Marcel Duchamp ha svelato il valore di oggetti comuni nell’arte, conferendogli nuovi significati. In modo inverso, il lavoro di Christo ha velato oggetti ed edifici per renderli nuovamente visibili.

Nelle liriche del suo libro, Donatella Nardin è consapevole del valore simbolico del velo e della velatura, come atto e come concetto. Volutamente si muove in direzione contraria rispetto alla nota frase che erompe dalla pagine di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. “The surface, the reality—the reality, I tell you—fades. The inner truth is hidden—luckily, luckily”. La superficie, la realtà, svanisce. La verità interiore è nascosta, per fortuna – esclama Marlow. La Nardin è ben coscia del buio del mondo e dei tempi, conosce le insidie delle tenebre al di sopra e al di sotto della superficie del fiume limaccioso dei giorni. Ma, proprio grazie al velo di cui abbiamo parlato, in virtù di quella stoffa esile, esplora con occhio partecipe ed empatico ogni aspetto della vita, il fuori e il dentro, la mente e il corpo. Si muove sulla linea di confine, non per rafforzare le barriere, ma, al contrario, per individuare aree fertili di interconnessione e identificazione profonda.  

“O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani” (Inf. IX, 61-63). Questa notissima terzina dantesca viene assunta da Giovanni Pascoli come titolo di un suo volume d’interpretazione dantesca. In tempi molto più recenti, ne “I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’Associazione degli Italianisti” del 2014, Antonio Soro mette in connessione la terzina sopracitata con alcuni versi del canto VIII del Purgatorio: “Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero / ché ‘l velo è ora ben tanto sottile / certo che ‘l trapassar dentro è leggero.”

Ebbene, il trapassare dentro, ovvero il coinvolgimento emotivo sincero, è esattamente ciò che la Nardin ricerca e mette in pratica nel suo libro.

“Dal poco colsero un battito

– e unghie laccate di rosso e

lunghi capelli di luce – per

farne dono alla madre

degli increati tutti, dei poveri,

dei diseredati seduti fuori dal tempo, assisi

sui troni dorati del vento,

in forma di grumo scuro

 

– tra gli alberi viola d’attrito –

 

erano i respiri di ombre lontane che

in un ardente fiammare avrebbero

desiderato appalesarsi nella parola.”

Foto di Paolo Zanardi, Portogallo 2024

La sottolineatura attenta e costante della dimensione esterna contrapposta ad una “centralità” privilegiata e dominante è uno dei cardini tematici e strutturali del libro. Ed è interessante rilevare che il velo assume tra le varie funzioni anche quella di “ponte” per concedere al lettore di cogliere i battiti di chi è seduto fuori dal tempo. Il velo allora diventa sguardo che sa unire la dimensione esterna con quella interiore, e, simultaneamente, una forma di interpretazione del silenzio dei vinti, degli increati e dei diseredati. È un modo per intercettare e rivelare tramite la parola (ossia tramite la poesia) ciò che è nascosto, reso invisibile dai potenti per “cecità” morale o per bieco calcolo, ma desidera, nonostante tutto, rendersi visibile e percepibile, palesandosi.

Le quattro sezioni di cui si compone il volume, confermano con coerenza questa capacità di accogliere nell’arco di una stessa lirica, se non perfino nell’arco di uno stesso verso, istanze contrastanti che generano ossimori, o almeno accostamenti inusuali, inattesi, volutamente stridenti, così come stridente è l’immagine e il suono dei contrasti, dei dissidi e delle dicotomie di cui è composta la vita.

Le quattro Sezioni sono, nell’ordine, Ombre e respiri, Una velata delazione, Madri interrotte

e D’amore e d’altre infermità.

L’esergo del libro racchiude una sintesi onnicomprensiva delle tematiche fondamentali:

Agli invisibili tutti nel pianto ubiquo dimenticati.

Ai lasciati in disparte nel disadorno feroce assiepati.

Alla tua ombra dismessa,

alla tua luce mai nata e generosa

all’amore che terso il poco nel tutto a volte risana.

L’esergo è altresì una dedica e una dichiarazione di intenti, oltre che una nitida premessa poetica. I libri hanno un loro tempo che esula dagli eventi umani, dagli splendori e dalle miserie umane, potremmo dire, sottolineando con amara oggettività che le miserie sono da sempre in misura notevolmente predominante. Ma i libri non vivono in un’Arcadia serena né in un algido Limbo. Sono immersi nel tempo di chi li legge, dando loro vita e, tramite la lettura, dando vita a loro stessi. È bello, come nel caso del libro della Nardin, quando si verifica una fertile simbiosi tra le tematiche trattate e il tempo attuale:

“le tante bocche costrette

al silenzio, le donne

ammazzate, le spose bambine

o chi si è saziato

in guerra solo di nuvole

e bianche molliche di vento

 

creature come non mai

d’inaudita dolcezza

per chissà quale demerito

nell’oscurità ricacciate.”

 

La forza e l’urgenza di versi come quelli qui sopra citati, e di molti altri contenuti in tutte le Sezioni del libro, è nella capacità di evocare in modo inequivocabile situazioni di stretta e aspra attualità lasciando tuttavia spazio anche a riflessioni di ampio respiro, diacroniche, potremmo dire. Passato e presente si confrontano specularmente. Soprattutto però, ed è questo il valore aggiunto, la descrizione delle oscurità, delle violenze e dei soprusi non è mai lamento cieco, fine a se stesso. Sussiste la ricerca di sprazzi di luce e di fessure da cui sia possibile intravedere scenari diversi. Non per effetto di eventi casuali e favorevoli, ma, ed è una discriminante fondamentale, in virtù dell’impegno fattivo di ciascun individuo.

“Troveremo luoghi più retti

in cui stare vicini,

nel mite interrogarsi

afferreremo i morti alla gola

chiedendo a gran voce

una vita più giusta più vera

– e fremiti nuovi alle vene sottili

– papaveri gialli ridenti

su cui possa indugiare

una tenera scrittura di cieli,

arancionube felice uno sguardo

vibrante nell’epica dimessa

della quotidianità.”

Foto di Paolo Zanardi, Portogallo 2024

Questo chiarore nel crepuscolo, addolcito da colori più tenui e da aggettivi preziosi che rendono la scrittura “tenera” e la accostano ai cieli, questi attimi in cui è concesso il gioco del coniare un “arancionube”, sono tuttavia oasi in un deserto percorso e descritto dall’autrice con occhio serio e sincero.

Azzardando un parallelismo musicale, potremmo dire che il libro della Nardin segue costantemente una scala di La minore formata da suoni naturali, senza alterazioni. Ossia percepisce e fa risuonare la crisi del mondo attuale con fedeltà, tramite parole adeguatamente intense. Nei momenti in cui si consente e ci fa intravedere l’ipotesi di cambiamento e miglioramento, la scala dominante si interseca per qualche attimo alla scala Do Maggiore. Questa caratteristica crea un “legame di parentela” tra le due scale. La scala di La minore è infatti chiamata scala relativa minore della scala di Do Maggiore.

Al di là dei “tecnicismi”, si può osservare che nell’intera raccolta lo slancio lirico di alcuni versi puntualmente si scontra, per onestà, per ossequio alla verità, contro il muro freddo e solido dello status quo fattuale:  

“Smisero allora di cantare

gli uccelli e tutto fu libero

di essere altro

– anche il vento anche

il vento deposto ai piedi

del tempo –

anche l’estate che più

non era in nessuno

di noi.”

 

La negazione montaliana, quella del «Non chiederci la parola”, e dei nuovi poeti lirici del Novecento interpreti del sentimento del vuoto, la crisi morale che consente solo di esprimere “il negativo”, è presente nella raccolta della Nardin. La poesia è consapevole che non è più possibile fornire chiari messaggi o formule certe per la comprensione del mondo. Si può solo dire ciò che non si sa e ciò che non si vuole. La profonda coscienza della tragica condizione di ogni individuo condannato a vivere con solo la sua angoscia, pervade gran parte dei versi della raccolta.

 

“Fioriscono sciolte nei tanti

rossori le anime belle,

a sciami dorati per nostro

conto racchiudono

in un’illusa carezza l’amore

eluso   che era   che è

che mai sarà.”

 

Il tema è sviluppato dalla Nardin secondo gli stilemi che le sono cari, e con personali variazioni sul tema che conducono, come detto, anche agli sprazzi di luce che non sono semplici svaghi temporanei ma costituiscono una sorta di controcanto che non muta certamente l’assunto di base ma costituisce una variante significativa sul piano del contenuto e dello stile.

“La natura dell’anima non vive / se non ha un corpo”; è questo l’esergo tratto dalle parole di Lucrezio, della Sezione Una velata delazione. Si parte da questo assunto, e, accoratamente, si ribadisce il contesto, ossia la consapevolezza assoluta.

 

“Ci governa un algoritmo

ferino di caos incessante

ammantato perché dire vita

è appalesarsi accorciati

levigando destini

intrecciati all’erba, alle acque,

alle pietre come

storie incandescenti smarrite

 

– a spillo sottile invissute –

 

s’innamora del volo radente

la luce, tanto più fulgido

l’occhio nel pronunciare

le aperte ferite che tengono

insieme un debito occulto

e patti da nessuno mai

sottoscritti.”

 

 

C’è spazio e volontà, tuttavia, per un colpo di timone che contrasta le onde.

 

“Eppure noi siamo vivi in questo

immenso rogo di vita,

vivi in questa nostra inaudita

inermità e, spauriti ma grati,

ci stringiamo all’azzurro

coltivando una tenue speranza,

insopprimibile istanza che ancora

c’intrama, amore infinito

che nello Stige non vuole morire,

canta sfinito l’amore una gracile

melodia di pace, tenerissima

e pervicace nella sua

caparbietà.”

 

L’aggettivo “tenera”, citato anche nel commento ad una lirica precedente, assume qui la forma superlativa, e, soprattutto, emerge possente il senso del “Noi” contrapposto all’Io, dominante e deleterio. “Noi siamo vivi”, scrive, anzi esclama l’autrice.  

Cito, al riguardo, un paio di brani dell’attenta e partecipata prefazione di Giuseppe Manitta, consigliandone la lettura integrale: “Se sono rilevabili diversi tratti intimistici, è altrettanto vero che ci troviamo di fronte a versi che scandagliano il ‘noi’, ovvero l’autrice si carica dei mali del mondo, li osserva e ne patisce. Anche quando è l’«Io» a parlare, si tratta di un pronome espanso, che affronta l’alterità e s’immedesima in essa. La sofferenza è, dunque, parte consustanziale dell’esistenza (respiro e ombra, come suggerisce la prima sezione), nella quale persino le anime bianche e le anime belle non ne sono immuni.”

Poco più avanti Manitta si concentra più specificamente sull’amore e sulla sua funzione vivificante, in senso stretto e in senso lato. “Per questo si è parlato di preghiera, perché è un’invocazione alla vita e all’amore quella che l’autrice rivolge, un voler superare lo stallo di un tempo inerte e quasi impazzito nel quale si vive. E proprio all’amore, sempre nella sua concezione ossimorica, è dedicata la sezione conclusiva (D’amore e d’altre infermità), quasi uno sbocco naturale verso una rassicurazione che, seppur mostri le sue ombre, può offrire lembi di serenità. Non sempre è individuabile il soggetto cui si riferisce, ma ciò poco importa, perché anche in questo caso il desiderio del ricongiungimento è talmente forte da essere consolatorio.”

La corporeità nella raccolta appare come una sorta di “imperfezione essenziale”, un punto di connessione tra i limiti e le potenzialità. Anche in questo caso siamo di fronte ad una visione non banale e non semplicistica. Si rivela piuttosto un desiderio sincero di affrontare la tematica ardua ma imprescindibile (in poesia e non solo) della coesistenza di bellezza e orrore, bene e male, aspirazione alla felicità e cognizione del dolore:

“nel lieve avvampare

trafiggere l’alba nella ferita,

corre un brivido attorto

lungo la schiena,

delusa ricade l’attesa a filo

sul fiore, non ci sarà cura

di sé né propagazione,

non sarà cuore ma lama

rovente la privazione

solo da un daimon segreto

accudita.”

 

Il libro si muove tra estremi contrapposti, fino al punto in cui le polarità entrano in contatto, dialogando, formando visioni d’insieme.

Lo sfondo è quello espresso e ulteriormente sviscerato dalle Sezioni Madri interrotte e D’amore e d’altre infermità.

Non è caso forse che, come in un crescendo, ci si avvicina al nucleo della vita stessa, la nascita e l’amore, anch’esso a tratti nascita tormentata e infermità, malattia.  

Due misteri, due chiavi nascoste, come adeguatamente manifestato tra le righe di numerosi versi tra cui:

“Soffice e chiaro fu

un compendio fugace

la nuda passione d’amore,

un nulla sospeso

il desiderio celato

in ognuno di noi.”

 

Il riferimento alla luce, parola chiave per eccellenza, torna perfino qui, quando si dà forma di parola alla pena del non nascere. La morte ante litteram, quella che nega la vita prima ancora che essa abbia inizio. Ma gli aggettivi “indomabile” e “irripetibile” sono scelti con cura, assolutamente non a caso:

 

“Addossami al vero,

madre, e fammi lambire

da una luce che

indomabile infiori il letto

sgualcito da un mare

che non ci ritorna.

Lascia che irripetibile

risplenda all’occhio turbato

la sorte di ognuno

 

anche il non nato

nell’umano pensiero

si addentra, frange, risorge.”

 

“Riconosco l’amore dallo strappo delle più fedeli corde vocali: ruggine, crudo sale nelle strettoie della gola.”

Questi versi di Marina Cvetaeva fanno da esordio alla Sezione D’amore e d’altre infermità. Sono però altresì una “sinossi poetica”, una sintesi per temi e simboli, per stati d’animo ed evocazioni dell’intero libro della Nardin. La ruggine e il crudo sale indurrebbero al silenzio della resa. Ma c’è qualcosa di più tenace perfino del dolore. E lo strappo, la ferita, è spazio per una parola che non pretende di essere salvifica ma manifesta, a dispetto di tutto, la presenza dell’amore. Quindi della vita. E dei resti dilaniati ma ancora vivi dell’umanità.

Nella coscienza, nella consapevolezza più che mai essenziale, che dietro il velo c’è sempre una dimensione ulteriore, dei volti, dei pensieri e delle sensazioni, della percezione delle complessità della condizione umana. “Non più braccati dalla vita, / leggera e disperata, insieme / staremo nella parte siderale / di noi, essenza grata vegliata / dagli angeli che, convenuta, / sa il bene, la sua alterità.”

 

                                                                                                                      Ivano Mugnaini