A tentoni nel buio di Paolo Polvani /Mì con tì ma mangi l’amour. (Io con te mi mangio l’amore, note di lettura a Barlicch Barlòcch, di Luigi Balocchi, Manni editore 2024)
Per essere riconoscibile ogni cosa ha bisogno di indossare un nome. Certi nomi si attagliano alle cose in maniera perfetta, ad altre a volte stanno larghe, o troppo strette, certi nomi sprigionano una luce che riesce a metterne in risalto la bellezza. Una di queste parole che non adempie perfettamente alla funzione è fica, la parola che usiamo per designare l’organo genitale femminile. Copio dal vocabolario on line: – parte vergognosa della femmina, che anche si dice potta. Lat. cunnus. E da questa, per qualche similitudine, si chiama fica quell’ atto, che con le mani si fa, in dispregio altrui messo il dito grosso tra l’indice, e’l medio: onde Far le fiche. Lat. medium unguem ostendere. – E anche, da altro vocabolario: – dal latino fīcum, frutto del fico, in analogia con mela < malum, pera < pirum, e così via. Probabile l’estensione al significato volgare per via della suggestiva somiglianza tra la vulva e il frutto quando è stato aperto-. A mio avviso la parola suggerisce una visione spregiativa, ne mette in luce gli aspetti volgari, disdicevoli.
Ci pensa il dialetto a mettere a posto le cose, a restituire la luce che compete ad un aspetto e funzione della vita così importante, al limite del sacro; il dialetto con l’energia delle sue parole che provengono da secoli e secoli di uso quotidiano, parlato da poveri e ricchi, da destri e maldestri. Ci pensa a restituire quella particolare vivida luce un libro che scoppia di energia, l’autore è Luigi Balocchi, il titolo richiama per assonanza il nome dell’autore, Barlicch Barlòcch, il cui sottotitolo recita Poesie dell’eros lombardo, pubblicato dalla casa editrice Manni di Lecce, sempre attenta e coraggiosa nella scelta degli autori. Barlicch Barlòcch è il nome popolare del diavolo.
Nella prefazione, firmata da Fabio Pusterla, tra le altre cose si legge: “questa è una poesia che non può che nascere in dialetto, dentro la densità materica del dialetto e del mondo che il dialetto rappresenta. Tant’è vero che le traduzioni in lingua non possono affatto reggere il passo della poesia originale; sono necessarie, per rendere accessibile il testo ai lettori, e tuttavia appiattiscono la parola della poesia, la volgarizzano, potremmo dire con un gioco di parole; soprattutto in questo libro, in cui il filo conduttore è l’erotismo, la sessualità, i concretissimi organi sessuali, che detti in italiano scendono inevitabilmente verso la più trita rozzezza, e che invece in dialetto offrono una ricchezza, una varietà tanto lessicale quanto esperienziale piuttosto straordinarie”.
Il primo aspetto che colpisce il lettore è la stretta connessione tra un accentuato vitalismo sessuale e la disperazione: ” a spettà ’na figa sciura, per sbattegh denter al mè bell faccin de fioeu desperaa”; ( ad attendere una figa ricca, per sbatterle / dentro il mio bel faccino di ragazzo disperato).
Già George Bataille sottolineava in una possibile definizione dell’erotismo la presenza dell’idea di morte: “Dell’erotismo si può dire, innanzitutto, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte”. Afferma inoltre che “l’ambito dell’erotismo è quello del disordine, dell’effrazione”, e qui comprendiamo la scelta del titolo da parte dell’autore, che nei versi ritorna a più riprese sul concetto di smarrimento, – La strada di casa avevo perso – (che richiama: la diritta via era smarrita), e dove la ritrova: in quel buco, in quel sole: “E tu mi portavi / il sole della tua figa, / ficcato dentro quella brioche, / alle sei della mattina”; in una delle più belle e poetiche liriche della raccolta, con quel bacio alla luna caduta nel secchio di una stazione popolare.

“Piccola mendicante e donna che fila” Giacomo Ceruti.
Il sesso è una via di redenzione, afferma un verso, e richiami a un’idea di religiosità del sesso non mancano: è attraverso il dono del corpo che l’autore dichiara di aver trovato la pace, e siamo chiamati alla cena del Signore attraverso il desiderio che abita tra le nostre gambe, e di questo dannato desiderio occorre farci un’ostia santa.
Tutta la raccolta è intrisa di questa religiosità pagana (l’erotismo sacro si confonde con la ricerca di Dio, e più esattamente con l’amore per Dio, afferma ancora Bataille), di questa energia tremenda e disperata, che fa tornare alla mente una famosa poesia di Cesare Zavattini, dal titolo Diu, Dio, nata nel dialetto romagnolo ma che per brevità riporto nella traduzione in italiano: “Dio c’è / Se c’è la fica c’è. / Solo lui poteva inventare una cosa così, / che piace a tutti a tutti / in ogni luogo, / ci pensiamo anche se non ci pensi, / appena tu la tocchi cambi faccia. / Che momento, lungo o corto non si sa. / Fa anche dei miracoli, / un muto / per chiamarla / gli è tornata la voce. / Ah se potessi spiegarmi ma / è difficile / come parlare del nascere e del morire”.
Tempo fa qualcuno lamentava la scarsa presenza dell’erotismo nella poesia italiana. E invece qualche coraggioso che lancia la sfida appare sulla scena della poesia, e in questo caso si tratta di una sfida vincente, vinta in maniera efficace e anche elegante.
Siamo in presenza di una poesia che riesce a restituire nobiltà e sacralità alle funzioni e alle cose, stabilendo un nesso con le singole parole, illuminandole nel senso e nel suono. Così la parola fica, dalla volgarità cui l’uso la sottomette, viene resa con la più consona “brugna”, perfetta onomatopea che disegna con millimetrica precisione l’aspetto anatomico della faccenda, con quella sillaba finale “gna” che rende bene la cedevolezza, l’elasticità, dell’organo in questione, e quelle lettere b e u che fungono da cappuccio protettivo alla vibratile, erettile erre.
Una poesia di alto lignaggio dunque, sebbene fuorviante risulti qualsiasi forma di classificazione, la poesia è o non è, e in questo caso è sufficiente una breve rincorsa perché riesca a librarsi in volo e a conquistare il lettore col suo eccesso di sincerità, di franchezza, di sapientissimo uso delle parole.

Giacomo Ceruti detto il Pitochetto, donne che lavorano al tombolo
La luna a Porta Gènua
La straa de cà evi perduu,
’nscì a basevi la luna,
giù borlaa in del sidel
d’ona stasiòn popolar.
E tì ta ma porteva
al suu de la tu brugna,
ficcaa denter quella briòsc,
la mattina i ses ur.
LA LUNA A PORTA GENOVA
La strada di casa avevo perso, /così baciavo la luna, /caduta nel secchio / di una stazione popolare. / E tu mi portavi / il sole della tua figa, / ficcato dentro quella brioche, / alle sei della mattina.
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La Grazia
(Murtara, via Uspidal, 1967)
A sera ’n fargnuclìn ad ses ann, un fà
gnì matt ch’as sava no moda rangià. Insì
mì ’m rampiava su quj scal chi finivan mai;
là, in t’la cà, in alt, la cà a d’la mè Grazia.
L’era giuvna, una tramenta bela fioeula.
Par mì, al so Gigin, la gh’ava duu oeugg
ch’anmà smiciaj mì sera tutt bel che surgataa.
A stava lì, con lee, di inter dopdisnà; con lee
ch’am fava giugà, la ma stringiva, am vuriva
ben. Poeu, a na cert ura, as mitiva a laurà. As
sitava a la machina da cusì e ’m disiva da fa
al brav. Mì fava al brav. Pian, a gha sghiava
suta la sòca, qula sòca longa fina ai pee, pina
ad fiur chi sbarlusivan, e stava lì, suta, ingualaa
’me ’n murgiulin, lì i mè didin, i mè pilin, i ugin
bej; quj ugin chi gnivan grand, chi guardavan su
, lee sensa mudand sempar sitaa in ponta d’la cadrea,
su, su, par i so gamb, fina a vàdal, là: al paradis.
LA GRAZIA
(Mortara, via Ospedale, 1967)
Ero un frugolino di sei anni, un birbante che non si sapeva in che modo quietare. Così, mi arrampicavo su quelle scale, che non finivano mai; là, in quella casa, in alto, la casa della mia Grazia. Era giovane, una splendida ragazza. Per me, il suo Gigino, aveva due occhi che, al solo sfiorarli con lo sguardo, mi sconvolgevano. Stavo lì con lei degli interi pomeriggi; con lei che mi faceva giocare, mi stringeva, mi voleva bene. Poi, a una certa ora, si metteva a lavorare. Si sedeva alla macchina da cucire e mi diceva di fare il bravo. Io facevo il bravo. Piano, le scivolavo sotto la gonna, quella gonna lunga fino ai piedi, colma di fiori che luccicavano; e stavo lì, accucciato, beato come un caldo topolino; lì le mie piccole dita, i miei piedini, gli occhietti belli; quegli occhietti che, all’improvviso, guardavan su, lei senza mutande sempre seduta sulla punta della sedia, su, su, per quelle sue gambe, fino a vederlo, là, in cima: il paradiso.
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Al risòtt e ’l bus
De driss o de stòrt, denanz o dedree,
ciapel tì come ta voeur, tutt l’amour
al gh’ha minga on prim, al gh’ha no ’n second.
Ta gh’hee present al risòtt giald con l’òss
bus? Disnaa complet! Derva dunca i bej
làver. Slarga i busecch. Cascel giù tutt.
IL RISOTTO E IL BUCO
Dritto o storto, davanti o di dietro, / prendilo come vuoi, l’amore / non ha un primo, non un secondo. / Hai presente il risotto giallo con l’osso / buco? Pranzo completo! Apri dunque le belle / labbra. Allarga le budella. Caccialo giù tutto.
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Luigi Balocchi nasce il 30 giugno 1961 a Mortara. nel Pavese.
Collabora per anni come giornalista con il quotidiano La Provincia Pavese. Altre collaborazioni con le riviste Niederngass, Redness, Terre di confine e Terra Insubre.
Tra le voci più originali della letteratura padana in lingua locale, suoi scritti trovano spazio su Il Segnale, Atelier, Nazione Indiana.
Dal 1997, pubblica romanzi e raccolte di poesie in italiano e in dialetto.
Tra gli editori che lo hanno accolto: Atlantide, Meridiano Zero, Puntoacapo,
Del 2022 è la raccolta Coeur Scorbatt, in lombardo, con la quale, per la sezione dialettale, vince la XL edizione del premio di poesia “Giuseppe Tirinnanzi” di Legnano.
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