Osservatorio poetico di Sonia Caporossi | Edoardo Piazza
Matrimoni
Il Vespro, Antigone,
non è la fine.
Venezia galleggia ancora.
L’Amore è morto
ma resistono le candele,
i gechi attaccati ai muri.
Scorre la piroga dell’orologio.
Odoacre soggiogò i dalmati,
piansero i vietnamiti,
c’è disorientamento tra le fila degli iracheni,
è in terapia intensiva il polmone dell’Amazzonia.
Gli anelli di Saturno
non entrano nelle dita.
*
Malo
E quindi volevo scrivere una poesia
per dire all’attesa che il tempo mi sfugge,
al pomeriggio urlare di non invecchiare.
Lasciar intendere ai momenti
– che come fiere divorano l’indole dell’essenziale –
che lo spirito arde su canne e oleandri
nella fotografia di una mattina rosa.
Vorrei che l’imbarazzo della solitudine
svestisse sul monte i panni della saggezza
per calcare un berretto buffo e spiritoso
che possa intonarsi col calore delle stufe.
È insomma in questo procedere di anni che non sono anni,
di creature che vanno avanti e indietro,
che ho ritrovato la luna appesa in un vicolo del Rione Monti
su un acciottolato troppo fulgido per non diventare memoria di sé
e puntare al cosmo nella lente di un cannocchiale.
Eppoi vorrei condividere tutti questi umori, e questi sudori benigni
e scherni
fatti da ometti che ad oggi rappresentano lo stato.
Vorrei ridere, in condizione,
perché a pensarci bene il male di ieri continua a dire «non c’è più posto»
(se escludiamo le epifanie).
Infine stringere la mano digrignando un «ciao»
lesto per visitare un’altra stortura
– Golgota, Erinni, Idra e peccato –
putrida sotto un manto tanto divino.
*
Duluoz
Chiederemo scusa a Kerouac
per essere regrediti
e aver infilato nel marsupio
pensieri retrogradi.
Chiederemo scusa ai beat beati
se nei pressi del Gazometro
portammo fiori viola a Gregory Corso
nel Cimitero degli Acattolici,
sospesi tra la brina della Piramide e la ferraglia arrugginita.
Ci scese una lacrima
nella Centrale Montemartini,
mentre ripensavamo a Keats e Shelley
e Roma era nitida fuori dalle bifore dei finestroni,
scrollata sui colli dal solstizio invernale,
come le gote incipriate,
radiose di una bella attrice immortale.
Furono gesti e tentativi,
in questo caos metropolitano,
di rifuggire i chip dei metalli rari
e commuoversi senza ausili tecnologici.
Cuore di bambù si flette,
per chi non ha abbandonato
il copricapo della tribù indiana.
Piuma su piuma,
estinti come l’alca impenne e gli elefanti nani;
a rischio come le paludi della Louisiana,
piste d’atterraggio per il volo libero dei pellicani.
Edoardo Piazza (Roma, 1986) ha studiato Scienze Politiche e ha fondato un’associazione socio-culturale. Si occupa di revisione testi e ghostwriting. In poesia è stato finalista al Premio Bertacchi e al Premio Zeno. Nel 2019 ha pubblicato la raccolta Container! con Ensemble Edizioni, presso la quale è uscito pure nell’antologia Congiunti e nell’Agenda Poetica 2022. Il suo primo romanzo, Il Capodanno di Umberto Rose, è stato pubblicato nel 2020 da Apollo Edizioni. L’ultimo libro di poesie è Il fosso, pubblicato da Transeuropa Edizioni nel 2023.
C’è un umore prevalente in queste poesie di Edoardo Piazza tratte da Il fosso (Transeuropa 2023): si tratta di una sorta di malinconica consapevolezza che il passato di sicuro non ritorna, ma può vivere in un presente ricomposto strutturalmente dai suoi stessi simulacri. Ed è un umore atmosferico che trasuda, ironico e al contempo dolente, da una certa ariosità pasoliniana che si rende evidente nei continui riferimenti a Roma, luogo di nascita dell’autore che qui viene vista in modo particolare, non solo come dimensione del proprio vagare e perdersi, ma anche come agglomerato imperituro di borghi e sobborghi inesauribili nella loro vasta simbolicità. Si tratta della lezione di un Pasolini ultracontemporaneo, però, che rende esplicita la suggestione dei padri americani della poesia Beat la quale, attraverso il libero associazionismo e la fluenza incontrollata dell’ipermetro, traspare nella resa mai trasandata del dettaglio, nella tematizzazione dimensionale della quotidianità. Ed ecco che la descrizione dell’uomo qualunque emerge dalla scuola di maestri eterogenei, riuniti sinteticamente in uno. Si avverte, peraltro, il respiro coagulante del postmodernismo e la farcitura discorsiva del particolare, il tutto permeato da un citazionismo un po’ avantpop. Tutto questo e forse altro nei versi di un poeta, Edoardo Piazza, che ci dà prova di grande maturità stilistica proprio ponendosi come poeta dell’immediatezza esperienziale, in virtù del più marcato superamento della banalità pedissequa così tanto diffusa, oggigiorno, nel lirismo epigonale.
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