Spazio di Claudia Zironi | Semplici abbandoni, inediti di Alberto Bertoni

         

Può un docente di letteratura non essere anche un maestro di vita? Il modenese Alberto Bertoni, che ha una quotidiana frequentazione di giovani promesse della poesia e della letteratura in quanto docente di queste materie all’Università di Bologna, si carica di questo doppio ruolo e nelle sue poesie affronta sì tutti i fantasmi che dalle tante dimensioni dei secoli trascorsi e futuri a venire potentemente cercano la nostra attenzione, ma allo stesso tempo li tratta con benevolo distacco e, tenendo il sole non a picco ma comunque ben alto sopra l’orizzonte, staglia lunghe le ombre al contempo illuminando con decisione i contorni del reale. La poesia di Bertoni è umanissima e onesta, e in questo ravvedo primo tra i grandi maestri del novecento che l’autore indica altrove come propri (Montale, Giudici, Sereni), in particolare l’influenza di Giovanni Giudici, il tutto però proiettato in una grande modernità e una grande contemporaneità nella quale Bertoni ha felicemente traghettato. Chiunque sia nato nel XX secolo ha dovuto fare i conti con la transizione dall’analogico al digitale, dal mondo degli ideali a quello del consumo e della matericità del presente, con una rapidissima evoluzione diacronica, fattori che hanno confuso non pochi autori in merito alla strada da intraprendere per rimanere al passo e non smarrire il giusto sentiero, ma il nostro individua per tutti noi punti saldi di valori in ricordi e puntate filosofiche che contraddistinguono i momenti alti dei versi. Ricordo una frase dal suo saggio Poesia italiana dal Novecento a oggi: “si avvera sempre il paradosso che i poeti davvero sommi recuperino l’afflato di affabilità profonda proprio delle lingue naturali, rivolgendosi davvero a tutti e non ad una ristretta cerchia – e tutta presunta – élite di iniziati.” Ecco, anche questa è un’operazione ben rilevabile nella scrittura bertoniana che non si lancia in evoluzioni neologistiche e installative o in sofisticati fuochi pirotecnici sintattici trovando le sue fondamenta di ricerca poetica in una comunicazione che arrivi lontano, insieme dando ampio distacco alla banalità del messaggio. Il lettore, che si sente senz’altro rassicurato a livello lessicale, può concentrarsi a cogliere le suggestioni, a godere delle metafore, a ritrovarsi in esperienze di carattere universale, a stupire di fronte al mistero della visione del mondo del poeta. Una laica sacralità accosta la carne allo spirito, lo scorrere della vita quotidiana ai piccoli miracoli che la costellano.

Alberto Bertoni uscirà a breve con un nuovo libro che però non conterrà le poesie che qui vi proponiamo, che sono inedite e fanno parte di una corposa raccolta dal titolo Semplici abbandoni che tocca temi molto vari – tra tragedia, saudade tutta emiliana e satura: lutti, amore, politica, destino, ricordo, amore filiale, emergenza pandemica, rete, sport e tanto altro.

 

Selezione di testi da Semplici abbandoni

 

… semplici abbandoni nel parcheggio affondato.

Amelia Rosselli, da Documento

 

Ogni mattina 

Microcefali microrganismi batteri
relitti sotto i tacchi quando esco
ogni mattina nel tragitto
casa edicola forno
per i due antiquatissimi giornali
che mi compro
e i tre panini al latte,
il terzo per il breakfast di domani

(Oppure fame, più semplicemente,
la fame di noi mortali)

 

Sul pianerottolo

Per fortuna mi piace
il cibo semplice

Semplice e modenese.
Pastalburro e coi fagioli,
polenta condita in tutti i modi,
una mezza fiorentina sulla griglia
con salumi d’ogni sorta:
tutto in dosi omeopatiche
per provare a sconfiggere il diabete

Ma lo so,
lo so che in questo modo
vivo senz’altro poco
perciò non ho bisogno
di ulteriori
informazioni e moniti
perché quando mai riuscissi
a nutrirmi d’insalate e altri
arbusti, ortaggi
o intrugli vegetali
cosa guadagnerei al più grande
benché non infinito
tempo che tutti accoglie
nel gorgo sottile di una polvere?

Un battito di ciglia,
lo scalpiccìo di un piede
incerto nello scendere dal letto
per la pipì veloce della notte
e dopo la vertigine dell’occhio
spalancato sul paesaggio
del nostro quartiere periferico
immerso nel silenzio
e nel delirio di fantasmi che piuttosto
osservo con l’altro
occhio interiore
danzare uno ad uno nel loro
girotondo di morte
senza segno di giorno addosso 
né parole
da rispondermi quando
annichilito li faccio
mettere in cerchio attorno
e non li riconosco più, non so
chi sono

 

Postfatto

 a Pier Damiano Ori

Nel silenzio del lockdown secondo
esco presto a caccia di un remoto
caffè da asporto

È domenica mattina e mi muovo
lungo un viale semibuio
come sempre vestito
più che casual, disarmonico
ma un chìssene sentito
è il motteggio profondo
da trasmettere al mondo
tutt’attorno

Mondo di foglie secche, gialle
sotto il mio piede esitante
ma mondo, anche,
di strade interrotte
e biforcazioni mai imboccate
per indecisioni ataviche, insistenze
a non prender posizione
in alcun modo e sempre,
sempre mollare le prese
appena s’affaccia il minimo rischio,
pietra d’inciampo su tutte
le possibili pretese
che il viaggio vada liscio

Questa è mia madre,
papale e letterale
senza vie di mezzo, scorciatoie
a passarmi il testimone
delle sue imperscrutabili, infinite
esistenze vuote

 

Provar vergogna 

Due biciclette appena rubate,
un po’ di masserizie sulle canne
e subito quella
richiesta di pane,
richiesta che d’istinto mi oppongo
a soddisfare

Non che io sia ricco
ma davvero varrebbero una briciola
per me
il pezzo di pane che mi è chiesto
o la scatola di Tachipirina 1000
di cui mi è mostrato
con gesto ancora più timido
un frammento

A dirla così mi sento
il peggiore degli uomini,
di non avere voglia mi vergogno
ma ancora più umiliante
è non compierla proprio,
alla fine, la carità del gesto
magari millantando
fra me e me un rifiuto
intenzionale, strutturale, ideologico

Tanto più facile
osservare nel muro
quel mattone più
fragile e più scuro,
inutile e balordo come tutto
il brutto che da questo
giorno infausto è venuto

L’insensata ipocondria, il lutto

  

A mia madre 

S’è affacciata la morte,
implacabile memoria,
nella fila di luci
che per te ho fotografato
l’altra sera osservando
Luni dall’alto
e subito ho pensato che il più caro
e chiaro di quei lumi
fossi tu,
ripartita invece da un attimo
e per sempre perduta
come la collana di turchesi che indossavi
ogni ultima sera di villeggiatura

Era la morte
nel mare già di piombo
quella linea più scura
dove andavo un tempo remoto
tutte le sere fino in fondo,
oltre il faro alla fine del molo
a nominare invano il tuo nome,
qualche volta a bestemmiarlo,
ed era soprattutto quando
lo invocava il maestrale al mio posto,
liquido e violento sulle labbra

Una luce strascicata
e come un biscotto trapassata
se nel tè lo tieni a mollo
quel momento di troppo
al principio del mattino
e il meglio sul palato è già svanito
assieme all’effetto da poco
del tuo nome così padano,
Luciana che strascichi la luce
fino a chissà dove

Cosa poi succede non lo so
se come tutte le volte che ritorno
dopo guardo più in alto l’incavo
della cima apuana con la sua
cava di marmo
nel mare rispecchiata

Bagliore di bianco, nient’altro
che l’ultima, l’ultima mia
fine dell’infanzia

 

La-la-la la Rivoluzione

Pura, anzi purissima, esclami
e non parli dell’acqua minerale
che insiste a proclamarti santa
sugli scaffali degli ipermercati,
animata più che altro dal gusto
della presa di distanza e dell’assenza
sempre e comunque
contro tutti e tutto… 

Io sono pura,
ti elevi orgogliosa,
e tu un mezzo cristo penitente
immerso fino al collo nel presente,
magnete di buio e di naufragio  

La rivoluzione è una stanza
dentro il cuore più dannato
e neanche il tuo, peccato,
Artaud Hendrix Caravaggio
lo è mai stato abbastanza  

 

Adriana e la bellezza

Bella che sei
fra gli amari e i caffè
nei fondi fangosi delle parole
come scendono lievi gli amanti
quando volano sui cieli
chiusi delle utilitarie
o su questa terraferma che stasera
non sopporta il saltellio dei merli
pronti anche adesso a becchettare
le briciole sui tavoli d’estate

Così noi le tovaglie macchiate le grinze
fra i resti di scorza delle arance

 

Weekend

Sotto un sole che inganna
e che incendia anche tutti
i rifiuti di luce
gli scarti le feritoie cosmiche
dove casuali, disarmoniche scintille
saltellano fra i riflessi delle buie
stelle già morte
di cui appendi il bagliore
al chiodo delle voglie più assurde
specchiate nelle nuvole
che t’incombono addosso
da pochissimo piovute
dov’è tardi
troppo tardi per le nostre
scampagnate vuote 

 

El condor pasa 

per Edmondo Berselli, in memoria

Mi dimentico di premere il bottone
dell’ascensore
e così sto sospeso
a coltivare emozioni futili,
inneggiando a sentimenti come
il primo album Panini
finito con tutte le figu
al loro posto,
il K-way, la cedrata Tassoni,
il camparisoda dopo
una vincita anche minima all’ippodromo,
la prima registrazione dei Beatles
e la punizione a foglia morta
di Mariolino Corso – no
a perditempo e imitatori,
serbi, argentini, portoghesi…

E va bene la vacanza, questo
alleggerirsi necessario dei pensieri
ma oggi posso dire che mi sento
un uomo assurdo
quasi quasi un condor vecchio
a mezz’aria sospeso
e indeciso a tutto
se giaciglio roccioso
o volo pieno

Il fatto è poi che i condor
io li ho visti davvero
assieme al mio coetaneo Stefano
Tassinari, in un taglio incredibile di sole
quasi al tramonto, sulle Ande,
non so ancora se alla fine o al principio
per noi di un’altra epoca

Era l’estate, ma laggiù l’inverno,
dell’Ottantuno
e noi procedevamo a colpi
di lotte dure e pure,
duro e puro per me
solo il poetico
pensiero, senza appendice di guerriglie
e nessuno scontro urbano
a illustrare il palmarès
perché come oggi convinto
che l’unico modo di lottare
nel mio piccolo
di piccolo individuo stritolato
da storia, biologia e denaro
sia stata e sia
prima poesia che azione,
conscio del filo
di una generazione
a mezz’aria inchiodata
come il più mancino dei tiri
senza figli né condor
col loro volo
mortifero e maestoso
ad immolarla

  

La casa del fascista

È la casa di un fascista,
la si indovina in prospettiva
dalla telecamerina del computer
lui online, adesso, blaterante
le nefandezze che ogni buon fascista
al giorno d’oggi difende:
credo sovranista e un energico evviva
a tutti i poliziotti del Wisconsin
capaci di sparare sette colpi
contro zero
al primo malcapitato nero,
meticcio o altro
purché non protestante, anglosassone
e bianco

Attorno tutto è candido,
nella casa del fascista,
pareti e soffitto, con tanto
di schermo ma di sé
non fa bella vista      
profilo di libro     
bruciato come gli altri dai suoi
ripugnanti padri
a Berlino in Opernplatz una sera
del maggio Trentatré

E così nessun libro
farà mai capolino
nella casa del fascista
nemmeno incenerito
su nessun muro del suo
domestico teatrino
fosse pure una guida del Touring,
un ricettario
o la biografia di benito mussolino
critica ma neanche tanto
con qualche revisionista precipizio
ante litteram

Oh, ma ante litteram è latino,
la lingua dell’impero restaurato,
e però lui, il fascista
come idioma è povero
anzi poverissimo
non gode del minimo eloquio,
s’impappina inciampando
nel deserto del suo lessico
così che di post-imperiale ha solo
quel pizzetto rado e rossiccio
intonato al camicino carminio
grazie al quale sarà al massimo buono
a prendere militarmente
un condominio

 

Laura sulla riva

Favolosa, si stendeva davanti a noi
nella luce del mattino una spiaggia
di sabbia compatta. Incideva una marea bassa
la traccia dei nostri piedi nudi
e sotto il cielo a chiazze
ci teneva all’asciutto
una striscia sottile di assicelle.
Cinque anatre starnazzavano verso
i nidi dell’accoppiamento, per un mondo
che sembrava vuoto

I venti marini bucavano la nostra solitudine.
Fra le dita avevamo sabbia
quando più deciso un orlo di risacca
le colpì le gambe
e dei miei pantaloni arrotolati
non si potè più ridere

Un’ansia di violente ondate
e per sottofondo quel claustrale
senso di reverenza
ci fecero tornare 
a ricomporre le nostre impronte cancellate
come se mai avessimo vissuto
l’idillio di un tempo
che tanto più valeva della storia
di quest’ora 

 

Nomi propri

Con gli addii
è il solito disastro

Dopo mio padre che un prete ubriaco
ha accompagnato dall’altra parte
chiamandolo per tutto il funerale
Gisberto invece di Gilberto
tanto che ancora lo penso
vagante in un pioppeto
dentro lo snebbiare lento
dell’ormai consueto
inverno non più inverno

Dopo questo mancato congedo
più o meno lo stesso
è successo l’altro sabato con Marco
quando con voce tonante
un suddiacono ha chiamato
sotto l’altare, per due
concise parole di saluto
un tale Livio o Emilio
Bertone professore,
autorizzato a traghettar di là
ma solo sotto falso nome
il grande Marco Santagata, esperto
di Dante, Petrarca e tutto,
tutto il nostro meglio

Così però quel suddiacono ha scambiato
il posto di Marco già assegnato
vicino, quasi dentro al Purgatorio
con quello di chissà chi altro
lì, nell’ingorgo di coloro
che per speculum in aenigmate
e cioè arrivati al dunque,
aspettano solo
d’imboccare all’incrocio
una strada qualunque

 

La distanza

Manteniamo la distanza
almeno di un metro

In eterno?

Mah, in eterno, io penso
che tutto misureremo
secondo un criterio
di credo non credo,
esultando per ogni
risicato zero a zero

In eterno vivremo
sull’isola brulla
deriva di vulcano
dove il sole latita
però il cibo non manca,
e va bene che
la solitudine ferisce
i meno previdenti
ma noi no di certo,
rabdomanti coi nostri
libri in abbondanza
qualche volta in eccesso
non fosse per questo
presente eterno
nel quale si constata
che il mondo virtuale
non è lo stesso
di quello pieno
di sudore, sesso
e dolore compreso,
perfetto ancora meno
quando, come adesso,
taglia i nervi, drammatizza
in rantolo il respiro
e tiene a distanza
la parola, il concetto

E intanto questo
inconsistente corpo dallo schermo
non fa sangue né silenzio,
sì e no si riconosce
dalle occhiaie in nero,
mentre qui, nel frattempo,
sull’orlo malfermo
del nostro privato
mondo di mezzo
continua a fare freddo
e a cadere ininterrotto
un pulviscolo di virus
e di gocce
dal cielo

 

Bianca, bianco

Questa distanza è bianca

E bianca non ho solo la maglia
ma capelli e mascherina
tinta su tinta
benché appena fastidiosa
inalerei con gioia
la neve dei pioppi
che se non li avessero abbattuti
da molto tempo
per fare posto a ippocastani e lecci
imbiancherebbe presto
molte strade di Modena

Oggi, poi,
è bianco anche il cartello
Rispettare la distanza minima di un metro
sbiadito come se il mondo
fosse già quasi finito e non
appena cominciato

Bandiera di resa,
lutto da ciliegio sfiorito

E bianco di nubi è lo sbieco
di cielo fra le case
appena il tempo di guardarlo
che di colpo è già nero
a promettere pioggia in eterno

Bell’aiuola di pesci fioriti
e di campanule a distesa
la ragazza amata un tempo
di sghembo profilo
e bellezza da black lady
nei sonetti di Shakespeare
bianca anche lei, adesso,
come madonna immacolata

Ricordo o pensiero?

Bianca come tenda
o come velo
ma non troppo, non tanto virginale
mentre porta di là dal paesaggio
l’idea di un tennis tutto bianco
il cui risultato finale
trovi in un amen confinato
nel virtuale

  

Zang tumb tuum

 a Lorenza, in memoria, e Afro Somenzari

Il grosso merlo
nero come un topo
saltabecca becchetta nello sporco
che circonda stamattina il cassonetto

Io, nel bagno
tengo gialli e dopobarba fin che campo,
qualcuno, anzi, dovrò lasciarlo
allo spettro che ogni tanto
ma non sempre riconosco
dietro lo specchio, subdolo, in agguato
dove il merlo e me condividiamo
non solo spazzature, ma ogni tanto
il più vero essere dell’altro,
curiosi, sottili, in movimento,
mentre sembriamo sotto casa al vento
così leggeri da spezzarci
e poi di colpo vittime del vetro
esploso in mille pezzi
con noi dentro

Crash, Bang, Striiich, Sdoing, Paff,
Zang tumb tuum!!! 

Lasciando scie di lacrime all’incrocio
sulle traiettorie senza sconto
di vite ormai lontane da ogni sogno
perché alla fine
nell’angolo nascosto
qualcuno è morto  

Mai più soleggiato corpo,
sintomo di fumo

 

Sì qualche storta sillaba

… ma il problema è come
nella morte riascoltare
chi di una città ci ha svelato
i dedali infiniti delle tane
intanto che i parchi
gli incroci i profili delle case
urlano implorano piangono
tutte le sagome più care

Come farfalle inchiodate
cose assolute abbandonate
nelle scatole da scarpe
o resti indecifrabili di sogni
ci faremo ogni tanto bastare
quelle poche ed assorte
sillabe roche
e alla fine
le indelebili loro 
voci distorte

 

 

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e Poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, dopo una serie di opuscoli, libretti, plaquettes inaugurata nel 1981, ha esordito con il volume Lettere stagionali (Book Editore, 1996, con una nota di Giovanni Giudici), a inaugurare una sequenza di sette libri, conclusa fino a oggi da Traversate (SEF, Firenze 2014, prefazione di Paolo Valesio), dalla silloge Poesie 1980-2014, Nino Aragno Editore, Torino 2018, dal libro in dialetto modenese Zàndri, Book Editore, Riva di Po (FE) 2018 e dalle traduzioni di Irlandesi, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2020. Per riscontro critico e diffusione, spiccano tra loro le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (2008, 2012, 2016), pubblicate da Book Editore e accompagnate da una poesia in versi pavanesi di Francesco Guccini oltre che da una nota critica di Milo De Angelis. Suoi testi sono stati tradotti in russo, inglese, francese, ceco, ungherese, arabo e romeno (Amintiri din Alzheimer. O poveste, Eikon, Bucuresti 2017, traduzione e cura di Eliza Macadan). Una sua antologia poetica è stata tradotta e pubblicata in lingua spagnola: El guardian del lugàr, Biblioteca fip, Granada 2010 (traduzione e cura di Raquel Lanseros e Fernando Valverde). Per Book Editore dirige le collane di poesia contemporanea “Fuoricasa” e “Quaderni di Fuoricasa”; per il Corsiero Editore la collana “Strumenti umani”.