Sogni di Emanuela Rambaldi | Undici. Il volo

 

 

Pratica dei pensieri cuscinetto. Indirizzare la mente verso un stato di oltre-reale consolatorio, seguendo la legge della verosimiglianza. Produrre fantasie in serie, improbabili da realizzare, ma possibili da raggiungere.
E sul ciglio della più sublime delle rappresentazioni, abbandonare ogni volontà, ogni aspirazione. Lasciarsi cadere.

Heléne li usa per distrarsi dall’angoscia, fuggire dal fragore diurno e dall’ansia notturna, cullarsi, addormentarsi.

Secondo il buddismo ogni volta che si intraprende un’impresa i demoni si mobilitano per impedirne la realizzazione. Sarà per questa loro tentazione continua sulla volontà, che agire è così difficile e lasciarsi andare così facile.

Eccomi. Raggiungo il mio limite. Sono qui per abitare il mio desiderio.
Eccomi. Di ritorno.

Heléne arriva la mattina presto. Christine la accoglie, le mostra la stanza, tutto bene il viaggio in treno? Lungo, ma piacevole, letto molto, ascoltato molta musica. Sorrisi, strette di mano.
L’accompagna in terrazza, dove ha allestito un tavolino sotto un ombrellone, nell’angolo di sinistra, vicino alla ringhiera.

Christine se ne va. Heléne guarda la spiaggia, il mare, la linea della costa, fin dove lo sguardo si offusca.
Alza gli occhi al cielo. Una coltre di nuvole sale da ovest verso il mare, ma giunta al sole si dissolve in decine di masse piccole e soffici che si disperdono veloci nel cielo di un azzurro imperturbabile. Una magia che la rapisce. Per un attimo è preda della vertigine, teme di cadere. Si siede.

Come ci si difende dall’aggressione dei ricordi, quando ci prendono alla gola e dilaniano quella parvenza di equilibrio che così ostinatamente cerchiamo di esporre al mondo?

Le estati, da bambina, avevano una colonna sonora spensierata, all’interno della quale volteggiavo, come in un film. Ammiccavo alla vita, provocante. Qualcuno sussurrava alla mia gonna cortissima – che follia. Ma il calore inebriava ed ero nata sotto il segno del sole.
Assaporavo il vento, deglutivo l’odore della salsedine. Conservavo con cura la visione della sabbia sulla pelle. La stipavo nella mente insieme a tutti gli altri ricordi, li immagazzinavo per i tempi bui.
Celebravo riti. Esercizi per fermare il tempo, per dilatare l’elastico della vita. Il saluto al sole, il risveglio pigro, la risacca della bassa marea, la tranquilla malinconia dei tramonti.
Perché sapevo, prima o poi, mi avrebbe assalito la paura di tutto, del fuoco, della pioggia, del vento, della povertà, della gabbia, della solitudine, della morte.

E ora. Questo presente mille volte immaginato, Heléne non ricorda neppure più come se l’era aspettato. E perché. Le sembra di avere solo motivi per andarsene. Sente sopraggiungere l’inquietudine. L’ansia diventa fisica, un formicolio che parte dalle cosce, sale verso i glutei e abbraccia il ventre.
D’improvviso non riesce più a controllare i muscoli. Le sembra che ogni frazione del suo corpo stia tentando di staccarsi dal resto, per liberarsi, per gettarsi ovunque purché lontano da lei.
Pensa, per un attimo, di alzarsi, rinunciare all’incontro, nel tentativo di liberarsi dalla visione di se stessa.
Fuggire, riprendere il treno, cercare un angolo nascosto per rileggere Quattro notti di un sognatore – reinventarlo – ritrovare le notti gelide di Pietroburgo – il miraggio – il letto povero sul quale sdraiarsi e assopirsi – il corpo senza più peso, affidato al solo sogno.

Cosa ci faccio qui, in questo momento, che non merito. Che senso ha, perché ho finto che non potesse accadermi niente di male, tornando qui. E invece, è bastato qualche minuto per evocare ricordi che finiranno per perseguitarmi di nuovo senza sosta.
Poi.
Non lo sente arrivare. La voce profonda e ferma la fa trasalire.
Poi.
Improvvisamente, inspiegabilmente un’ondata di calma la sommerge.
– Alla fine, malgrado alcuni giorni di cattivo tempo, possiamo dire sia stato un inverno mite.
Heléne si volta. D’improvviso, silenziosamente, impercettibilmente, sorride.
Anche quel sorriso, trapelato senza volontà, che proviene dalle zone più profonde dell’addome, che lui ha irrimediabilmente già notato, anche quello, come tutto il resto, potrebbe sembrarle oscenamente fuori luogo.
Ma lui ha ripreso a parlare e in quella voce lei galleggia, come in una grande bolla nella quale perdersi – annullarsi – lasciarsi scorrere, fantasma liquido anch’essa.
Però, ora, abbiamo tutti bisogno di primavera, di una rinnovata giovinezza. Per decretare la fine di ogni freddo, per delimitare un confine. E’ una data che amo, questa, ventuno marzo, la rinascita ciclica, e quella di una poetessa sublime. Sono lieto di fare la sua conoscenza. Le auguro un inizio radioso.
Si avvicina. Distende il braccio, le offre la mano.
Heléne fa lo stesso. E nel calore di quella stretta, decreta una tregua. Perché il timore che alla felicità segua la rovina non sia più motivo per indossare la paura come una scaramanzia.

         

***continua***