Sogni di Emanuela Rambaldi | Tredici. Taj Mahal

 

 

Le storie esistono solo nelle storie. La vita scorre nel corso del tempo.
Wim Wenders

 

 

Qui, dove siamo ora, ogni nostra sincerità inizia con un passato non voluto.
Uno sforzo incommensurabile – e del tutto inutile – quello della negazione.
Ogni nostra verità – qui, dove siamo ora – non può che essere insensata.

Caro Michel, mi sembra di vederla, la tua smorfia. Le labbra che si arricciano, e rimangono, indecise.
Anche tutte le menzogne che usiamo raccontarci sono così. Sempre e comunque ideali. Rivoluzioni. Guerre, mai.
Mi sembra di sentirti. Ogni amore è scontato, prevedibile. Persino quando è inestinguibile.
Poi le tue labbra a poco a poso si rilassano. Lo so. Finirai per sorridere.

Lei era un’attrice. Teatro d’avanguardia. Talento inquieto e fascino inconsapevole. Ineluttabile salisse sul palco, non sapeva fare altro.
Lui era impudente, spavaldo, smanioso di vita. Un amico gliene aveva parlato e una sera era andato ad un suo spettacolo, giovane Werther irrimediabilmente già perduto.
All’uscita, l’aveva aspettata. L’avrebbe fatto centinaia di altre volte.

Per prime erano venute le parole, distesi uno accanto all’altro, e le risate. Lei diceva dell’emozione delle prime, dei testi da mandare a memoria, dei viaggi, degli incontri, quelli da tenere, quelli destinati all’oblio. Lui assaporava quell’universo di colori sconosciuti e di accattivanti zone d’ombra, un po’ divertito, un po’ geloso.
Poi, era arrivata la fame. Il desiderio è la narrazione che chiede di diventare vita. Il racconto non basta più e oltre alle parole si pretende la sazietà, che viene dalla pelle. Dal ritmo, dal battito tenue, dall’attardarsi nell’esplorazione, nella scoperta che viene prima di ogni esperienza, di ogni abitudine.
Giocavano.
Contavano gli amanti passati, inventavano quelli futuri. Recitavano le loro notti, ritraendosi, offrendosi, fingendosi pudici, rivelandosi oltraggiosi.
Quanto può continuare un amore così, votato alla dissipazione, senza meta, senza scopo se non se stesso. Un amore che non costruisce, non un futuro, non la stabilità, non la continuazione della specie. Un amore che non serve a nulla.
Può finire come tutti gli amori, frantumato dalla realtà.
Oppure dura per sempre, malgrado la vita trascini altrove.

Perché te ne parlo?

Perché quella notte ero stata assalita da un incubo, di quelli che mi lasciano stremata, i muscoli in preda a scosse incontrollabili, e a nulla serve sedermi sul letto, respirare a fondo, come mi hai insegnato tu, perché sono terrorizzata all’idea di addormentarmi di nuovo.
Allora ho pensato di salire in terrazza, ma quasi in cima alla scala mi ha bloccato un rumore o piuttosto un suono, una specie di lamento, un guaito, ma umano, che non riconoscevo.
Un tintinnare di vetro.
Ho trattenuto il respiro, ho ascoltato.
Ho inventato.
Una bottiglia che viene sollevata da terra, portata alle labbra, appoggiata di nuovo, con lo slancio di un gesto scomposto.
Un suono confuso con la melodia della risacca.
Sillabe allungate, che finivano in un’eco, vagamente suadente.

Eccoci, i gabbiani ed io, a stridere alla luna. Possiamo rimanere qui per sempre.
Vieni?
Questa notte planiamo calmi sull’acqua. Abbiamo quegli sguardi sghembi e tirati che un tempo amavi.

Una risata strascicata. Ancora tintinnare di vetro.

Ci vedi? Siamo un po’ smarriti.
È perché non sappiamo più, i gabbiani ed io, perché ti abbiamo amato tanto.
E tanto a lungo.

Devo aver fatto rumore perché la voce si è interrotta. O forse si era solo smarrita.
Chi era? A chi si rivolgeva? D’improvviso, non mi sembrava avesse importanza.
D’improvviso, ho desiderato poter essere io la sua ossessione, il suo delirio, qualunque fosse. D’improvviso avrei voluto abbracciarlo, consolarlo, tenerlo, salvarlo. Prendergli il viso tra le mani, dirgli, eccomi, sono qui per restare. E baciarlo, come se fossero gli ultimi baci della mia vita, profondi e interminabili.
Sarà l’età, il non avere reputazioni da difendere e nulla da dimostrare. Per questo può capitare di essere così incoscienti.
Sono salita. Mi sono avvicinata.
Lo straniero era seduto a terra, in un angolo. Ha cercato di alzarsi, ha vacillato, mi è caduto addosso. Mi ha guardato senza sorpresa, gli occhi lucidi. Ha respirato contro il mio viso. La voce, ora, un sussurro.
– Non voglio guarire.
Si è scostato un poco dal mio viso. Ha sorriso.
– Se questo è il mio veleno, è di questo che voglio morire.
Non l’ho baciato.
L’avevo riconosciuto.

Così, caro Michel, in una notte di primavera insolitamente calda, ho ascoltato questa storia, che potrebbe essere regalata al libro di Hélène e Robert. Ma non lo sarà.
E lo so, che ogni storia viene dalla memoria che ne abbiamo, e la memoria mente sempre. Ma che importa.

Forse lei era partita.
Forse l’aveva fatto lui.
Forse per lei non erano importanti le partenze, ma soltanto i ritorni.
Forse per lui non esistevano partenze.
Forse, semplicemente, erano scomparsi, l’uno all’altra.
Altrove.
Perché la vita – più della morte – divide.

Tutto, per esistere, si trasforma.
Quando l’amore è mancanza, diventa altro. Da subito, con foga, attraverso il corpo, lui aveva rivendicato il suo diritto al vuoto.
In quella deflagrazione potente che solo l’orgasmo provoca, aveva deciso che in questo modo di lei sarebbe rimasto solo il nome, senza alcun potere, nient’altro se non la parola, fredda, che la annullava, la annichiliva.
Come chi cade da molto in alto e rimane a volteggiare qualche secondo nell’aria, lui aveva scelto di prolungare la sospensione, facendola assomigliare ad un’appagante – indefinita – pausa dalla vita.
Convinto che tutto sia illusione. Tranne il piacere.

Ma niente, caro Michel, dura per sempre. Neppure l’oblio.
Basta un profumo, un colore, una somiglianza. Una data. La memoria torna ad intrappolarci. Persistente. Lacerante. Perché ogni nostro vuoto, malgrado gli sforzi, vuole essere riempito. La coscienza del nulla ci stordisce e scopriamo di essere tra quelli che non sanno bastare a se stessi, che esistono solo nel desiderio, ma che non sanno morire d’amore.
Lui aveva tentato ancora. L’aveva data in pasto al mondo, come un pettegolezzo. Pronunciata, nominata, svilita, resa mortale, per sempre tradita.
Ma era servito solo a fare di lui una sbiadita versione di un se stesso vanamente crudele.

Lo so Michel, cosa pensi. Tormenti da canzonette. A questo si riduce la nostra vita. Noi, che non abbiamo bisogno di conquistarci la sopravvivenza, possiamo permetterci la libertà di cullarci tra la perdita e il desiderio.

I pensieri, a forza di usarli, si sfilacciano, i ricordi inaridiscono. E lui si era ritrovato solo. A volte gli sembrava persino di averla sognata, che non fosse esistita realmente. A volte credeva di averla inventata per allontanarsi dalla vita. Per perdere senso. Definitivamente. Per consumarsi, dissolversi. E trovare, alla fine, la sua vocazione alla rovina.

Quando era arrivata Christine, era rimasto solo il silenzio.
Tra attacchi di panico, crisi di narcolessia, bruschi risvegli, le ossa impregnate di umidità, avevamo raggiunto quasi il sorgere del sole.
Lei aveva guardato la nostra massa informe di vestiti sgualciti, palpebre pesanti, sguardi intorpiditi.
– Vi ho portato delle coperte. È sereno. L’alba sul mare sarà bellissima oggi. Sarebbe un peccato perderla. Conviene resistiate ancora un po’.
– Christine è una donna saggia. – aveva detto lui.
Aveva l’aria di un uomo appena svegliatosi da un sonno durato millenni, il volto attraversato da rughe sottili come se una ragnatela vi avesse lasciato un’impronta indelebile.
Ci siamo aiutati ad alzarci. Barcollanti, ci siamo lasciati cadere sulle sdraio.
– Pare che a Zelda e Francis bastassero un paio di bicchieri per cadere addormentati. C’è qualcosa di più bello che sprofondare e fluttuare insieme a chi amiamo? Fusi. Liquefatti, inermi. Un’unica materia informe, indistinguibile.
L’ho guardato. E mi è sembrato di vederlo per la prima volta.
– Vi devo sembrare davvero patetico. Quando sono ubriaco, non resisto al melodramma. Dall’alcol tutte le volte mi aspetto un miracolo e invece non resta che un tremendo mal di testa.
Poi ha riso e mi ha rassicurato sentirlo così, come lo conoscevo.
– Mi fate preoccupare.
– Non dovete. Ci sono stati anche lunghi periodi che somigliavano ad una guarigione. Ci saranno ancora. Non ora, non subito, ma ci saranno.
– All things must pass.
– Si impara a conviverci. Tutto qui. Poi capitano momenti in cui ci si dimentica di averlo imparato.

Chi siamo Michel? A crazy bunch of people? I disadattati? Quelli che non trovano posto? The misfits ma senza Marilyn e Clark?

Avevo esitato, perché volevo trovare il tono giusto, qualcosa di diverso dalla compassione e dal rimpianto.
– Dunque, Marcel, oggi è il vostro compleanno.
– Sì, Giselle, ma il mio nome è Paul. Questo albergo è mio. E, più di ogni altra cosa, mia, è questa terrazza.

Accucciarsi nell’angolo più buio del dolore, rattrappirsi ai borsi dell’angoscia, farsi larva, avvolgersi nella più cupa delle disperazioni, non era bastato. Buttarsi a capofitto nella più esaltante fisicità, neppure.
Era stato necessario qualcosa d’altro. Così Paul, aveva costruito la terrazza. Il suo Taj Mahal.
Perché un giorno o l’altro, per caso, forse lei l’avrebbe sorvolata, e dall’alto avrebbe deciso – per un impulso irrefrenabile – di scendere. E fermarsi.
Proprio lì.

         

***continua***