Risonanze di Massimo Parolini | Per arrivare da mia madre: nota su “La dittatura dell’amore” di Antonio Nazzaro (Delta 3 Edizioni, 2022) 

 

«quando la malattia
tocca gli occhi dello sguardo
da sempre veste e riveste
in un muto parlare
gli anni della vita
resta una sola domanda
come si piangono
i vivi?

(6 settembre 2021) »

 

Così inizia la silloge “La dittatura dell’amore” (Delta 3 Edizioni, collana di poesia Aeclanum, diretta da Eleonora Rimolo, 2022) dedicata interamente da Antonio Nazzaro alla madre, accompagnata nel suo percorso di malattia al termine del viaggio terreno. «Perdere la madre è sempre un dolore scompaginante e irrimediabile» ricorda Stefano Simoncelli nella sua prefazione. Perché, La dittatura dell'amore - Antonio Nazzaro - copertinaeffettivamente «non si può mollare, la vita va avanti e quella donna minuta, fragile, ammalata, alla fine esce dal buio del lutto e diventa luce sulla pagina […] Un libro di versi che lo ha aiutato ad elaborarne il lutto e a prendere, per quanto sia possibile, le distanze dai ricordi mettendoli su una pagina con molta fatica, porvi un distacco, una luce nuova che li illumini senza la rabbia e il dolore accecante della perdita. Sono versi pieni di disperazione, amore e tenerezza» (ibid.).

Il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer in La dialettica di Hegel ricorda ciò che è rimasto conservato in alcuni fogli scritti da Hegel nel periodo di Francoforte: «la vita è identità dell’identità e della differenza; ogni vivente è collegato al suo “altro”, col suo ambiente, in un continuo scambio di assimilazione e secrezione». Questo appunto di Hegel costituirà nel Novecento l’assunto fondante di molte riflessioni concettuali di pensatori che hanno scelto proprio il rapporto  dialettico di reciprocità fra l’io e l’altro quale fondamento della propria analisi attorno all’uomo, da E. Levinas a A. Honneth (terza generazione della scuola di Francoforte) a P. Ricoeur. Per quest’ultimo l’io è alla sua origine estraneo a se stesso: riprendendo la famosa illuminazione del giovane Rimbaud nella Lettera del veggente («Io è un altro») egli scrive il saggio  “Sè come un altro” dove tematizza l’idea che l’estraneità del soggetto si supera solo nell’incontro con l’altro che dà senso ai propri vissuti e alle proprie azioni, rendendole significative, in un processo che dura l’intera esistenza.   Tale processo dinamico prende il nome di reconnaissance (riconoscimento), termine che in francese ha la doppia valenza del riconoscere (qualcuno, qualcosa) e dell’essere riconosciuti, oltre all’ulteriore significato di  riconoscenza, gratitudine, ringraziamento per un dono-atto positivo ricevuto, essere debitori: «Non è forse nella mia identità più autentica che io chiedo di essere riconosciuto? E se, per fortuna, mi capita di esserlo, la mia gratitudine non va forse rivolta a tutti coloro i quali, in una maniera o nell’altra, hanno riconosciuto la mia identità riconoscendomi? » (Ricoeur & Polidori, 2005). Questo processo di «riconoscimento-riconoscenza» permea di sé tutta la silloge di Nazzaro.

Dal 6 settembre 2021, lungo tutti i grani del rosario della malattia materna (cancro e alzheimer), fino al 22 aprile 2022 («la mia Zambonina se ne è andata a passeggiare/ su quel paramo andino dove la terra si confonde/ col cielo») e una coda a lutto che giunge al 6 giugno 2022 («il vuoto delle parole/ è il sottovuoto dell’anima/ orfanità d’emigrante/ […]/ mancanza di terra/ assenza di madre») il poeta è protagonista di una quotidiana messa a dimora in versi delle proprie emozioni e dei propri sentimenti più profondi in tale dialettica del riconoscere, essere riconosciuto, avere riconoscenza, conficcando, ungarettianamente, la data dell’episodio ridotto in versi, in una testimonianza  dalla trincea del dolore in prima linea che ha bisogno di fissarsi nella temporalità precisa.

Riprendendo Paul Ricoeur e la polisemia del riconoscimento, e applicando tale pluralità semantica al soggetto in quanto “figlio”,  il sociologo e filosofo Pierpaolo Donati afferma  che nel riconoscimento del bambino (poi adulto, sempre  in quanto figlio)  si testimonia la sua dignità   nell’ingresso nella società, intrecciando l’attribuzione di un’identità, l’accettazione come vero,  il dono della propria gratitudine. Il figlio ha dei genitori da cui è veramente nato e perciò riconosciuto, in un contesto sociale.

Il poeta, adulto, sente incrinarsi la sicurezza di Zambonina (come chiama la madre, di cognome Zambon, migrante col figlio in Venezuela e Colombia per undici anni) e i ruoli si ribaltano, inevitabilmente: ora deve essere riconoscente, restituire quella sicurezza, protezione, donare il suo tempo, le sue attenzioni, prendersi cura di lei:

«vorrei essere un badante poetico
avere un sorriso stampato
sulle labbra come un verso
rispondere in rima ad ogni chiamata
arrivare con passo di danza
e gli occhi amorosi
ma il tempo spacca il verso
le risposte si seccano
sulle labbra come imprecazione
lo sguardo nervoso
il passo trascinato
ma arrivo sempre madre
sempre
(10 settembre 2021)  »

 

« Malattia. Ottavo giorno. Troppa luce.

notte a camminare sul bordo di un letto
non mio non mio
non mio
a sostenere un respiro in equilibrio
a sfiorare una mano da cui scappare
e poi sempre ritornare
a contare i tempi della note
senza stelle senza stelle
senza stelle
a scacciare il dolore con una bestemmia
con un po’ d’amore di canto sussurrato
ci sono ci sono
ci sono
aggrappato a lenzuola che si fanno mare
per non farti affogare
per io
non naufragare
un bacio in fronte
e poi
scappare scappare
scappare
via
(11 settembre 2021) »

 

«Malattia. Nono giorno. Persiane abbassate.

di nuovo qui
sembra che culli
ma è un dondolare inconsulto
e mani a tremare
a stringere forte ma forte
l’aria
di nuovo qui
a vedere te
davanti a una sorella
dalle parole senza suoni
dall’urlo epilettico
a squarciare il petto
di nuovo qui
su quel marciapiede di Caracas
a fermare chi vuole ridare fiato
a quel corpo caduto chiamato padre
di nuovo qui
madre
una smorfia di pelle secca
e gli occhi sempre bambini
a dire non avere paura Antonio
ti cullo io
di nuovo qui
a giocare l’ennesima partita persa
ma non mollo
con Daniela in una mano
e il Nano nell’altra
ti colpisco
tacita e furiosa impotenza
ti abbatterò
(12 settembre 2021) »

 

Il primo “altro” di cui, appena generati, iniziamo a fare esperienza, è la madre. Dagli studi di Freud sulla relazione del neonato con la madre, legata al suo narcisismo primario teso, per vincere l’angoscia della fame, al soddisfacimento -tramite il seno- dei bisogni fisiologici primari, c’è stato tutto un pullulare di   teorie sul legame e l’attaccamento   madre-figlio: basti ricordare, fra gli altri,  quelle di Melanie Klein, John Bolbwy, Harry Harlow, Donald Winnicott. Molti di questi studi  (ad esempio quelli del pediatra-psicoanalista inglese Winnicott) hanno dimostrato la connessione fra i felici legami affettivi e la capacità nell’infanzia di trovare un bilanciamento fra simbiosi (con la madre) e autoaffermazione del bambino, fra la necessità di autonomia del sé e  il bisogno di riconoscimento, nella tensione fra necessità dell’altro e della propria libertà. L’autostima, necessaria alla crescita matura di un individuo, parte dalla consapevolezza della sicurezza emotiva, accettando con tranquillità il vissuto della separazione e della differenziazione dalla madre (e, in generale, dal soggetto amato). Il riconoscimento si apre alla semantica del dono. Il dono di sé caratterizza la vita di coppia, mentre il dono della vita fonda la relazione genitoriale (in Freud il dono è, ricordavamo sopra, proprio la presenza della madre che tramite il cibo soddisfa i bisogni del bambino liberandolo dall’angoscia del nutrimento).
Con la nascita si dona, si trasmette appartenenza attraverso la legittimazione. Infatti appartenere significa essere riconosciuti e legittimati. A partire dal riconoscimento dell’altro si può averne cura, donarsi: una parola, un’azione, uno sguardo, una carezza tattile: atti fisici di valenza simbolica per il riconoscimento dell’importanza dell’altro. Gli studi e gli esperimenti dello psicologo statunitense Harry Harlow sul legame di attaccamento madre-bambino portati avanti sulle scimmie macao hanno dimostrato che la presenza della madre (garante della protezione-sicurezza più che del soddisfacimento alimentare primario) e il dono dell’affetto, fanno nascere un debito positivo che genera nei figli il bisogno successivo della cura.

Nazzaro veglia la madre, è combattuto in una dialettica di restituzione affettiva e curativa da un lato, di senso di colpa dall’altra («Vorrei chiederti scusa/ per tutto il male che ti ho fatto»), che ci evoca alla mente la veglia-cura di Zeno Cosini al capezzale del padre.

 La cura, come l’invito ad uscire e prender aria, passeggiare, hanno un’eco della Consolazione dannunziana (dal Poema paradisiaco: «Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire»): «Usciamo». Ma subito, grottescamente, il dettato dannunziano si rovescia nell’azione della malattia che spinge la madre a decidere di pulire il pavimento: « e tu “No devo lavare il pavimento” “Lascia stare ma’”. Ma niente prendi lo spazzolone e ti metti a passare
lo straccio». E di Consolazione riprende anche il desiderio di cullare («Poi per te sola io vo’ comporre un canto/ che ti raccolga come in una cuna»):  «di nuovo qui/ sembra che culli/ ma è un dondolare inconsulto/ […]/ ti cullo io/ di nuovo qui». Ancora una volta l’eco dannunziano si frantuma e capovolge. Eppure, Nazzaro ha più fortuna, del Vate, nella relazione con la madre malata di alzheimer: ha di fronte un tu che gli corrisponde, che lo chiama in modo scherzoso ed intimo, che lo carezza, come fa lui, che gli è complice, chiedendogli di fumare assieme, di concedergli un piccolo vizio-piacere («mi dici: “Andiamo a fumare” “Va bene”. Tutti e due seduti sulla vasca aspiriamo la sigaretta come se fosse vita »; « “Si sta bene al sole, fammi fumare sul balcone”. “Va bene ti faccio compagnia” » ): in una parola, lo riconosce e gli è, lungo la malattia, riconoscente per la sua vicinanza. Al contrario, la madre -probabilmente malata- di d’Annunzio, non corrisponde al figlio, ha lo sguardo assente, sembra non ascoltarlo, non udirlo: e ciò genera stizza, nel Vate, frustrazione: «Perché ti neghi con lo sguardo stanco? »;  «Io parlo. Di’: l’anima tua m’intende? »;  « (di’: l’anima tua m’ascolta?) »; « (m’odi tu?) ». Una complicità divertita, spesso, quella di Nazzaro, con una madre capace di ironia e autoironia, anche sulla propria sorte e quella del figlio badante: «Ti accompagno in bagno mi guardi con la tenerezza del dolore. “Sono una cattiva madre. Non si fanno i figli perché ti cambino i pannolini” »; «  “Dammi una sigaretta figlio degenerato” e di sottocchio mi guardi e ridi». Complicità con un figlio che sembra, per allontanare lo spettro dell’imminente non essere più riconosciuto, tornare un bambino di 10 anni, accarezzato e morso affettuosamente dalla mamma, e che con lei inscena perfino una gimkana in ricovero facendo correre la madre con la sedia a rotelle:

 

«Malattia. Gimkana. Sole.

fammi fare un giro
afferro le manopole della sedia a rotelle
poi di colpo si fanno acceleratore e frizione
broooommm broooommm
e iniziamo una gimkana tra sedie e anziani
dici sei matto?
ma poi fai
poti poti pistaaaa
e ridi
prendi sotto l’infermiera e anche il rompiballe
                                                    [con l’alzheimer
broooommm broom bromm
poti poti spostati poti poti
la felicità non costa niente
(25 marzo 2022) »

 

Curare, nutrire affettivamente, anche attraverso vicendevoli carezze e baci in fronte di riconoscimento e riconoscenza reciproca: ma,  nell’ ultima fase, dopo l’entrata della madre in una Residenza sanitaria assistenziale, cura diviene “preoccupazione”, dettata dal pudore filiale, che sia tolta la dignità alla madre: «aver cura/ madre/ che ti tolgano la dignità/ so che non vuoi essere/
imboccata cambiata lavata».

Ricoeur pone al centro delle sue riflessioni il concetto di “identità narrativa” costitutiva dell’ipseità, secondo cui il soggetto costruisce la propria identità nella forma di un racconto personale. L’identità narrativa consente di superare la concezione secondo cui il soggetto è senza storia. Il racconto quindi si pone come mediatore tra la storia dei riconoscimenti e quella del riconoscersi. Nel racconto, la persona ricostruisce la trama delle proprie relazioni costruendo e rivedendo proprio attraverso il racconto sé stesso. L’identità narrativa è fondata sulla responsabilità e si alimenta della storia degli altri. Attraverso la propria storia raccontata, l’uomo scopre la propria identità come segmento dell’altrui storia di vita. E questo vale pienamente per “La dittatura dell’amore”. Ad un certo punto, però, il rischio del non riconoscimento (reciproco), con lo sviluppo dell’alzheimer, si fa quotidiano, e il poeta si sente sempre più catturato nel vortice della malattia (non sua)

: «Mi guardi. “Chi sei?”/“Sono Antonio”. “Ah, sì, vai vai”. Scrivo. Forse/ per non perdermi»; «e un buongiorno a uno sguardo/ che cerca il giorno/ che ti chiede chi sei/ e come sempre rispondere/ tuo figlio Antonio»; «nuoto nella malattia/ su una riva nera l’oscuro/ abbraccio del cancro/ su una riva bianca/ l’accecante luce/ del bacio della demenza»; «sguardo che ti guarda/ come si cerca un ricordo/ un volto forse conosciuto/ diventare ombra/ negli occhi materni/ chiusi come una finestra»; «arrivano messaggi/ non sono mail/ né sms/ parole dilaniate dalla sofferenza/ emesse da una bocca che non riconosco/ e mi chiama figlio/ il delirio attraversa gli occhi/ i muri la distanza/ riecheggia quella voce/ un tempo/ rimproverava e proteggeva/ adesso/ urla senza dire/ e io ascolto/ questo rosario d’ossa/ che cerca/ di sfuggire alla morte»; «lineamenti a disegnare un cranio/ ma non un viso/ e ti riconosco appena/ mamma».
 

Cucinando  «un banchetto di dolore» il poeta-figlio si impegna quotidianamente in  «gesti che si ripetono/ cambiare il pannolone/ lavare la pelle raggrinzita/ di un corpo che si lamenta/ tradurre poesia e/ preparare un tè/ riunire le pastiglie delle 10/ pulire il bagno e rifare il letto/ una carezza ai grigi capelli/ mossi dal vento del cuscino». La sua sofferenza risiede nella consapevolezza di fungere da psicopompo, accompagnatore nell’ultimo tratto della vita materna, pur nella necessità della restituzione riconoscente, che cambia il pannolone alla madre:  «sollevo in un buongiorno il corpo malato/ disfo il letto e cambio il pannolino/ che mi sorride o forse è mia madre/  a sorridere tuto è appannato/ meno il cuore che batte lento
come a seguire i gesti dell’anziana/ vita che inseguo nel suo cadere»; «t’imbocco come un figlio perduto/ alzo la copertina lentamente come un sudario». Accompagnamento di un corpo che cade, si rimpicciolisce, si mummifica, come una mummia andina degli Inca: «cerco di non abbandonarti madre/ o involucro di una vita mummificata/ tra pelle raggrinzita e uno sguardo sospeso/ tra rimprovero e tenerezza/ non sapevo che avrei tenuto per mano la morte/ né di baciarle la fronte».

Accompagnamento che non risparmia la denuncia in stile Giobbe a Dio, cui il figlio dedica la sua indifferenza: «a te che porti via/ non avrai la mia fede né il mio odio/ hai rubato/ l’uomo più buono che ho conosciuto/ che dicono padre/ hai fatto sorgere e spegnere Daniela/ che mai ha saputo di avere un fratello/ hai appeso alla corda dondolante Virma/ e con lei mio figlio/ hai sottratto al gioco infinito dell’amicizia Dario/ adesso strappi/ chi mi ha sentito prima che vedessi la luce/ e chiamano madre/ ti resterà la mia indifferenza/ e graffi sulla terra».
 

La cura di salvare la dignità della madre nella degenerazione progressiva della malattia e della vita che decade, porta Nazzaro a invocare, inutilmente, il diritto all’eutanasia: «un pudore assurdo/ la mia mano a chiudere la tenda/ come si vive senza madre/ desiderandone la morte? »;

«ma l’unico posto che vuoi/ occupare degnamente/ è la morte/ e non l’avrai»; «perdona questa vigliaccheria ultima/ a sporcare il cuore»; «sai hanno bocciato il referendum per l’eutanasia».

La sarta che, come ricordava il premio Nobel per la letteratura Tranströmer, ogni tanto si avvicina di soppiatto e ci prende le misure,  «lascerà il suo corpo/ sul piatto/ l’altro l’ultima/ pasta madre».

Il poeta sa che la fine di Zambonina significherà la propria mutilazione, la perdita della visione, delle immagini, di un mondo presente nella mente di quell’essere unico e creatore che era la madre; eppure attende la sua fine come un atto di liberazione:

«svaniranno d’improvviso tutte le immagini
dietro il tuo sguardo
quelle che mi vedevano bambino
e che non ricorderò più
e quelle della vita tua e mia
che mai ci siamo detti
non resteranno le tue parole e come le poesie si
                                                             [perderanno
non ci saranno più i luoghi comuni nostri
al tuo scomparire inevitabilmente
scompaio anch’io
eppure aspetto la tua morte come una
                                                            [liberazione
come un oblio
la memoria accoppia vivi e morti
sogni e storia
(18 aprile 2022) »

 

Dicevamo, all’inizio, della necessità (da porto sepolto ungarettiano) del poeta di annotare, in calce, giorno mese e anno di ogni poesia; nelle prime si tende anche a numerare, nell’incipit, il giorno dall’insorgere della malattia: si inizia da «l’ottavo giorno» per poi giungere a «giorno non so», «giorno non importa», «giorni non contati», «giorni sparsi». La conta, però,  si sfilaccia nel profilo della malattia che può liberare solo nell’oblio che unisce, accoppiandoli, i vivi e in non vivi. Donando, nel raccontarsi in versi, ad entrambi la pace.

 


Antonio Nazzaro con la madre “Zambonina”

Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963) è giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Da giovane si è trasferito in Messico come professore di lingua italiana per stranieri. Ha quindi vissuto per molti anni a Caracas, in Venezuela, dove ha lavorato come giornalista, traduttore e coordinatore didattico dell’Istituto Italiano di Cultura e, dopo il 2017, in Colombia, a Bogotà, per poi tornare in Italia,  in Trentino (Valsugana). Fondatore e coordinatore del “Centro Cultural Tina Modotti” ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019), Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Aeclanum, 2022), il libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Svariate le sue traduzioni poetiche dall’italiano allo spagnolo (e viceversa). La sua ultima fatica,  la recente traduzione dei Canti Orfici di Dino Campana per una casa editrice argentina.

La dittatura dell’amore (Aeclanum, 2022) è un diario poetico dedicato alla madre malata di cancro ed alzheimer, da lui seguita e curata costantemente dal settembre del 2021 all’aprile del 2022.