Risonanze di Massimo Parolini | Ostinati alla luce: nota su “Abitare il transito” di Carlo Giacobbi (Arcipelago itaca, 2021)
Abitare il transito significa abitare la verità dell’esistenza, attraversandola, senza pretendere di fissarsi sulla verità del significato, ma vivendo, in questo oltrepassare, l’evento stesso della verità Il punto decisivo consiste nell’abitare questo paradosso non rimanendo fissati alla verità del significato che viene espresso, ma all’evento della verità in quanto vissuto. In questa “pratica” quotidiana esperiamo il mondo, gli altri, noi stessi, ogni ente: e in tale esperienza, vissuta all’interno del nostro essere de-limitati e circoscritti, siamo veri: solo nel limite e nella determinazione si accade e si viene ri-conosciuti e si dà quella “differenza” che ci abita costituendoci. Il pensiero del filosofo Carlo Sini, figura centrale del pensiero contemporaneo, ci permette di sviluppare un piccolo rizoma in connessione con l’ultima raccolta di Carlo Giacobbi: Abitare il transito (Arcipelago itaca, prefazione di Fabrizio Bregoli, 2021). Se, sempre in Sini, «la ricerca della verità è per sua natura simbolica, perché si realizza nel tentativo di ricomporre un’unità che non è mai astratta, ma si manifesta nell’atto stesso della ricomposizione» (come nello specchio infranto di Dioniso), le prove di scrittura poetica di Giacobbi si pongono proprio in tale atto di incollaggio e riconciliazione quale atto sentito come necessario.
E allora il lettore, ente-soggetto che partecipa dell’evento della scrittura all’interno di una pratica che si fa relazione nell’aver a che fare (in qualità, direbbe Sini, di soggetti viventi e operanti) col libro, nell’iniziare il suo passaggio fra la grammatura bianca delle pagine non deve stupirsi se questa poesia filosofante, come ricorda Fabrizio Bregoli nella sua puntuale e analitica prefazione, risulta «segmentata in più sezioni e ciascuna di queste in frammenti brevi che, in un processo di diaspora consapevole, si disseminano su più pagine, spesso facendo venire a mancare la corrispondenza fra piano metrico e piano sintattico; alcuni frammenti si prolungano infatti nella pagina successiva quasi a indicare una forma di poesia ininterrotta che non riesce a confinarsi nello spazio riduttivo del foglio. L’espediente formale allude, con evidenza che non è difficile supporre, alla necessità più intima di questa poesia che, facendo deliberatamente riferimento a una “oltranza” (o un “oltraggio” alla maniera di Zanzotto?), è proiettata verso l’oltre, verso l’indagine sulla condizione dell’uomo aldilà del suo stato transeunte e provvisorio, per restituirle, in ultima battuta, dignità e senso». Acute osservazioni che nutrono nella comprensione del valore del testo, aperto nell’incontro con ogni lettore: nella scrittura come atto grafematico la materia, il sostrato fisico, è significante, come la poesia ha rivendicato dal colpo di dadi mallarmeano in poi. Ecco dunque che il dialogo poetante dell’autore, nella ricerca di una relazione come atto di una pratica di scrittura rivolta al mondo, dissemina le parole creando cesure visive e di riflessione, affinché lo spazio bianco lasci un respiro e una sospensione nell’atto della lettura, e una dis_trazione necessaria nel gesto operativo del voltar pagina.
Giacobbi, nella sua poesia interrogante e dialogante, che in tale atto può evocare lo spettro di Montale (Vedi, dire segreto il non escludibile altrove) propone l’esercizio di uno sguardo obliquo, un transito del soggetto nella verità dell’evento-vita nell’unione dileguante con una trascendenza che fa tutt’uno col transito, manifestandosi, attraverso anche figure di errore ed erranza dalle quali il poeta vuole mettere in guardia, esibendo il proprio dubbio, rivendicando la propria notizia di senso (contro la voce interiore dell’impostore) nella pratica stessa dell’esperienza della differenza dalla quale si sente attraversato, rivendicando una propria etica (come ricorda sempre Sini) come vivente: E se ti accorgi di quanto credibile/ sia l’assurdo, estromettere dal concepibile/ tu non puoi, senza falla, quanto a tutta prima appare/ la quintessenza dell’assurdità: il senso.
Cosa può fare l’io, si chiede Giacobbi, per non sentirsi/ impastare la bocca dalle ceneri del tempo? E risponde con un epigrammatico: L’uomo è più della sua pena. Abitare eticamente il proprio evento di verità significa allora non accettare la mappa del mondo disegnata e tessuta dalla grande narrazione filosofica in primis e, a partire dal 1600, dalla scienza moderna, nella sua pretesa di riprodurre la “totalità” del mondo e la sua verità.
Perché, suggerisce Sini, l’uomo vive, nell’accadimento del “transito verità” proprio il vuoto di esperienza e il venire meno di questo stesso vuoto. La ferrea logica filosofica o, ancor più, il freddo protocollo scientista (che rinunciando alla sfuggente verità ha tuttavia messo in trono la più esile ma, nei secoli, ormai tiranna certezza), sono dunque l’oggetto di una vera e propria ribellione in versi di Giacobbi, il quale rivendica la libertà del proprio sentire, della propria notizia nel transito esistenziale. E’ un invito alla fortezza, a non lasciarsi sfibrare dal terrore della fine, poiché “la tenebra è codarda” e si nasconde “al lucore d’un cerino”.
Ma tale rivendicazione è in lotta verso quello che Sini chiamerebbe l’intreccio in divenire delle pratiche di vita, sapere, cultura che forma l’orizzonte entro il quale accade il mondo. Un orizzonte in cui siamo immersi, anche quando siamo da soli, con la nostra coscienza, in una stanza, in un luogo isolato. E in tale immersione l’autore, umanamente lotta proprio contro quel potere invisibile (sempre Sini) che l’opinione comune, la greca doxa, il “si dice”, esercita su di noi, in un’epoca di globalizzazione in cui tale pensiero comune ha le vesti del pensiero unico del pensiero scientista. Ma se questo cozza contro la propria esperienza di vita, e la notizia di verità che essa genera, si sviluppa il dubbio, con le sue polarità (se negare il nulla/ tu non puoi, cosa ti convincerà non esista/ l’infinito? Tutto è in forse. Ogni indagine s’arresta/ sul ciglio del comprensibile/ – intravista figura nelle nebbie – tra il nulla/ che ghermisce e il tutto che chiama): a risolvere tale dubbio si dedica, appunto, la scrittura di questa raccolta (Alessio Alessandrini, nella postfazione, parla della raccolta come «una lenta e inquieta promenade nel limitare tra il buio e la luce, il pieno e il vuoto», nel «rischio, di una scommessa da giocare fino in fondo»).
Tuttavia la scrittura, se è farmaco, ha in sé anche il veleno, che prende la forma di una metariflessione sull’atto stesso della scrittura poetica speculativa: citando lo scrittore Mark Strand , Giacobbi scrive infatti: saremo indotti a dire/ che il linguaggio è errore, e che con il rappresentarla / si fa torto ad ogni cosa: una condanna che echeggia quella della scrittura da parte del faraone contro l’inventore Theuth nel Fedro di Platone. L’eterno dubbio fra idealismo e realismo, fra kantiani fenomeno e noumeno (con ammirevoli rizomi novecenteschi nel secondo Heidegger e in Derrida). Ma anche tale esergo, più che un’epigrafica convinzione, ha il sapore, nel prosieguo poetico, dell’esperienza del vuoto e del suo superamento, sempre nel transito obbligato (così come quello dell’instabilità del soggetto nel proprio esistenziale divenire metamorfico: nella / fotografia sul comò di me a vent’anni non sono io // né mai lo fui. Come scrive acutamente Bregoli, alla poesia «spetta dunque questo ruolo di bussola, senza però poter fare affidamento su una stabilità dei poli magnetici: insomma, secondo una prospettiva che ricorda la “stella variabile” di Sereni». E, sulla linea del transito sempre indicato da Sini nel suo filosofare, Giacobbi procede perché “sa di non sapere” ma al contempo “non sa di sapere” (almeno con chiarezza), e tale sapienza di superficie si sposa sotterraneamente, in rizoma, alla sapienza nascosta, nel vissuto dell’esperienza, nella ricomposizione dei cocci di una verità simbolica (l’accadere della vita, nella vita) che nel darsi si ricompone. E allora, nella versificazione delle fasi conclusive si iniziano a piantare alcune certezze, nel giardino dei viventi: nessun vivo agogna più la vita / d’un morente.
La raccolta, unitaria nella forma di poemetto, si esplica in dodici tempi: eppure, già dalla prima sezione (Alla fine della fine) il titolo e i versi fanno intendere in quale direzione, fra i due poli del dubbio esistenziale, girerà la lancetta dell’autore: il breve transito che ci è dato percorrere, oscilla fra l’indagare il fine di ogni cosa e, nell’immortale presenza della paura -anticipazione- della morte (quello spillo nel cervello di sapere/ la cera non eterna, il presagio/ di sfarsi in cenere), divenire spettatori della fine delle cose: la vita può essere solo un aprirsi di porte su altre porte e corridoi, in un labirinto borgesiano, oppure forse, alla fine della fine/ non c’è che oltranza: infatti, nella pagina successiva leggiamo che il non senso d’ogni margine non è in esso/ ma nella finzione tutta umana di crederlo esistente (e la pratica di una scrittura che slitta nel foglio successivo sembra, materialmente, confermarcelo). La nostra cecità potrebbe dipendere, sostiene il poeta, dall’eccessiva esposizione alla luce della verità, che ci costringe alla macchia nera del segreto. Quell’ungarettiano inesauribile segreto che diviene labile approdo dell’inconcluso/ offerto ai contemplanti. L’oltranza è esperienza: custodirne l’anelito è tutt’altro/ che abortirne l’oggetto; qui si fagocita tutto, si fa/ vigilia di niente. Al mondo ridotto a tecnica, esercizio di calcolo, nella tracotanza e volontà di potenza dell’ultimo uomo, abitante della terra oscurata (l’Abend-Land heidegerriana) dal nichilismo, violento predominante e controllante che vuole sondare il fondo dell’insondabile, si oppone l’esperienza di un transito di verità dell’esistenza che trova nella propria porta d’entrata l’epigrafe: da sempre e per sempre si è domanda. Ecco dunque il districarsi a scavalco di pagina dei dodici, apostolici, movimenti, al termine dei quali torna l’atto del contemplare, increduli, il mondo, compreso come cosa grande e cosa rara. Perché il nostro destino è di sentirci qui e non del tutto qui, e siamo percorsi da una febbre ierogamica che unisca cielo e terra, nell’evento della differenza che ci attraversa e costituisce. Poiché c’è sempre uno iato e l’Uno è chimera: ma lo iato è varco nel quale la differenza accade o è in procinto/ d’accadere, una ferita di luce che ci rinvia ad un’oltranza di visione accecante.
Ma all’uomo, come si diceva prima, nel suo transitare è dato più della sola pena: c’è comunque grazia nel mondo, c’è bellezza: il transito di verità è una soglia (in movimento) dove si celebrano le nozze/ del qui e dell’altrove che l’autore si rifiuta di pensare come ad un posticcio medicamento sullo strappo/ della carne o protesi di un’anima amputata. Vivendolo piuttosto come un nostos, un ritorno all’origine, dopo l’esilio, dopo l’accecamento.
E la dodicesima sezione (Cosa grande è il mondo) si apre, chiudendo il poemetto, con un esergo rilkiano che ci ricorda che la grandezza del mondo è come una parola che ancora matura/ nel silenzio, scommettendo pascalianamente sul senso del proprio transito e chiudendo il discorso con l’atto teoretico della contemplazione:
Comunque tu lo intenda, seppure
losco disegno del caos o del caso o di cosa
da capire restando da capire; per quanto
l’approssimarsi della luce al primo vagito
altro non sembri annunciare che un’altra fine
sta avendo inizio; quantunque l’occhio
possa mutare il suo brillio in perla opaca di cataratta
e ci si senta di concludere, sospirando, che l’ardore
delle stelle mai potrà stemperare i sottozero
delle oscure lande dell’universo; comunque tu
lo intenda, cosa grande è il mondo; quel che d’amaro
può attingere la lingua non muta il prodigio
del suo avvenimento, non mina l’enormità
del suo consistere; e nonostante senza bandolo
dovesse apparire o fosse la matassa
dell’esistere, rebus senza indizi
mappa vuota, garbuglio da non poterne venire
a capo, resta il fatto che, comunque tu
lo intenda, cosa rara è il mondo, opera
imperfetta quanto tu voglia, ma da lasciare increduli
di sé nel contemplarla.
Carlo Giacobbi è nato a Rieti nel 1974. Nella città natale risiede e lavora. Ha manifestato, sin dalla prima giovinezza, interesse per la poesia, la letteratura, il teatro, la musica ed il canto. Ha vinto diversi premi: “Liberolibro” (II edizione); “M. Kolbe” (XXI edizione); “Salvatore Quasimodo” (X edizione); “Terra D’agavi” (XXXV edizione); “Le Pieridi” (XIV e XV edizione); “La Penna del Drago” (edizione 2017); “Il Convivio” (edizione 2016); “H2O – L’acqua fa cultura 2020”. È risultato terzo classificato ai premi: “Ambiart” (VII edizione); “Il Sigillo di Dante” (V edizione); “Il Convivio” (edizioni 2017 e 2019); “Città di Acqui Terme” (XI edizione). Ha ottenuto altri importanti riconoscimenti nei premi: “Città di Grottammare”; “Pietro Borgognoni”; “Don Luigi Di Liegro”; “Cardinal Branda Castiglioni”; “La girandola delle Parole”. Ha pubblicato Confidenze (Il Convivio Editore), Veramente quest’uomo (Arcipelago itaca Edizioni) e Oltre il visibile (Arcipelago itaca Edizioni).
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