Risonanze di Massimo Parolini | Le invocazioni sommesse dei precipitati: “Fatti reali immaginari di Adriana Tasin (Arcipelago itaca, 2022)

 

«Coscienze intorpidite.

 Sentono il suono della mia voce,

ma è sonaglio che agita e inquieta.

Sarà presto notte,

    nera e matta,

e forse è vano scrivere

parole che risuoneranno solo tra i fogli.

 

Eppure, credimi, questa è necessità

per non assopire il dolore

e ciò che è stato

per resistere e così esistere»

(Parole urgenti, dedicata a Ernesta Bittanti Battisti)

 

Fatti reali immaginari - Adriana Tasin - copertinaIn questi versi illuminanti Adriana Tasin (Fatti reali immaginari, Arcipelago itaca, 2022), prendendo la voce di Ernesta Bittanti (intellettuale socialista lombarda, moglie di Cesare Battisti) che nel 1939 sfidando il regime fascista pubblicò sul «Corriere della Sera» un necrologio per l’amico ebreo Augusto Morpurgo, esplicita il senso più profondo del ruolo civile della poesia: non lasciare che la memoria (del dolore) si assopisca, risvegliare le coscienze di fronte agli eventi di dimensione sociale (oltreché individuale), essere vigili e condividere tale necessità, nel momento in cui le strutture dominanti (politiche, economiche) agiscono nella direzione della normalizzazione e dell’anestesia coscienziale. La raccolta è un raro esempio, ai giorni nostri, di silloge interamente civile, ma non in quanto dedicata ad un unico evento di interesse civile e sociale condiviso nell’attualità (il Covid, la guerra in Ucraina, etc.), quanto come riflessione in versi su ventidue eventi che coprono un periodo storico di centrotrent’anni, dalla fine dell’Ottocento ad oggi. Ma, ci si chiederà, ha senso oggi un’operazione di questo tipo? È utile che la parola poetica (purtroppo ancora così emarginata e poco influente a livello sociale) si impegni in questa direzione e con questa convinzione? Questa domanda ci spinge ad una necessaria introduzione che pennelleggi (pur sbrigativamente) la storia e la funzione della poesia civile.

Se l’uomo, come afferma Aristotele, è animale politico, della polis-città, quindi animale civile, perché a lui si richiede non pur a sé ma altrui essere utile, la poesia, come forma più antica di letteratura dell’umanità (ricordiamo l’epica sumera di Gilgamesh) usando la lingua nella doppia funzione di conduttore sia di significato sia di suono, e di contenuto sia informativo sia emotivo, ha già dalle sue origini testimoniato tale intento formativo ed educativo, legato inizialmente alla propria patria, storia e al concetto di bene comune (il re Gilgamesh, infatti, entrato in possesso della pianta dell’immortalità, anziché mangiarla e diventare tale, decide di portarla nella sua città e farla prima assaggiare agli anziani). Da Omero a Tirteo ad Alceo a Pindaro a Simonide di Ceo, da Lucrezio a Virgilio a Orazio, da Lucano a Giovenale, da Guittone d’Arezzo a Dante a Petrarca, da Alfieri a Parini a Foscolo a Manzoni a Leopardi a Carducci, e poi lungo tutto il secolo breve (limitando in questa rapida carrellata lo sguardo alla sola Grecia antica e all’Italia, dai Romani ad oggi) la poesia civile ha mantenuto una posizione centrale nella cultura poetica occidentale, a fianco della poesia lirica, epica, tragica.

Nel Novecento, dopo le tragedie dei due conflitti mondiali e l’atomica, Il secondo dopoguerra si apre con una convinta ripresa della poesia civile, nella quale ricorre assiduo, suffragato da profonde istanze di rinnovamento, il tema politico e libertario (fra gli altri ricordiamo alcune poesie di Quasimodo, Gatto, Fortini, Pasolini): poesie sulla Resistenza, la violenza bellica, i campi di prigionia e la Shoah, la bomba atomica. E poi i disastri ecologici frutto –in parte- dell’incuria prevaricatrice e della speculazione economica umana, come il disastro del Polesine o quello del Vajont. È il periodo del neorealismo, al quale seguirà la nascita delle neoavanguardie (come il Gruppo ’63) che vedranno nella sperimentazione di un nuovo linguaggio e nella rottura del linguaggio tradizionale la strategia da perseguire per una vera critica alla “nuova barbarie” del sistema consumistico neocapitalistico che tradiva quei valori di fratellanza sociale, di miglioramento delle condizioni di vita delle varie classi –soprattutto delle masse- che la Resistenza e molti intellettuali- avevano agognato.

Spesso si dice che la poesia è sempre civile e sociale, anche quando parla d’amore e di dolore; che proprio perché civile e sociale essa deve precedere qualsiasi scelta politica, di parte, per non dichiarare una propria appartenenza che potrebbe venire sentita come falsa (o propagandistica) da chi non si riconosce nei valori da essa espressi. Potremmo dedurne che esistono –e sono esistite in Italia- varie poesie civili: quella che inneggia alla Resistenza non poteva (e non può nemmeno oggi) essere considerata tale da chi appoggiava i valori civili del fascismo (e viceversa). È chiaro che si tratta di una scelta di campo: i valori del ventennio (e delle altre dittature) o quelli della libertà; il tradimento della vera libertà ambita durante la prigionia da parte della nuova storia repubblicana democratica appiattita nel consumismo dilagante, nel neocapitalismo, nella corruzione di una certa avidità e cecità partitica, nella violenza delle mafie. Negli ultimi anni sono state pubblicate varie antologie di poesia civile e politica attenta alla polis, a ciò che accade nelle città, nella vita sociale, economica, culturale del nostro Paese (ma anche del mondo intero), una poesia quasi sempre non propagandistica e di critica libera, che mira a smuovere le coscienze (anche se in Italia, a differenza di Paesi come ad esempio la Grecia o a certi paesi del Sud America, la poesia non riesce, e non è mai riuscita, ad avere una funzione attiva e fortemente condivisa nella popolazione: funzione che è stata in parte assolta nei decenni scorsi dai nostri grandi cantautori, da Guccini a De Gregori a De André): l’ingiustizia sociale, il razzismo, i profughi, la violenza mafiosa, il vuoto dei mass-media, la precarietà del lavoro e dei rapporti umani, la violenza di genere, la crisi dei valori etici e civili, sono i temi di maggiore attenzione da parte di alcuni poeti –anche giovani– che mirano a smuovere le coscienze e ad opporsi al dilagante menefreghismo individuale che inaridisce le anime e le consegna all’insicurezza, all’ansia, alla paura. Bene comune, uguaglianza sociale, cittadinanza attiva, ascolto –pur problematico e non ingenuo– dell’altro, del diverso, del marginale e disagiato, critica sociale, archivio di memoria di eventi e soggetti di rilevanza collettiva, devono a nostro avviso tornare ad attraversare il dire poetico, luogo esperienziale e magmatico del linguaggio e del pensiero. Abitare il mondo poeticamente, per dirla con Heidegger, deve dedicare –nel luogo della presenza umana– una via anche a tale funzione.

Torniamo ora alla nostra breve nota critica di risonanza alla raccolta di Adriana Tasin. Come ci ricorda la stessa autrice nella sua breve presentazione alla raccolta, il titolo della silloge «è una dichiarazione di intento poetico del libro. I fatti sono reali ma lo sguardo a loro rivolto è mediato dall’immaginazione. Le poesie de Fatti reali e immaginari fotografano il capovolgimento di un destino; il momento preciso in cui ciò accade». Il tutto reso epigrammaticamente a dovere nei due versi iniziali della prima sezione Tempo variabile, che vuole indicare che la maggior parte dei fatti storici riportati nei versi sono avvenuti in una giornata di bel tempo «ma che il tempo della storia è imprevedibile»: «Chiedimi perché voglio ricordare. / Poi, perché voglio immaginare.» Nelle ventidue poesie della sezione gli accadimenti rinviano a disastri naturali (con la complicità, comunque, o l’incuria dell’uomo) e ad attentati terroristici: eventi che, come indica il titolo della poesia in apertura, generano Vite precipitate (in un «Imbuto della dimenticanza») e l’oblio vorrebbe anestetizzarne la memoria, per attenuarne il dolore, impedendo così al bruco di divenir farfalla (superando e non cancellando il dolore della metamorfosi) per ripiombare, noi uomini, nel nero della terra, senza possibilità di volo, ammonisce metaforicamente Tasin. È necessario andare oltre «l’abito della notizia», un prêt-à-porter preconfezionato da sarti impiegati del pensiero unico, e costruirsi un proprio vestito, mutevole, modificabile, sviluppandolo anche nelle pieghe dell’immaginazione che deborda dal puro fatto dichiarato e lo vivifica nel soggetto pensante e senziente.

L’arco di tempo delle 22 poesie civili inizia dal 1891 (il suicidio in una panchina pubblica, nelle Azzorre, del poeta portoghese Antero Tarquinio de Quental) per arrivare alla recente guerra in Ucraina (24 febbraio 2022). Centotrent’anni nei quali si snodano avvenimenti di eco mondiale (come la Seconda guerra mondiale con i bombardamenti aerei, la questione ebraica, la bomba atomica in Giappone e le foibe, la tragedia dei minatori a Marcinelle in Belgio, il golpe militare contro Allende in Cile, la strage di Bologna e il disastro ambientale a Bhopal in India, l’11 settembre e le Torre Gemelle, la questione palestinese, la guerra siriana,   i naufragi dei migranti nel Mediterraneo e l’attacco terroristico a Nairobi), con altri di respiro nazionale o declinati al trentino (il necrologio scritto da Ernesta Bittanti, il bombardamento della zona della Portela a Trento da parte degli angloamericani, l’alluvione di Trento nel ’66 che interrompe l’occupazione della Facoltà di Sociologia,  il disastro dell’inondazione fangosa di Stava, a Tesero, in Trentino): l’ultima poesia, in realtà, attua un capovolgimento, perché non parla di vittime ma della fine del muro di Berlino che tante vittime e separazioni aveva prodotto in ventott’anni di durata.

Le poesie delle due sezioni sono ampiamente glossate a fine volume da utili approfondimenti tematici che aiutano il lettore nella comprensione dei fatti e degli stessi versi. I versi civili hanno spesso un andamento narrativo e colgono, in diverse occasioni, il momento precedente del disastro, quello della vita che pulsa nel quotidiano, su cui piomba l’accadimento annientante. Oppure attuano un fermo immagine, per dilatare l’attimo e fissarlo, anziché farlo scorrere («Tsutomu Yamaguchi/ lo possiamo fermare sul treno/ che lo sta portando/ da Hiroshima a Nagasaki. / Sospeso in un tempo dilatato», in Tra Little Boy e Fat Man, parlando di uno dei centosessantacinque  Nijuuhibaku, i colpiti e sopravvissuti  alle due esplosioni atomiche giapponesi). Oltre alle sospensioni dilatanti Tasin usa spesso la figura retorica dell’iterazione di parole, sintagmi e intere frasi al fine di rafforzare un concetto, un’immagine, un’emozione («anche nudi ti prendevano. / Anche nudi»; «in mezzo ai campi/ [in mezzo ai campi»; «e le grida le grida»; «sono così morti così morti»; «Casa Casa Casa Casa»; «Piano. Piano»). Iterazione che il correttore automatico, mentre scrivo la presente nota, mi invita a cancellare: il robot non comprende (per ora) la necessità dell’umano di rafforzare un concetto o un’emozione. Così come non comprende la disposizione non tradizionale dei versi nel foglio bianco (presente in varie poesie della raccolta) in realtà portatore (come ci ha insegnato Mallarmé per primo, con i suoi colpi di dado) di messaggi significanti e correlativo letterario del silenzio-pausa verbale-uditiva. 

 

sabatodueagostomillenovecentottanta

 

                                    2 agosto 1980, Bologna

                               Strage alla Stazione Centrale

 

Io ero a Bologna

quell’anno quel giorno quell’ora

in via Indipendenza.

         Tornavo dal mare.

Loro aspettavano di partire

in sala d’attesa o sui binari

appena fuori dalla stazione

o appena dentro

un piede su un piede giù.

 

E d’un tratto l’ho visto il fumo salire

l’ho sentito il dolore

come fosse un sabato d’inverno

e io lì, come sempre,

a tornare verso casa,

a salutare dal vagone. A trattenere

mani. A mandare baci. A dire ritorno.

 

         È lì che distesi i corpi straziati

         sono così morti così morti

         che restano restano

         non possono andare.

         Eppure, hanno ancora

         impressi negli occhi

         l’ultimo viso veduto

         il biglietto di un viaggio

         una piccola pensione in riva al mare

         un sentiero erto di montagna e

 

Casa Casa Casa Casa.

 

La seconda sezione del volume, Diario di Julia, cambia il registro linguistico. Si presenta con un dialogo teatrale introduttivo (in cui interloquisce anche la protagonista, Julia) e si sviluppa quindi in un diario in versi in prima persona della stessa ragazza, figura reale (Julia Barry) imbarcatasi dall’Irlanda nel Titanic diretto a New York l’11 aprile 1912 e naufragata, in terza classe, il 15 aprile 1912 con circa altre millecinquecento persone. Così recita la poesia in esergo alla sezione:

 

Sta forse coricata in fondo all’oceano

con una rosa chiusa allo sterno,

acqua che preme sul Novecento.

 

E tu, frammento dopo frammento,

la ricomponi con pazienza

dandole un nome che basti per sempre.

 

Come ricorda l’autrice questa sezione comprende i versi «in cui la realtà è maggiormente trasfigurata, anche se ci sono inserimenti di dati oggettivi e reali che la ancorano fortemente alla realtà». Julia è una visionaria «che rimane voce inascoltata». E, conclude Tasin, tutti noi potremmo essere Julia. Dare voce alle vite precipitate è quindi toglierle (e togliere sé stessi) dal rischio della reificazione del vivente generato da rapporti sociali cristallizzati, distanziati, trasportati nell’etere delle notizie standardizzate e della comunicazione di massa. E la poesia civile, sembra sussurrarci mitemente Tasin, può svolgere ancora questa funzione.

 


Adriana Tasin (Tione di Trento, 1959) vive a Madonna di Campiglio, dove ha insegnato discipline scientifiche.
Dal 2011 al 2014 ha frequentato corsi di scrittura creativa tenuti da Giulio Mozzi a Trento. Nel 2017 ha frequentato la Scuola di scrittura Virginia Woolf a Padova. Si è dedicata per molti anni alla prosa, scrivendo racconti. Negli ultimi tempi ha focalizzato l’attenzione sulla produzione poetica. Suoi testi appaiono in riviste, antologie, e blog letterari. Nel gennaio 2020 ha pubblicato la sua raccolta poetica d’esordio, Il gesto è compiuto (puntoacapo) che ha avuto riscontri positivi in diversi Premi e Concorsi.  Fatti reali e immaginari (Arcipelago itaca, 2022) è la sua seconda raccolta poetica.