Risonanze di Massimo Parolini | I piccoli pezzi, di frontiera, che siamo: “Di questa città” (Giovanni Fierro-Nicola Montemorra, qudulibri-arciGONG, 2022)
Gorizia, Gorica, colle, zona di confine che si scopre frontiera, soglia fra il noto e l’ignoto, nella propria dialettica attrattiva, mai destinata ad esaurirsi con una linea di demarcazione precisa, fisica o immaginaria. In questo perimetro mobile e ambiguo si muovono lo sguardo, il vissuto, le parole e i segni di Giovanni Fierro e Nicola Montemorra (“DI QUESTA CITTÀ, dieci storie on off”, qudulibri e arciGONG, 2022), contaminando (dall’antico tàmino, imbratto, sporco, dal sanscrito takmann, malattia contagiosa) spazi, strutture, esseri viventi doloranti e aspiranti. Un lavoro creativo che oltre allo scrittore-poeta-promotore culturale (Fierro) e all’artista-illustratore (Montemorra) ha contagiato anche Eleonora Sartori, Andrea Picco e Martina Černic (circolo arci GONG, acronimo che rinvia all’anima gemella fra GOrizia e Nova Gorica, e il Kulturni dom Gorica), due grafici (la stessa Sartori e Roberto Coco), due editori (la poetessa Patrizia Dughero e Simone Cuva, della qudulibri). Un libro sulla città di Gorizia che, come ricordano gli editori, nel 2025 sarà, con Nuova Gorica, Capitale europea della cultura.
Nel 2017 Giovanni Fierro aveva pubblicato la raccolta di poesie “Gorizia On/Off”: versi, scrive Eleonora Sartori nel suo intervento, che “mi hanno preso in mano e accompagnato passo passo alla scoperta di Gorizia, in una dimensione intima che mai, prima avevo considerato… Gorizia grazie a Giovanni ha perso la sua atavica rigidità a favore di una dimensione umana e sì, fragile. La storia comincia nella seconda metà del 2017 (una poesia alla settimana per un anno): aspettavo con ansia il giovedì mattina per leggere su Facebook la puntata settimanale di “Gorizia On/Off”… L’anno successivo le parole dal digitale sono state pubblicate in libro… Il prodotto è un libro dalle numerose contaminazioni, un’evoluzione e una maturazione di “Gorizia On/Off” in cui il testo dialoga armonicamente con le immagini. Non c’è frattura, non c’è prevaricazione”.
Una città, Gorizia, ci ricorda Andrea Picco nel suo approfondimento, che “non ha ancora trovato il suo posto nel mondo. Si potrebbe dire che è off per ontologia, dopo che il ‘900 l’ha privata di tutto. Fatica a riconoscersi, così eccentrica: è fuori da tutto, eppure così immersa nei conflitti, nei drammi… E così fanno le persone di questo libro, vivono una vita dentro lo spaesamento di una città che non è più tante cose, e che si aggrappa al passato per non guardarsi allo specchio e immaginare il proprio domani. Sono vite che stanno, che trovano detriti di calore, o di colore, senza slanci, che subiscono il tempo, il fuori, l’altro da sé con rassegnata accondiscendenza, perché il luogo delle decisioni è sempre altrove, e il quotidiano è conseguenza, mai protagonismo… “Gorizia On/Off” mi era sembrato… il ritratto della città che non si vede, ingarbugliata nel suo non detto. Una città che fa finta di niente quando incrocia queste vite, che ha un tappeto enorme sotto il quale ficcarle… quello di una grandeur sempre evocata -la Nizza austriaca– quando non si vuole aprire gli occhi… Nicola ne ritrae l’anatomia debordante, imperfetta, vecchia, scioccante, nascosta, ma anche stupenda nella sua unicità. Giovanni le dà pensieri, emozioni pudiche, quella ritrosia a disvelarsi che è propria di questo lembo di terra, col confine in testa, marginale per inerzia ma anche violenta dopo che la storia l’ha letteralmente rivoltata e ha persino cancellato i nomi. Gorizia non si fida più, e si ritira, è un’outsider… Eppure, questa sua unicità basterebbe portarla alla luce, trasformare questa malinconia da balla triste che l’avvolge da almeno due lustri, per avere una città diversa, in cui anche le vite dei protagonisti di questo libro valgono la pena di essere vissute. Una città dove sia bello vivere, sorridere, sognarsi… dove sentire il cuore che batte forte. Una città dove trovare, riservato, il proprio posto nel mondo”.
Marco Menato (di origine veneziana) direttore per ventisei anni (fino al 2021) della Biblioteca statale isontina di Gorizia (ma anche insegnante di Bibliografia alle Università di Venezia e Trieste), ricorda che nel 2019 offrì a Giovanni Fierro la possibilità di pubblicare autonomamente “Fare Voci. Rivista di scrittura” sotto l’egida della Biblioteca statale isontina (unica rivista in Italia ad essere legata ad una biblioteca). Un’ esperienza, quella di “Fare Voci” che non è solo la rivista ma anche un insieme di eventi che si svolgono a Gorizia e in Regione. Ricorda quindi il ruolo di Montemorra nel libro (“Di questa città”) di cui stiamo brevemente annotando, artista appassionato del fumetto e dell’illustrazione (con sicure frequentazioni di Frigidaire, Andrea Pazienza, Tanino Liberatore), proveniente da Foggia e poi nomade a Lubiana, Nova Gorica e Gorizia, diplomato all’Accademia di Belle arti di Foggia (in scenografia). Il quale ha realizzato dieci tavole, formato originale A4, eseguite con tecnica mista, illustrando persone colte fuori dal paesaggio cittadino, nella propria drammaticità vitale, a tratti grottesca, in contrasto col colore carico, solare e pastoso nei tratti morbidi, come la morbidezza della città.
Giovanni Fierro ci parla di dieci soggetti cittadini, figli di una propria frontiera, sofferenti, sicuramente, in una qualche frustrazione del desiderio sempre aperto: insomma, ci parla di una normale umanità, che vive nei propri margini, bordi, ricavandosi tic e ossessioni a sostituire il vuoto e la mancanza che si attorciglia ed avvita, nel sogno mai sopito di un vento che sollevi e non faccia più cadere, di coriandoli della festa che restino sospesi in aria, di un sorriso che resti impresso nella bocca, di un aeroplanino di carta (piantato nel cuore, come quello, molto realistico e inquietante che Montemorra disegna per la terza storia ed è stato scelto per la copertina): si sente il desiderio sabiano di mettere la propria vita dentro quella di tutti, di essere solo un uomo fra gli uomini, ritrovando, in fondo alla scontrosa grazia cittadina, l’infinito nell’umiltà e una radice comune che ci spieghi meglio chi siamo.
Ecco venirci incontro, in brevi quadretti in prosa nei quali Fierro incastona cammei di prosa lirica, Giacomo Sputnik, con la borsa di nylon contenente sei birre, col braccio fasciato (“Vivere è innescare scintille, con l’attrito fra il proprio corpo e ogni senso di colpa”… la sua verità: “ogni mattina il giorno inizia con una perdita, è il calore che rimane nel calco del mio corpo”). Può solo aspettare, si ferma nei suoi piedi e nelle vene che lo stringono alla carne. Ogni tanto pensa al cielo, senza mai guardarlo… “Anche la stella deve cadere per farsi notare. L’universo è in miseria quando non è capace di rompersi”. Oppure Elena Bisiach che “si chiede se Gorizia è solo un saluto appena, la trasparenza di dove si sta, l’abbraccio che non si vuole più fare”. In attesa di una voce da cui esca una bella parola, che si rifugia nel tempo piegato dove l’angolo ha paura di diventare spigolo e mette i cerotti sulle idee, come promessa di guarigione. O ancora Stefano Guidi, che a quarant’anni vive ancora all’ombra del padre, delle sue parole (“di mio padre mi sono accorto che aveva un cuore solo quando gli ha preso l’infarto”), intento a raccogliere rametti per formarsi, finalmente, un suo nido. Personaggi che vivono nell’acqua bassa di un continuo domandare, interrogarsi, in attesa di uno spazio grande dove planare, di un cielo che avviti le correnti e trascini. Che indossano una continua tensione, “una mancanza che si attorciglia”, una “carenza che si tende”, una tensione prima della tempesta, del botto, della spaccatura apocalittica. In una città, Gorizia, che “non finisce mai, si inciampa”, sbatte sui muri, è silenzio, confonde il sognare col dormire, città di frontiera più che di confine (in ciò che si spreca si cela la verità di ogni confine). Nell’amore per la lingua madre, perché nel dialetto si ritrovano i pezzi che siamo, l’autenticità che significa molto di più della lingua nazionale, scolastica: lo sbrego è più profondo e fa più male del taglio, la scarsela contiene più caramelle della tasca. Personaggi spesso soli, ai margini, che non si lavano perché la sporcizia li riscalda col suo abbraccio, che desiderano essere una briciola del pane della loro vita. Personaggi (come lo stesso Fierro? Ritratto nel sesto racconto?) che stanno con lo sguardo nella bellezza delle cose dimenticate, che amano stare in un piccolo buio e nella sua ombra (il cantuccio sabiano), dove trovano una pace che non si arrende. E che lì vogliono rimanere “dove vedono meno ma riescono a guardare di più, perché alla vita si risponde con la vita, se hai chiesto la vita”, piegando bene (non calpestando) una foglia, riconoscendo i “sottovasi di ogni carezza”, di ogni vita, là dietro gli occhi dove “trovi la natura di ogni sguardo, la radice più profonda di ogni immagine veduta”.
Nel desiderio, mai sopito, di imparare la bellezza, trovarne la vena e indovinarne i respiri che la fanno vivere, anche se la bellezza fa paura, ha una forza insostenibile, non perdona, ti lascia indifeso, è “fatica che non conosce mai abbraccio”, è “farina che non diventa mai pane”, un inganno nello sguardo che non si regala più. C’è lo sforzo di essere un silenzio di luce “dove non entrano le mani del buio”. Disposti anche a vivere nell’inganno, però, per non soffrire, di stare nella bugia che protegge ogni dio e dirsi, con Ada Beltrame, “Sono luce, voglio essere luce, anche solo per farmi spegnere”. Nell’invito a cedere alla luce che “si apre ad ogni sguardo buono”.
Con un vento sempre latente… “Non trovo mai la geografia giusta di una promessa, la luce che mi piace è capace di farsi un nodo alla gola pur di non dovere dire ‘vieni qui, stammi vicino’ “, riflette Fierro ascoltando il racconto di Marco Stacul. Dieci personaggi in attesa di una scossa, di vita, convinti, come Serena Cumin, che “la vita la si attraversa a morsi”, sospesi negli attimi dove tutto può ancora succedere, lontani dalla routine quotidiana, alla ricerca delle parole giuste per poter dire, finalmente, in una vita di frontiera, la gioia.
Giovanni Fierro (Gorizia, 1968) ha pubblicato la raccolta “Lasciami così” (Sottomondo Gorizia, 2004), la plaquette “Acque di acqua” (2007, in abbinata al dvd “Judrio” di Mauro Bon), con testi poi integrati e ripubblicati nell’antologia “Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est” (Fara editore, 2008), la raccolta “Il riparo che non ho” (2011, Le Voci della Luna), la plaquette “Oleandro e garaža” (qudulibri, 2015), e la raccolta “Gorizia On/Off” (qudulibri, 2017). E’ tradotto in portoghese, sloveno, tedesco, croato, ceco e friulano. Cura la rivista mensile on line “Fare Voci. Giornale di scrittura” (www.isontina.beniculturali.it). E’ inoltre responsabile della collana poetica “Fare Voci” per l’editore qudulibri.
Nicola Montemorra (Foggia, 1978) si è diplomato all’Accademia di Belle arti di Foggia (in scenografia), affiancando negli anni la passione per il fumetto. “Di questa città” può essere definito il suo “incunabolo”.
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