Essendo presenti a tanto stupore
«Alla fine è l’alba
che con prepotenza oggi m’impone
di spalancare scuri
croste di residuo buio
quasi spaesato.
Ostacolo forgiato
dall’operosità delle mie mani
ad arte
come a limitare felicità gratuita.
E’ l’alba
che da te muove e a te torna
a ricondurmi al senso vero
delle cose,
le due sole che contano davvero.
Dell’amore il pane e i suoi vestiti a festa
della poesia l’essenza di ogni cosa immaginata,
di ogni cosa nominata
il canto».
Nei versi di Annalisa Rodeghiero (A oriente di qualsiasi origine, Arcipelago itaca, 2021) troviamo un’adesione immediata, intuitiva, all’idealismo trascendentale di Schelling laddove per il filosofo tedesco la natura è intesa come attività spirituale inconscia e infinita che produce esseri finiti, il cui vertice è l’uomo, col quale la natura acquista consapevolezza di sé e si fa spirito.
Una natura che si pone come realtà indipendente (attuandosi in un processo di progressiva creazione e superamento delle forme, frutto di un momentaneo equilibrio fra continui impedimenti di forze opposte) in relazione dialettica con lo spirito presente nell’uomo capace di intuirla. Non la natura oggettiva delle scienze naturali e sperimentali (natura naturata), ma quella soggettiva della filosofia idealista (natura naturans), l’unica che permette di cogliere (attraverso la fisica speculativa basata sull’intuizione) l’unità dei fenomeni, la loro derivazione da un fondamento comune (natura finalistica). La natura non è quindi per Schelling un puro meccanismo soggetto a leggi esterne ma vita dotata di unità, organismo vivente: come sosteneva Plotino la forza unitaria che muove e unifica (nelle sue polarità) la natura è l’ anima del mondo, autocoscienza intelligente dotata di intenzionalità (spirituale) evolutiva finalistica.
Nell’attività estetica, che si origina nella coscienza, si fondono conscio (spirito) e inconscio (natura) poiché essa è via di rivelazione dell’Assoluto: e l’attività umana più adatta a coglierlo non è quella del puro sentimento inconscio, né quella della pura razionalità, ma l’attività creativa artistica (anche poetica), frutto dell’ispirazione che si sviluppa dall’inconscio (natura) e dalla consapevole attività dell’artista (libertà). Quella libertà, annota la poetessa, «che dal desiderio muove/ che alla fonte dell’incompiutezza attinge/ e mai esaurisce».
L’esergo posto nella prima sezione della raccolta, rinvia, con Marina Cvetaeva, all’anima: «E senza anima, fuori dell’anima – ho forse bisogno di qualcosa io? »
Eccola la dialettica idealista di finito-infinito già dai primi versi: «il profilo dorato dei rilievi apre l’infinito». E ancora, nella differenza indifferente di soggetto-oggetto: «Se è vero che siamo ciò che guardiamo,/ in questa trasparenza inimitabile/ noi siamo – l’aroma dei rintocchi/ che dalla legna scricchia dopo la pioggia».
Se, come nell’ebraico Sefer Yetzirah (Libro della creazione), nel Talmud ed anche nella Torah Dio crea il mondo e tutte le cose a partire dalle lettere sacre, l’origine divina del mondo riecheggia proprio in un pronunciamento che abiti poeticamente il mondo: «L’origine stava nel nome pronunciato/ come un’eco ridondante/ sotto le vertebre – se le vertebre/ s’erano incurvate a trattenere l’anima/ che non volasse troppo in alto/[…]/ Ma l’anima -almeno l’anima -/ sentivo svincolata dai confini,/ l’anima sapeva la sua rivoluzione».
L’anima del mondo («indomita che incessante/ ritma»), nella quale è compresa anche l’anima singola, è poesia, priva di limiti e confini («Senza misura sono risalita»; «In fondo siamo noi a decidere le altezze/ come fosse lecito dare misura all’anima»; «E mai si arrende in noi questo volare inquieto»). La poetessa , montalianamente, cerca un varco di ipotetica salvezza («Trovare un varco al vero era l’intento»), un «fiato bianco» che giunga «come riparo». Una dimora che è «albero e non casa», radice, fusto e ramo che si innalza, all’aperto-apeiron. La salvezza si trova «A oriente di qualsiasi origine», «a oriente d’ogni altro nome», oltre la ragione si conserva la promessa originaria, nella fedeltà a tale nome, nel bianco (mescolanza di tutti i colori e velo di purezza) si mantiene «tutto il valore indiviso della verità».
Nel pensiero ebraico si evidenzia che fra tutte le lettere dell’alfabeto il mondo è stato creato con la lettera Bet perché essa è l’iniziale di berakah (benedizione). Quindi il mondo si sostiene sulla berakah, si svela nella sua verità solamente a chi sa benedire, cogliendolo come dono da condividere e riportandolo all’origine. Nella raccolta l’atto del benedire ritorna quasi come un mantra, a ribadire il concetto della sacralità della natura e degli uomini: «Hai scritto che tu sia benedetta/ a me hai scritto -essere- benedetta/ come acqua», «Benedetti noi se del destino santo/ siamo accadimento – benedetti nella promessa/ mantenuta», «benedizione della bocche schiuse», «qui sento/ benedette/ almeno le intenzioni»).
Necessita quindi seguire le promesse dell’albedine, «Cancellarsi come neve, come neve crearsi»; le cose «vengono insieme nella pazienza e nella cura/ nella radura dei richiami – sapienti echi di rami,/ attesa d’abeti a sorreggere voli. / Servono secoli d’intesa e benedire/ il sincronico fiorire dei roseti».
Al bianco si affianca l’azzurro, indifferenziato, «che ci apparteneva/ intero al nascere», di cui «la memoria salva/ intatte -le cose da salvare,/ come una felicità assoluta di culla bianca». Per tale anamnesi platonica è necessario «rendere afona/ la voce pensante della mente», che è metron, misura, ratio, limite (di ciò che non ha limite, in quanto aperto- illimitato-privo di confini). Naufragare in tale illimitato («aggiustarne il limite/ definitivamente») significa «Accettare il senso d’incompiuto in noi» e, come direbbe Wittgenstein nel Tractatus per il Mistico («Di ciò di cui non si può parlare…»), «Tacerne». Solo così si può sperare di «saturare la crepa», ferita originaria.
La libertà è lo spirito e l’uomo la incarna e la rappresenta sulla terra: essa è il suo destino di creatore e di essere incompiuto: l’incompiutezza è la nostra essenza ed è chiamata fonte e tempo sacro. E Rodeghiero, emula di Pascoli e S. Francesco, invidia -e si sente affine nel desiderio- la vita degli uccelli, liberi nel volo ma soprattutto dediti a «gorgheggiarla intera la vita/ senza battibecco dentro la selva». Ritrovando nello «scavare, zampette isteriche» dell’intelletto umano un allontanamento dal «disegno primigenio». Il senso dell’autrice per la neve è originario, l’imprinting della sua Asiago «delinea e nomina contorni» nivei ed è l’inconscia «felicità sempre distante» che insieme a lei si disperde. Assieme alla neve il chiarore dell’alba e dell’albeggiare (voce, alone, luce…) si ripete come fiocco parola in vari versi.
Il limite, che come un non-io idealista si contrappone sempre alla libertà dell’io-dello spirito, fatica ad arginare il fondo, che si agita, è ab-grund («acqua anarchica nel ribaltamento»), abisso più che fondamento, luogo in cui il nulla-tutto «che siamo» si fondono.
«Se è l’anima che/ da sola -si consegna,/ se nella pazienza abbiamo messo in salvo/ il tempo sacro dell’incompiutezza […] amata sia la dissolvenza». «Forse tutto questo indugiare/ era scritto nel grembo delle madri./ Appartenere/ e al tempo stesso esserne fuori/ percepirne intero il peso/ piegarsi […] Svanire a tratti/ ricomparire come legno alla sua riva./ Giorno dopo giorno, vivere nel foglio ritagliato./ Tempo irrealizzato». Il rapporto con la temporalità (sfera opaca, come la malvagia terra pascoliana di X agosto) si centralizza nella terza sezione, divenendo l’acqua -da Eraclito a Brodskij e le sue Fondamenta veneziane degli incurabili- allegoria del suo scorrere divorante e senza pause. «Dove è ancora terra, dove è quasi mare/ la barca attende naviganti inconsapevoli. […] Quale che sia la meta/ è tutto nella fede dell’andata il compimento». La più alta prova è «esistere nel mutamento», nello scorrere limitante del tempo, rimanere «appesi» all’impermanenza, e in quella luziana barca tenersi sempre aggrappati verso la meta, una fine che è, come ricorda Eliot nell’esergo alla quarta sezione, il luogo «da dove veniamo», l’origine, tesi ad udire «il suono del corno/ nel ritorno al principio».
Ma, come nei versi sopra citati, si esperisce un’appartenenza e una non appartenenza dell’umano alla temporalità, una dimensione, a fianco di quella canonica della tradizione filosofica occidentale eraclitea-aristotelica, allo stesso tempo parmenidea-severiniana, che toglie l’esserci e l’accadimento dal puro transitare in un contenitore spazio-temporale in movimento per ek-staticizzarlo verso un altrove, un’apertura anassimandrea, verso l’Apeiron. («Tempo non limite all’apertura»).
«Persi all’alba polline e veleno
appesi si sta all’impermanenza
alla giusta distanza di salvezza
riparo perfino da noi stessi.
Ma nella stanza c’è tutto un vuoto sacro
da incontrare, una rinascenza d’acqua,
lontani dalle brame si prova a separare
ciò che vale da tutto ciò che lacera e scuce.
Svanisce il dominio del domani»
Perché, conclude Rodeghiero in uno dei versi conclusivi, portando nuovamente ad ebollizione Parmenide e il suo contemporaneo discepolo e glossatore logico-teoretico, il bresciano Emanuele Severino, «E’ un’invenzione il tempo/ non esiste». Almeno nella vulgata tradizionale del tempo spazializzato, l’aristotelico numero del movimento secondo il prima e il poi, e l’eracliteo bagno sempre diverso nel fiume impermanente degli accadimenti. Ed echeggia Severino anche nei versi: «esistere nella chiarità del lampo», «Non unicamente memoria/ né futuro – vuota materia/ ma cerchio di presente». In varie altre epifanie liriche la poetessa sembra invece trovarsi maggiormente a proprio agio nella concezione greca dell’eterno ritorno dell’identico (per i quali, come ricordava sempre Severino, l’ eterno ritorno è il dio all’ interno del quale si sviluppa il divenire, diversamente da Nietzsche per il quale. non esistendo Dio, il divenire e l’eterno ritorno sono impossessamento del passato): «se non io a consegnarmi a dio/ o a te, se è l’anima che/ da sola – si consegna,/ […]/ il senso dello scorrere del fiume/ il possente desiderio/ tutto suo – di riaversi al mare»; «acqua immutata che ritorna/ nell’ansa, nell’incurvamento». In tale platonica anima mundi la poetessa è «dappertutto e in ogni luogo», nel sogno e nella memoria di un canto che è, circolarmente, «origine e approdo», nostos di un’odissea esistenziale che riconduce a casa, ritorno all’ Origine, dopo l’erranza, alle radici della propria alberitudine essenziale, terra heimat nella quale, finalmente, ri_posare sotto la bianca snea (neve, in cimbro).
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Annalisa Rodeghiero è nata ad Asiago e vive a Padova. Ha pubblicato: Percorrimi tutta (2013), Di spalle al tempo (2015), Versodove (2017), Incipit (2019), A oriente di qualsiasi origine (2021), tutti premiati in concorsi letterari nazionali. È collaboratrice del periodico online Alla volta di Leucade. Suoi testi poetici e note critiche sono presenti in riviste, lit-blog e in numerose antologie. Sue poesie e note critiche di testi sono contenute nel IV volume Lettura di testi di autori contemporanei curato da Nazario Pardini (2019). Alcune sue poesie sono state tradotte in lingua spagnola da Antonio Nazzaro per il Centro Cultural Tina Modotti. Con l’Associazione culturale “Arte Insieme Altopiano di Asiago 7 Comuni”, promuove la diffusione della cultura nel territorio.
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