Risonanze di Massimo Parolini | Al dislagare della luce, nel folto degli spini: “I luoghi persi” di Umberto Piersanti (Crocetti, 2022)
Nelle pagine diaristiche di appunti e riflessioni sparse dello Zibaldone dei pensieri, Giacomo Leopardi sostiene che qualcosa è poetico se suscita un ricordo e che la ricordanza è l’essenza stessa della poesia. Ciò avviene grazie al legame con l’indefinito, col vago, che sfuma le immagini delle forme, delle cose rimembrate e le abbellisce, perché l’indefinito lascia operare l’immaginazione da cui si originano le illusioni e il piacere infinito.
La lezione leopardiana è da sempre indossata dal poeta Umberto Piersanti, che del «Centro mondiale della poesia e della cultura Giacomo Leopardi di Recanati» è il Presidente e che con l’editore Crocetti ha di recente riproposto la raccolta I luoghi persi (edita la prima volta nel 1994 da Einaudi con prefazione di Carlo Bo). Una nuova edizione (prefata da Roberto Galaverni) che Piersanti implementa con dodici Poesie inedite scritte nel 2021. Un libro di svolta, I luoghi persi, lo definisce Galaverni, dove «Certi caratteri che fanno ormai parte della leggenda critica di Piersanti […] venivano messi a fuoco lì per la prima volta, almeno con la complessità tematica e il grado di determinazione espressiva che saranno poi riconosciuti a questo poeta». Ecco entrare in scena le immense Cesane urbinati, i greppi, la radura di narcisi chiara e luminosa, le luminose fanciulle, l’Antico (portatore di saggezza popolare ancestrale), la nonna Fenisa e il nonno Madìo, la casa avita in fondo al fosso, lo sprovinglo (demone ombra notturna e metamorfica di cane mutante che minaccia pastori e contadini, salendo nei birocci e bloccandone il cammino), la natura bella d’erbe famiglia e d’animali, scena di un tempo differente, con l’immancabile favagello ma anche il tossico velenoso giusquiamo, fiore degli sciamani, lo spino bianco, la veronica azzurra, l’angelica dei prati, la silene pallida, il caglio giallo, il falasco… la nottola, il lupo e la biscia nella pozza (fatta a pezzi, che rinasce persona).
E’ il tempo mitico dell’eterno ritorno del non-identico, della ripetizione differente, il sogno del viaggio che è fuga che riprende, atto di una memoria che è anamnesi in dialettica lotta (fondante) con l’amnesia, in cui ogni dimenticanza viene sostituita da una modifica (pur minima) rinnovante che fluisce spontanea dai canali di scolo (dogaie) della radura nell’estate che perdura, della tiepida dimora (all’apparenza) fissa e immota, non mutata dal tempo. E’ sì la stagione dell’infanzia fanciullina che tenacemente offusca e oscura ogni altra stagione: ma tale ricordanza non è una semplice riproposizione del passato in atto: nell’agostiniano presente del passato i fantasima ricorrenti sono eidos luminosi mutevoli e capricciosi, che dalla radura della memoria (riproduttiva ma anche ricostruttiva, sempre preda della biscia entropica) trattengono il poeta nel nido di una stagione che è (in etimo) stanza, dimora, recesso e nascondiglio, ma anche satiònem, atto di seminare, e quindi non solo raccolta di un frutto sempre pronto nel donarsi, ma nuovo seme per un frutto simile ma non identico. Perché tra gli dei si vive un solo giorno e un’ombra di dolore trascorre nella nostra faccia: il tempo è sempre finito, tutto dissolve e muta, è sempre il presente del passato e il presente del futuro, e il nostro sguardo si posa dovunque ed è sempre assente.
L’isola luminosa della rimembranza (nelle sue ascendenze omeriche, dantesche, pascoliane o ungarettiane) non è segnata nelle mappe e nei portolani e così il luogo dell’imbarco: è un accadimento e null’altro sappiamo né possiamo dire. E’ un vento improvviso che si alza, porta via e lontano ci depone (senza cesta), un sangue nomade che trasale, scolando le umili ma calde piccole cose del quotidiano mitico e ancestrale del mondo contadino dell’urbinate. L’isola riappare quando vuole col suo canto di sirene e non sprofonda, come si vorrebbe, talora, perché, in fondo, è una febbre che ci ammalia e fa ammalare, facendoci soffrire nel reimbarco verso il presente.
La poesia di Piersanti si nutre sicuramente di Omero e dei classici, ma anche del Tasso pastorale dell’Aminta, e della grande tradizione poetica italiana dell’ Otto e Novecento (da Leopardi a Pascoli al d’Annunzio alcionio a Ungaretti a Saba e Montale, fra gli altri). Fra tutti, oltre che per la rara e straordinaria conoscenza botanica, il poeta urbinate ha un’affinità speciale con Pascoli, al quale lo avvicina anche l’uso del dialetto attraverso il recupero di una lingua materna urbinate (come risulta ad esempio dalla prima parte, Frammenti di poema, della seconda sezione della raccolta, In fondo al fosso, con l’ua e gli ucieletti). Il microcosmo di Urbino è humus mitopoietico del verso piersantiano, nel composto fertilizzante di una cultura popolare rurale radicata nei miti e nei riti di una religione precristiana ricca di elementi magici, superstizioni, oggetti apotropaici, figure fantasmatiche metamorfiche. Nella seconda parte di tale sezione, Cespi e fiori, i fiori vivono nella fiaba, con maghi, folletti, pastori, donne tradite, ragazze in cerca d’amore e l’immancabile sprovinglo. Maghi e folletti che con la biscia e il biroccio azzurro ritornano anche nella terza parte (Vicende).
Il figlio Jacopo, invece, è presente nell’attesa della nascita (a partire da Di quest’ultima estate che perdura) in alcune poesie della prima sezione (Per tempi e luoghi), nello sguardo del padre che sa che con la sua donna aspetta un figlio, ne vigila il gioco, ad esempio mentre raccoglie la paglia e ride e ci gira attorno o durante il bagnetto nella vasca biancazzura: a lui il poeta avrebbe voluto raccontare della neve, del viburno tenace, di una ragazza e di altre vicende più antiche, della gente e dei campi che sono parte del suo sangue e che doveva conoscere: una vicenda lunga come la vita… Colui che viene ed è arrivato, il figlio amato, essere alato, annunciato da un petalo d’asfodelo nel grembo, il figlio portatore dei doni, cambierà i giorni del poeta che nell’attesa continua a girare sui colli, nella cerchia, per andare lontano e poi ritornare: paternità impegnativa che dall’età di mezzo si farà intreccio di falasco, da accarezzare dal basso e che, dopo le grida non conosciute, dell’autismo, si farà sapore dei giorni di una dolcezza vietata quanto vera.
Le dodici poesie poste in appendice, nella terza sezione, datate 2021, sono in continuità tematica con le poesie ristampate e con le raccolte successive a I luoghi persi: le Cesane incantate, i greppi, la fiaba, gli affetti familiari, l’Antico, le anime che soffiano dai muri, la seconda guerra mondiale (con la liberazione di Urbino, a fine agosto del ’44, con l’arrivo dell’8^ Armata inglese e i tedeschi trincerati fatti d’acciaio che resistono, mentre il poeta ha tre anni e al fischio dell’aereo alleato entra nel Rifugio, dalla porta bassa, come i bimbi ucraini nelle immagini di questi giorni cupi); e poi il Vietnam e la primavera di Praga sullo sfondo con eros protagonista, anche al presente, con le ragazze al Pincio, novelle ninfe coi bikini rossi scintillanti, giovinezza che scorre accanto allo sguardo di un nostalgico satiro col ginocchio incrinato. In Scuola media Piersanti, con autoironia, si chiede se abbia senso, nell’età del disincanto poetare di giuggiole, verdoni, favagelli e dell’Eden mielato dell’infanzia: ammettendo che la memoria/ trascolora i giorni/ e in parte muta e che l’Eden vive solo nella memoria ma caparbiamente riemerge in lui come madeleine proustiana un riso coi fagioli che lo attende fumante nel nido familiare con madre e padre dai nomi immensi, con le sorelle e la strada bianca che porta al mare. Quel piatto fumante, ora, gli è accanto, e non c’è memoria/ che lo trasfiguri,/ è vero, più vero/ di quest’ora presente e forestiera. Il tempo differente, il tempo che precede, la tiepida dimora, la radura luminosa, chiamano, latrano, tornano come le anime tra gli spini che non si graffiano ma portano la febbre al cantore delle Cesane, diventano il Rifugio della porta bassa e storta,/ dove se entri/ non sai se riscappi, luce che dislaga nell’ora dei nuovi tempi oscuri. E l’uomo, padre, marito, poeta continua, tenace, a inerpicarsi fra quei greppi, a sfiorare, lui, anima vivente, le anime spèttro disperse: forse nessuno lo vede, forse c’è chi sente la sua voce che chiede la strada del ritorno, ma è confusa…
L’isola
Ricordi
il mirto, fitto tra le boscaglie,
bianchissimo e odoroso, scendere per i dirupi
sopra quel mare? e le capre
tenaci brucare il timo, l’enigma
dello sguardo che si posa
dovunque e sempre assente?
più non so il luogo dell’imbarco
come salimmo nel battello
quali erano le carte per il viaggio.
Scendevi alta per lo stradino polveroso
antica come le ragazze
che portarono i panni alle fontane
la tua carne era bruna come la loro.
Férmati nella radura dove il vento
ha disseccato e sparso i rosmarini
qui potremmo vederle se aspettiamo
immobili alle euforbie quando imbruna
vanno alla bella fonte degli aneti
giocano lì nell’acqua e tra le erbe
e mai s’è udito un pianto
sono felici.
Tu eri come loro, solo una volta
quando uscivi dal mare, ti sei seduta
nei gradini del tempio, un’ombra appena
trascorse di dolore nella faccia.
Seppi così che il tempo era finito
che tra gli dei si vive
un giorno solo.
E riprendemmo il mare
normali rotte.
Qualcun altro s’imbarca, attende il turno
né l’isola sprofonda
come vorrei.
Gennaio 1990
Lo spino bianco
Le lunghe bacche rosse splendono
intatte quando l’ottobre entra,
i cieli sono i più azzurri
dell’anno, ma freddi e brevi,
porta pace lo spino
gli agnelli bianchi brucano foglie
e frutti, dormono al ceppo
ma quando viene la bruma
nera e spessa
e scolora le bacche, cascano secche
spegne malva e falasco
fa l’acqua nera
escono allora le anime dai rami
girano come fuochi quasi spenti
ma solo chi è malvagia lascia lo spino
se c’è uno che passa
quando annotta
dovrà seguirla
e perdere la strada
L’ua
cinque o sei giorni dop che l’ua era arcolta
s’andava per le viti in sei o sette
se guardava tutt’i raspi
la testa dentro i pampani,
se pissicava tutta come i ucieletti.
28 agosto 1944
eravamo sui tetti,
tutto Urbino sui tetti,
e scendono dalla Cesana
i carri, grandi dieci volte
quelli dei buoi,
e fitti, fitti come grandine
quando fischia e rimbalza
sui vetri e contro i coppi,
perché la gente urla
e piange e ride?
che succede ai grandi
a te d’intorno
portano bene o male
i carri immensi?
e dov’era la madre,
in quale punto esatto
di quel tetto immenso
che la memoria ti spalanca
e oscura,
e le sorelle,
quella castana
che già porta i tacchi
e l’altra, la bruna,
quella con la gonna bianca?
tu giochi con la figlia
del capoguardia,
non lo ricordi,
te l’hanno raccontato,
l’orso di pezza
così morbido e folto
solo se lo sfiori
quella s’arrabbia,
tu t’allontani,
fissi campi e carri,
e s’odono colpi di mitraglia,
alla seconda pineta
c’è una pattuglia,
sola e sperduta,
ma spara,
spara con la testa nascosta
dentro l’erba alta,
spara sempre,
sono fatti d’acciaio
questi tedeschi
come i carri
che a loro
non danno scampo
e sopra i Torricini
passa un aereo
e vola basso,
verso Montecalvo,
dove i tedeschi
si sono trincerati
tu ti spaventi,
quel fischio era la porta
la porta del Rifugio,
bassa e storta,
dove se entri
non sai
se riscappi
e allora piangi,
corri dalla madre,
afferri la sua gonna
e ti ci stringi
ma la sorella grande
ti consola
– la guerra s’allontana,
sopra Urbino,
sopra la nostra casa,
gli aerei non torneranno,
non torneranno mai –
Luglio 2021
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941 e ha insegnato nell’Università della sua città. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui I luoghi persi (Einaudi 1994), Nel tempo che precede (Einaudi 2002), L’albero delle nebbie (Einaudi 2008), Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015) e Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020). È inoltre autore di saggi e di opere di narrativa (L’uomo delle Cesane, Camunia 1994; L’estate dell’altro millennio, Marsilio 2001; Olimpo, Avagliano 2006; Cupo tempo gentile, Marcos y Marcos 2012; la raccolta di racconti Anime perse, Marcos y Marcos 2018 e ha realizzato il lungometraggio L’età breve (1969-1970) e i film-poemi Sulle Cesane (1982), Un’altra estate e Ritorno d’autunno (1988). Dal 2016 è presidente del Centro mondiale di poesia “Giacomo Leopardi” di Recanati.
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